di Laura Ricci
È stato un grande e meritato successo la serata che, lo scorso mercoledì 20 luglio, l’edizione 2022 della manifestazione One Orvieto – Notti d’Estate ha dedicato alla proiezione del docu-film di Cristiano Castaldi “Homo homini virus”. Nel Giardino dei Lettori, gremito oltre ogni previsione, un pubblico quanto mai partecipe ha versato qualche lacrima, ha riso, si è emozionato, ha pensato di fronte alle interviste, sapientemente montate, delle ventitré persone orvietane, o a Orvieto strettamente legate, che Castaldi ha scelto per questo suo lavoro: ideato, scritto e diretto da lui, con la collaborazione di Patrizia Barbabella e Silvio Manglaviti per l’organizzazione e, per la realizzazione, con il prezioso apporto del figlio Zeno. L’idea di fondo: stabilire un paragone tra le condizioni patite durante la catastrofe della seconda guerra mondiale e quelle sofferte durante la fase più acuta e drammatica della pandemia da coronavirus, per trarre, dalle impressioni di uomini e donne che hanno vissuto entrambe, eventuali somiglianze e diversità.
Tra le persone protagoniste del docu-film, ultracentenaria la più anziana – Rosanna Urbani Giombini (1919) – poco più che ottantenni le meno avanti con gli anni – Luigina Bigi, Giuliana Formica, Antonio Concina – e insieme a loro, nella fascia intermedia, Ampelio Monachini, Elmo Monichini, Floriano Spagnoli, Romeo e Romualdo Graziani, Benito Prosperini, Bruno Pitoni, Mario Mari, Gino Pedetti, Domenico Masnada, Ernesto Taddei, Maria Frizza, Clara Belcapo, Giuseppina Cuccia, Sara Brunori Miani, Pasqua Cavastracci Strascia, Lina Basili, Laura Luria, Rita Severini. Uomini e donne di varia estrazione sociale, così da offrire uno spettro molteplice di ricordi e opinioni, e che anche nel linguaggio e nell’onomastica, con alcuni nomi peculiari di una volta, costituiscono una pregevole ricognizione nel tempo che fu.
Ma c’è anche l’urgenza e, per così dire, lo struggimento del presente in questo lavoro, e lo si avverte su diversi piani, sia nella concezione strutturale dell’autore, sia nelle parole e nei sentimenti che trapelano da chi parla. La macchina da presa è abile e precisa, e sa rendere con minuzia, cogliendole nella mimica facciale e nello sguardo, le sfumature articolate di emozioni contrastanti: dall’affetto al rimpianto, al timore, alla preoccupazione, alla fierezza, al dolore ancora vivo, all’ironia e all’autoironia, dall’ardire a una ponderata consapevolezza.
Cristiano Castaldi ha concepito il suo docu-film in tempo di stretto lockdown: un lungo periodo particolarmente difficile per tutti, tra problemi, divieti e difficoltà, assediati da un virus letale e infido a causa delle sue varianti in quella che, più volte, è stata definita una “nuova guerra”.
Una parentesi particolarmente dura per lui, che si occupa di danza classica e è un fotografo d’arte in questo ambito, e che ha dunque dovuto scontrarsi con la chiusura dei teatri. Ma è stato un periodo comunque proficuo – racconta Patrizia Barbabella – perché gli è venuto in mente che, non per molto, esiste ancora una generazione che ha vissuto direttamente la dura esperienza di una guerra vera, e che dunque, rivolgendosi a quella generazione, si poteva stabilire un parallelo tra queste due catastrofi degli ultimi ottanta anni, la guerra e la pandemia. Si è così rivolto a Patrizia Barbabella e Silvio Manglaviti, buoni conoscitori della realtà di Orvieto e del suo comprensorio, e con le sue competenze e la loro collaborazione il docu-film è nato.
Homo homini virus, sulla falsariga del celebre Homo homini lupus di Plauto, perché come la storia mostra il genere umano può essere ben capace di essere rovina e malattia per sé stesso, per l’altro e per l’ambiente. E la preoccupazione e la sollecitudine per la natura più o meno devastata compaiono nelle immagini che accompagnano, tra le interviste, la scansione in capitoli tematici del filmato. Che non vuole essere tuttavia solo pessimistico, ma estraendo quella “vis” – forza – che è contenuta nella parola virus, vuole esprimere anche la fiducia in una forza creatrice capace di sprigionare una stupefacente bellezza. E infatti, nella fine, le immagini diventano a colori, e restituiscono la suggestione e la bellezza della città di Orvieto e del paesaggio più intatto del territorio circostante.
Quanto al parallelo tra guerra e pandemia, la narrazione dei protagonisti e delle protagoniste del film, oltre a restituire un vissuto degli anni di guerra più difficile per la città rispetto alla campagna, dove qualche bene di sussistenza si riusciva comunque a produrre, sembra suggerire un diverso atteggiamento psicologico rispetto alle due calamità: giacché se la guerra ha spesso prodotto, nei piccoli centri, relazioni di solidarietà, la pandemia ha inevitabilmente prodotto isolamento. E quanto alla paura nelle due diverse contingenze, l’inconsapevolezza infantile che faceva presto dimenticare il pericolo dei bombardamenti e di altre situazioni di guerra, è diventata, in età avanzata, un senso forte e incombente di estrema precarietà. Oggi come allora, tuttavia, la vita sembra essere più solidale e meno dura nei piccoli centri e forse, come è stato esplicitamente sostenuto da Antonio Concina e come il film sembra indicare, è proprio incentivandone la vivibilità e la residenzialità che si può costruire un futuro più sostenibile.
Bella e coinvolgente la fine del film in cui, con un gioco di dissolvenze, i volti segnati e vissuti dei protagonisti e delle protagoniste ritrovano, in splendide foto d’epoca, le loro fattezze adolescenziali o giovanili. Un regalo della memoria fotografica, e anche il rinvenimento di un’essenza intima, forse offuscata dai segni della vita ma mai perduta, che è ancora lo sguardo a disvelare e rivelare come un’indelebile verità.