Orvieto: luogo dei luoghi comuni. Ovvero: vae victis; mai e poi mai piangere sul latte versato, se poi, peggio, sia pure stato munto in stalle chiuse a mucche fuggite!
La becera propaganda è sempre sciacalla. Il momento è di quelli a rischio sovraesposizione mediatica. Tipico e fisiologico in stagioni di primarie ed elettorali; limo di promesse demagogiche e anche populiste.
Rimborsi. Se e quando, chissà, qualcosa arriverà (ben sapendo trattarsi poi di fondi che il Governo dovrà stornare da risorse destinate ai lavoratori: che quindi saranno loro, saremo noi a doverci pagare i danni di tasca nostra), se qualcosa, dico, arriverà, ammesso e non concesso, si deve sapere che si tratterà di ben poca, pochissima cosa (da dividere tra l’altro con Toscana e Lazio e, la quota umbra, spalmata tra Perugino ed Orvietano. Si provi a indovinare chi farà di tutto tra noi e il capoluogo per accaparrarsi la fetta più grossa?).
Se veramente (ma ho i miei ragionevoli dubbi in proposito e in quanto a pensarla male condivido le asseverazioni di Andreotti) la politica vuol dirsi onesta e retta, proponga invece cose concrete: si adopri nelle sedi competenti, ad esempio, per (ri)portare qui almeno un miserrimo distaccamento del centro nazionale concorsi di Foligno (la Grassa!). A suo tempo, mentre si chiudeva il Casermone, Orvieto fu una delle sedi candidate, ma la malasorte riuscì a scipparci quel ruolo – che sarebbe stato benissimo aLa Piave (essendo poi Orvieto anche geograficamente strategica e meglio servita dalle direttrici intermodali). L’onorevole politica se ne faccia carico. Un fatto concreto.
Cara politica, è fin troppo facile strumentalizzare sofferenza e dolore; approfittarsi delle situazioni critiche; trovare varchi nelle menti, nei cuori, nelle pance, indeboliti e provati. Il fiume (e il Padreterno) non hanno colpe: il fiume è un elemento naturale e della natura segue le leggi. Il caso non esiste, il Caos sì. Il fato non esiste, i fatti sì. Per Orvieto è davvero purtroppo l’anno zero: un neodopoguerra. Il Paglia lo conosciamo bene (…e i nostri “polli” pure).
Tra qualche giorno, esperti e tecnici, autorità in materia, analizzeranno finalmente l’evento, scientificamente, e sciorineranno dati.
Ma quale arido dato riuscirà mai a dirimere dubbi sul fatto che ci si sia lasciati sorprendere da un fiume che non ha mai riservato sorprese?
Quale carta tecnica previsoria potrà mai fare da paravento a responsabilità se non altro oggettive nella gestione territoriale?
Questa è l’ora dei fatti. Le chiacchiere – per quanto necessarie – si chiudano presto (a cominciare dal sottoscritto; ma lasciatemi dire ancora qualcosa). Fare. Fare e basta! (Ri)organizzare, per esempio, il sistema di monitoraggio e controllo, verificarne l’effettiva efficienza e rispondenza. Approntare modelli congruenti, veritieri (non verosimili) dell’impatto, degli effetti di possibili eventi calamitosi di qualsiasi natura sul territorio. Avere il coraggio di tagliare e cambiare policy abitudinali, consuetudinarie nel locale Disaster Management. Un’altra catastrofe sta sempre potenzialmente all’uscio, altro che cassandre. Conoscenza e consapevolezza. Verità e responsabilità. Chiarezza.
La storia geografica del nostro territorio e quella del bacino e del corso del Paglia in particolare racconta l’interminabile continua sequela di alluvioni ed inondazioni che li hanno caratterizzati nel corso del tempo. Il Paglia, il cui corso è vecchio di qualche centinaio di migliaia d’anni (essendosi impostato su sedimenti quaternari e plio-pleistocenici), ha generato due vaste e fertili pianure alluvionali; nell’alto corso, quella tra l’Amiata, da cui nasce, e Acquapendente; proseguendo, dopo la stretta tra l’Alfina e Monte Rufeno – Meana, quella orvietana, tra Allerona – Monte Rubiaglio e Palliano. A testimonianza della forza impetuosa del Paglia, parlano i relitti dei manufatti umani. I ponti antichi distrutti; etruschi, romani, medievali, tra Monte Rubiaglio e Orvieto. Quel che resta del porto fluviale etrusco-romano di Palliano, alla confluenza Paglia-Tevere. Il relitto archeologico del Ponte della Mola (romano, sul tracciato della consolare Traiana); quello in secca di Mastro Janne (medievale, già sulla direttrice consolare Gioviana; sarà ristrutturato poi da Giulio II e rinominato come Ponte Giulio), per la migrazione del fiume700 metria Nord Est; Le Colonnacce, loquace toponimo di resti diruti, a ridosso della confluenza del Romealla – FossoLa Nonanel Paglia, sul percorso etrusco più tardi ripreso dalla consolare Cassia, via che da qui proseguiva sul crinale, ora calanchivo sede delle discariche, verso Nord al Muro Grosso sul Chiani; il ponte di Santa Illuminata, di epoca medievale, che sarà sostituito da quello dell’Adunata a valle della confluenza del Chiani nel Paglia. Le fonti e le antiche cronache, dal Codice Diplomatico, al Manente ai Commentari di Monaldo Monaldeschi della Cervara, raccontano delle alluvioni storiche del nostro fiume, dei conseguenti danni alle persone, agli animali e delle rovine alle cose ed ai manufatti.
