di Dante Freddi
La bottega aveva l’odore del cuoio. Piccola, buia, rischiarata soltanto nella parte dove era la porta a vetri e il banchetto di Tonino, che lavorava seduto su un robusto sgabello. Tonino, sempre un chiodino in bocca, pronto ad appoggiarlo al cuoio o alla pelle e a batterlo con il martello a base tonda, preciso, sicuro, aveva tutti i giorni la visita di qualche amico in quella sua bottega. Quando il tempo lo consentiva metteva in strada il tavolinetto con sopra gli attrezzi ordinati e si trasferiva lì per lavorare, un paio di sgabelli a lato, per gli amici.
Davanti alla sua bottega passava mezza città e le occasioni per vedere, ascoltare e raccontare erano la sua distrazione, il divertimento, suo e dei suoi compagni. La bottega era sulla via principale, che portava alla cattedrale, e tutti gli passavano davanti per lavoro o per fare quattro chiacchiere con chi c’era in giro. In quella via c’erano altri ciabattini e ciascuno aveva il suo capannello affezionato.
Tra questi ospiti c’era Gerardo, amico di Tonino dall’infanzia e, arrivati a cinquant’anni, cominciavano a ricordare i tempi trascorsi e le belle donne dei loro tempi, che spesso sfilavano davanti a quel pubblico.
«Guarda, arriva Fiorella con il figlio. Assomiglia tutto e Bernardo. Ti ricordi Bernardo, il sergente?», affermò Tonino.
«Lei disse che non era suo, ma gli mancano soltanto le stellette», continuò.
«Com’era! Bella, bella, bella. Me la rammento quando passeggiava qui davanti e la seguiva una fila di soldati che arrivava alla Torre. Mora, riccia, occhi scuri, labbra carnose, ben messa dappertutto, con quelle calzette bianche che ornavano due cosce lunghe e affusolate, piene».
«Ah se me la ricordo!» rispose Gerardo. «Gli ho corso dietro per mesi, ma non l’ho mai arrivata. Eravamo in tanti a correre, ma lei si mise con quel sergente, che chissà che aveva!».
«Era del Nord, parlantina vivace, sveglio, belloccio, ci provava con tutte le nostre donne e il padre di Fiorella gli ha dato anche un paio di ceffoni, una volta. Era grosso e ruvido, lui, il marmista. Andò dal colonnello a lamentarsi, Bernardo sparì e dopo qualche mese nacque il figlio di Fiorella. Fu uno scandalo, lei si trasferì dalla sorella a Roma, si sposò, e ora eccola lì, ancora a tiro, che fa avanti e dietro».
«Se a uno gli vuoi male, auguragli che la figlia si fidanzi con un sergente. Scappano sempre e lasciano i frutti», riprese Tonino, esprimendo un sentimento diffuso tra i padri di figlie femmine della città. «Questi militari porteranno pure quattrini, ma che rogna! Quando escono si versano in migliaia per le vie, sono giovani, qualcuno non sa neppure dove si trova ma altri sono vispi, qualcuno ha anche soldi e tra una mancia in trattoria alla cameriera o alla commessa, un occhietto, un complimento, hai voglia a dire alle figlie di stare a casa quando c’è la libera uscita! Con una scusa vanno in giro e non sai mai cosa succede. Io a mia figlia dico sempre di stare attenta, di non dare confidenza, di andare sempre con un’amica, ma anche se ormai è una donna, sono sempre preoccupato. Almeno trovasse un solido maresciallo, di quelli che rimangono qui!».
Arrivò in quel momento Roberto, detto Bufalino per l’aspetto e il carattere. Aveva i peli che gli uscivano dal collo della camicia, avanti e dietro, e dai polsini, prorompenti, alla ricerca di luce. Muratore, lavorava per sé, con un ragazzetto che gli faceva da manovale. La sera, quando poteva, si sedeva su uno degli sgabelli lì da Tonino, perché non poteva andare all’osteria. Aveva promesso alla moglie e alla figlia che avrebbe smesso di bere. Era già difficile senza tentazioni e andare all’osteria sarebbe stata una prova che temeva di non poter superare. Quando si ubriacava cominciava a piangere, triste, ripassava tutte le sue disgrazie e anche gli amici non lo sopportavano.
