di Franco Raimondo Barbabella
Sì, oggi 22 giugno 2025 è un giorno importante, un giorno di memoria strategica. Nel numero in distribuzione di “Lettera orvietana” il neo direttore Mino Lorusso spiega “Il valore della memoria”, che non è solo conservazione di ciò che è stato ma anche e soprattutto ricchezza di relazioni e possibilità di futuro.
La sollecitazione di Mino Lorusso è giunta al momento giusto, perché cade nel giorno di un anniversario, il ventesimo, importante per la città e per l’intero territorio orvietano. Infatti, il 22 giugno 2005 il Consiglio comunale approvò all’unanimità il Business plan di RPO Spa, un piano molto serio e fattibile nei diversi aspetti (strategico, economico, funzionale).
Subito dopo, e io penso proprio perché era fattibile (perciò avrebbe cambiato il sistema degli interessi), iniziò non l’impegno corale per la sua rapida realizzazione, ciò che ogni mente razionale riterrebbe normale e doveroso, ma al contrario un impegno diffuso per il suo affossamento, con un vero e proprio boicottaggio di RPO da parte del socio unico (il Comune di Orvieto), fino alla sua chiusura. Il proprietario di una società che boicotta la sua stessa società perché ha lavorato bene e funziona è cosa mai vista a memoria d’uomo. A Orvieto è accaduto. La vicenda ha poi avuto una coda estremamente significativa. A seguito di dichiarazioni pubbliche e di articoli chiaramente strumentali fu aperta una inchiesta da parte della Corte dei conti per verificare se fosse vera l’accusa che attraverso quelle dichiarazioni e quegli articoli veniva mossa a RPO, ossia di aver speso male il denaro messo a disposizione dal Comune per il BP e le attività di istituto, in sostanza di aver sperperato denaro pubblico.
Seguirono indagini delle Guardia di finanza, raccolta di documenti, rinvio a giudizio dei sette componenti il CdA di RPO con la richiesta di risarcimento per ciascuno di essi di oltre centomila euro, sì avete capito bene, proprio oltre centomila euro (per me 107.000 euro e rotti). Non ci si crede, perché l’operato era del tutto chiaro addirittura a lume di naso, ma durò invece oltre due anni, avvocati, stesura di memorie, colloqui ripetuti, uno stillicidio. Spese. Una sofferenza doppia proprio perché sapevamo di aver agito con totale correttezza e trasparenza nel solo interesse pubblico. L’esito fu quello che era scontato in partenza: totale assoluzione per aver agito nella più totale correttezza e addirittura condanna del Comune al risarcimento delle spese legali.
Che dire? Ci sarebbe stato di che riflettere, nell’istituzione, nei partiti, sulla stampa così pronta quando si tratta di dare addosso. Invece niente. La vicenda è passata come se fosse pioggerellina di marzo. Soprattutto, da quel momento il Business plan è stato messo da qualche parte a prendere polvere. Attenzione, l’immobile allora valeva intorno ai trentacinque/quaranta milioni. E la trasformazione altrettanti. Oggi qualcuno lo vorrebbe addirittura regalare.
Una assurdità questa del nascondimento del BP, non solo per la sua natura di strumento che coglieva le potenzialità della città e del territorio e le proiettava in una dimensione di nuovo sviluppo, ma per il fatto che, pur con i limiti imposti dal Comune all’atto della sua istituzione (soprattutto l’eccesso della parte pubblica, che limitava troppo il rendimento complessivo dell’operazione), rappresentava e rappresenta ancora uno strumento sufficientemente flessibile da poter essere trasformato e migliorato. Perché ignorarne addirittura l’esistenza?!
La conseguenza di questo atteggiamento, di fatto il rifiuto di una politica progettuale strategica, ha trasformato quella che era oggettivamente una risorsa e un’opportunità in una cosa vissuta come peso, come palla al piede, come problema di cui liberarsi. E lo si è detto addirittura senza vergogna. La conseguenza è che si è dato credito a strane e confuse soluzioni prive di ogni seria base, ovviamente tutte fallite.
Tranne una, che poteva essere davvero strategica, in stile RPO, la proposta di realizzare nell’ex Piave quello che abbiamo chiamato “Museo dei musei” mediante una convenzione sostenuta dal Ministero della cultura con i più grandi musei italiani. Una proposta lanciata due anni fa per rendere fruibile il grande patrimonio che ora giace appunto nei magazzini dei grandi musei, spesso senza possibilità di fruizione, con mostre temporanee e attività connesse (ricerca, restauro, scuole di formazione, promozione a latere di un museo d’arte moderna, ecc.) tali da trasformare la città e il territorio davvero nel luogo italiano dell’arte e della cultura con respiro internazionale.
Anche questa idea, che peraltro sta prendendo piede in altri Paesi e grandi centri mondiali (Londra, ad es.), che pure era collegata all’uso dei fondi PNRR e che eravamo riusciti a portare all’attenzione dello stesso Ministero della cultura, sta lì senza sapere se può andare avanti o no.
Importanza della memoria dunque. Non per fare archeologia delle idee ma per riflettere, cambiare ciò che non funziona e cercare finalmente una soluzione. Non ci aiuta nascondere la verità dicendo alla Bartali “L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare!” (si è sentito in questi giorni) o dicendo “fallimento, fallimento! (si è sentito anche questo), né ci aiuta l’inerzia in attesa del miracolo. Il mondo è pieno di possibilità.
Non si parte da zero. Si riprenda dunque con buona lena una logica progettuale. C’è molto da riflettere su questi venti anni. Si torni a discutere di città e di ruolo territoriale, si guardi avanti, si scruti con occhi acuti e mente sgombra le possibilità di futuro. Ci si accorgerà con sorpresa che in questo quadro anche per la ex caserma Piave ci può essere un ruolo possibile. Ma la condizione di base è non dar retta ai distruttori di speranza, a chi è perennemente interessato a navigare nel minimalismo molto vicino al nulla. Chiediamoci, almeno quelli di buona volontà, “Quo vadis, Orvieto?” e ci accorgeremo che ci sono anche altri che si fanno la stessa domanda. Non può essere un caso.