In più anche precisi elementi della morfologia fluviale ne palesano le evidenti caratteristiche di instabilità, di corso e regime ad equilibrio storicamente precario. Tra questi l’esistenza dei meandri. In una foto anteriore al 1930 si vede chiaramente il meandro sul Paglia presso Le Colonnacce. Meandro che vedrà abortita la propria evoluzione naturale, mutilata, in quanto a circa metà della propria vita (che non dipende dal tempo trascorso ma dai fenomeni naturali che vi intervengono), dopo una ventina d’anni sarà presto “saltato” da un nuovo canale; un by-pass formatosi in seguito ad un sicuro violento e repentino evento alluvionale (come si evince dalla cartografia IGM degli anni ’40 aggiornata al 1953). In una successiva foto aerea del 1954 quel meandro infatti è definitivamente scomparso. Questa velocità di creazione e distruzione idrogeomorfologica è la prova provata della forza, della potenza del fiume. Forza da rispettare con umiltà, come tutte le manifestazioni della Natura, non da maledire o benedire a seconda che si trasformi in pericolo – per la presenza dell’uomo a contrastarla, inutilmente – o in ricchezza per la fertilità del limo e l’irrigazione delle terre. Purtroppo le esperienze del passato, come sempre ci accade, non hanno insegnato nulla.
Eppure il Paglia ci avvisa del proprio carattere da quando esiste. Fino a quasi tutta la prima metà del Novecento non esistevano insediamenti estensivi ed intensivi nel Piano di Orvieto, e una ragione doveva pur esserci. Sembra del tutto inutile chiedersi come mai si sia pensato, voluto, deciso, progettato, realizzato e continuato a perseverare il futuro bicefalo urbanistico orvietano oggi conclamato: la diabolica divisione tra l’isola rupestre e la new town anni ’70 sul fiume.
Orvieto per tremila anni era stata sempre e solo rupestre, con uniche espansioni suburbi che etrusche e medievali alle pendici occidentali tra il Campo della Fiera e Sferracavallo (affreschi trecenteschi nella Cappella del corporale in Duomo). Non ci sono infatti particolari e significative emergenze etrusche e medievali nel settore orientale orvietano a ridosso del Paglia – Chiani. Come invece esistono appunto nel Suburbio e nel Campo della Fiera.
La mente umana (il profitto) s’è inventata una improbabile città sul fiume ma con un unico isolato collegamento, il ponte dell’Adunata (a rischio perenne). Come se non bastasse, di là dal fiume è stato fatto pure il polo ospedaliero e quello maggiore scolastico di tutta l’area urbana (quest’ultimo persino su un terrazzo fluviale, instabile per natura ed antonomasia ed ulteriore teste geomorfologico della forza delle acque sul terreno ed i suoli). Beh, complimenti. Non c’è che dire.
L’alluvione del ’66 è stata rimossa, come quelle prima; ma fino alla fine degli anni ‘60 laggiù c’era pressoché nulla o poco; e quelle dopo, chi ricorda l’interrogazione Conticelli-Scopetti sull’ultima, dei Laghetti, nel gennaio 2010?
Il vero rischio ora è quello solito tipicamente italico della rimozione psicologica, del buonismo farisaico, del perdonismo ipocrita. È vero, non dev’essere questa l’ora delle polemiche gratuite, del “l’avevo detto”, del “si sapeva”. Sarà utile invece restare arrabbiati quel tanto che serva verso quelle spregiudicate politiche da ilgatto&lavolpe; che hanno consentito l’avventurarsi ignaro su orli di precipizi franosi, l’incamminarci scalzi e stanchi dentro nebbiose paludi. Arrabbiati, sì, per stare svegli, vigili, contro l’interesse del profitto ad ogni costo e cercato sulla pelle degli sprovveduti e dei bisognosi. O, anche, su quella degli avidi. E degli speculatori.
Impegnamoci tutti a conoscere benela nostra Terrae a rispettarla.La PREVENZIONE, che abbatte i costi delle emergenze, si regge sulla consapevolezza di ogni singolo cittadino responsabile.
Lunedì 12 11 2012 la nostra Apocalisse; la nostra anticipata finedelmondomaya, prevista invece per il 21 12 2012. Non cancelliamo dalla memoria quello che il Fiume ci ha voluto (di)mostrare: dove sarebbe comunque potuta finire la sua acqua (che è sempre risorsa primaria preziosissima); dove di fatto è andata e dove – facendo debiti, per quanto inutili, scongiuri (della serie, non ci credo ma funziona) – andrà di nuovo. Perché i tanto sbandierati tempi cosiddetti di ritorno non sono affidabili, checché se ne possa e voglia dire.
Causa, i cambiamenti climatici in atto. Ricordiamocelo. Non dimentichiamolo mai più.