«Tonino, con questa bella giornata sarai stato tutto il giorno a guardare il passeggio, no? » disse Bufalino, sarcastico, senza neppure salutare.
«Sì, effettivamente questa suola mi rigira per le mani da stamattina. Qui si vedono tutti i giri e i giretti. Ho visto anche tua figlia che andava di qua e di là con la ronda che proteggeva un soldato in libera uscita dalle sue proposte» se ne uscì ridendo il ciabattino.
Bufalino, poco avvezzo alle spiritosate e morbosamente geloso della figlia lo guardò feroce, ma si trattenne e rispose aggressivo «Tu pensa alla tua di figlia e soprattutto alla tua signora, che passa le ore al mercato, sempre allo stesso banchetto, quello del bolsenese».
Gerardo lo guardò male, cercando di comunicargli che doveva piantarla lì.
Loretta, la moglie di Tonino, una donna sulla quarantina ancora frizzante e piacente, dicevano che simpatizzasse con quell’ortolano bolsenese che veniva in città il giovedì e il sabato e a Tonino lo aveva detto un amico, di quelli che hanno gusto a fare gli amici. La battuta si fondava su una sospetta verità, una di quelle verità che non importa se siano vere, quando tutti ci credono. Tonino però aveva fiducia in sua moglie e la sua rabbia non era perché lei lo tradisse, che sapeva non essere vero, né perché passava per cornuto, ma perché la gente credeva che la sua Lina lo tradisse, che fosse una moglie infedele. In quel momento avrebbe voluto affermare con energia la verità, la fedeltà di sua moglie, ma le parole non gli venivano. Si fece silenzio per qualche secondo e Gerardo ruppe quel disagio ricordando che «Le donne se sono belle non possono scherzare con nessuno, che subito i maligni chiacchierano, invidiosi. Ma se noi ce la prendiamo per le battute di che parliamo, di Chiesa?».
Era quanto pensava e avrebbe voluto dire il ciabattino.
La tensione si sciolse e Bufalino, per sdrammatizzare, consapevole di averla fatta grossa, perché il riferimento di Tonino a sua figlia era paradossale, la sua invece era una battuta credibile, pungente, maligna, continuò: «No, di Chiesa no, non ci capisco un cavolo di messe e messali e dovrei stare zitto».
«E poi andremmo subito a parare su qualche prete e, ovviamente, sulla perpetua e sul figlio del prete, perché c’è sempre un figlio del prete».
E Gerardo: «Zitto e non guardare, che viene su dalla torre Margherita, la sorella di don Giustino, e quando si parla di preti lei lo intuisce subito, per le parole che si dicono: confessione, peccato, comunione, vigna, lire», riprese Gerardo ridendo.
«Tutti alla ricerca di una bella parrocchia con poche anime e tanta vigna. E a don Giustino gliene è capitata una proprio giusta. Dicono che ha comprato al nipote due case e la bottega dove lavora», rilanciò Bufalino. «Almeno qualcuno se li gode quei soldi. Dovevano essere per i poveri e suo nipote era povero!».
Dal gruppetto emerse una risata fragorosa che fece girare Margherita. Salutò con la testa e continuò tranquilla la sua strada.
Tonino aveva finito di risolare la scarpa e ne prese un’altra, con un tacco logorato ma con il cuoio della tomaia ancora buono. Si vedeva che era una scarpa di fattura fine, roba da quattrini, marrone scuro, con intarsi di cuoio incollati lungo i lati e sulla punta.
«Una volta ho sentito dire che per conoscere una persona bisogna aver fatto molti chilometri nelle sue scarpe», buttò là Tonino, offrendo con soddisfazione una delle sue perle di saggezza ciabattina.
«Queste scarpe sono del conte Santoni e qualche anno fa non avrebbe mai portato un paio di scarpe risuolate. I tempi però cambiano e ora i ricchi sono quelli che hanno comprato le sue terre, Faccini, Marrotti, Simonetti, e Lombetto, il norcino, il più ricco di tutti. Il conte aveva tanta parte del piano del Paglia e ora s’è mangiato quasi tutto, ma poiché quelle scarpe non le ho mai indossate non so perché abbia fatto questa fine. La mano infilata nella sua scarpa mi dice che sono stati i figli, gli studi e le carte».
«Per fortuna che non andava dietro anche alle donne, sennò sarebbe stato alla fame», riprese Bufalino. «Io ho lavorato nella sua villa in campagna, su all’Alfina. Un posto stupendo e intorno un podere con tre case coloniche, una decina di contadini, tanta cose, grano, animali, bosco. Ora è di Morrotti e ogni piccolo lavoretto bisogna contrattare giorni e per farti pagare occorre tirare il collo lungo come quello di un’oca», concluse il muratore.
«Santoni è rimasto un signore e quando la donna viene a prendere il lavoro paga sempre senza una parola. È che generazioni senza lavorare e senza interessarsi dei propri beni arricchiscono soltanto i fattori e chi fa affari con loro. Il conte è uno studioso di cose etrusche e i suoi interessi riguardano il passato più che il presente. Ha tanta roba etrusca in casa e ha perfino stampato un libretto con il catalogo dei suoi pezzi. Si dice che valgano un patrimonio. Se qualcuno non glieli frega», concluse il ciabattino.
«A forza di vendere gli è rimasto poco, ma sempre tanto rispetto a me» riprese Gerardo. «Oggi i soldi ce l’ha chi commercia, chi guarda avanti e non chi guarda indietro o chi si ammazza di lavoro tutti i giorni per un pezzo di pane e un po’ di companatico. Tra un paio di generazioni, si troveranno anche nobili che lavorano», concluse il suo discorso Gerardo, che era impiegato comunale e se la cavava bene. Lavorava nell’ufficio anagrafe del Comune e sapeva tutto di tutti. Era iscritto al Partito fascista ma proveniva da una famiglia cattolica e aveva votato per il Partito popolare nel 1919. Dopo la marcia su Roma tutti i suoi amici erano diventati subito fascisti, anche il segretario cittadino del suo partito, che lo aveva fatto assumere in Comune. Così, confuso e indifferente, era diventato un fascista tiepido. I suoi due amici di chiacchiere lo tenevano in gran conto, perché lo temevano per la sua posizione di impiegato ma soprattutto perché lo amavano, da quando erano tutti e tre bambini. Abitavano nello stesso quartiere ed erano cresciuti tra il Duomo e San Francesco, tra quei vicoli, in quelle piazze, rubacchiando la frutta negli orti, facendo a botte con quelli di sant’Andrea, andando insieme la mattina in quella grande scuola elementare, lì, sotto l’orto del Duomo.
Gerardo Bellini era un uomo buono, generoso, e si faceva coinvolgere in quelle chiacchiere maligne perché pensava che non fosse grave e perché erano gli unici argomenti che poteva condividere con i suoi amici. Era sposato e aveva un figlio grande, impegnato in politica, un fascista nato con il fascismo e che conosceva soltanto quello che gli dicevano a scuola e all’università, dove studiava Giurisprudenza. A casa non si parlava di politica e Bruno, così si chiamava, aveva assorbito tutta la propaganda fascista senza contraddittori. Ora aspettava con ansia la guerra, di cui si parlava da mesi, ma che non arrivava mai.
Tonino, Gerardo e Roberto non parlavano di politica e neppure di argomenti che coinvolgevano le scelte del Fascismo. Soltanto quando furono approvate le leggi razziali, commentando quanto era cambiata la vita del signor Milano, gioielliere importante, si trovarono d’accordo che “non era giusto”. Poi finì lì e ciascuno si tenne il suo parere su come andavano le cose.
Passò la guerra, la città non aveva subito danni, nel Nord l’economia andava a tutto spiano e i tre amici si trovavano ancora a bottega di Tonino, che era l’unico ciabattino rimasto in quella via, dove avevano aperto una cartoleria, un nuovo pizzicagnolo, una macelleria, un ristorante di grande livello, che mostrava in vetrina pesce con sopra la maionese e arrosti mezzi crudi, e perfino un negozio che vendeva ceramiche. La figlia di Bufalino era stata fidanzata con un sergente e fu una disgrazia per il muratore. Il ragazzo però l’aveva sposata e dopo qualche anno a Pordenone era stato trasferito a Orvieto, come maresciallo, alla Smef. Il figlio di Gerardo in Albania e poi in Grecia si accorse che non sapeva nulla della guerra e del fascismo e dopo l’8 settembre andò in montagna con le brigate cattoliche. Fece per tutta la vita l’avvocato, apprezzatissimo, con una carriera politica di successo e un gran seguito in città.