di Claudio Bizzarri
E’ un piacere notare come la Necropoli di Crocifisso del Tufo sia stata recentemente “attenzionata” (neologismo discutibile ma efficace) da parte della Direzione Generale Musei del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo (in questo caso è da ringraziare per l’impegno la neo-direttrice Lara Anniboletti).
Quasi in ogni fine settimana si sono svolte attività culturali rivolte ad un pubblico ampio che hanno permesso di comprendere meglio questa importante e vitale testimonianza del nostro passato, parte integrante e sostanziale del PAAO (Parco Archeologico ed Ambientale dell’Orvietano).
Anche sabato e domenica nella necropoli si potrà partecipare ad eventi a tema, inseriti nelle Giornate Europee del Patrimonio.
Domenica 27 settembre, alle 16, meteo permettendo, si riapre il piccolo antiquarium nel quale sono esposti una piccola parte dei materiali rinvenuti negli scavi recenti. Il “museo” è dedicato a Mario Bizzarri, l’archeologo che ha condotto le prime indagini scientifiche in questo sito, dopo le esplorazioni “sommarie” del XIX secolo.
Si cercherà di offrire uno spaccato della vita dello scavo, di capire cosa significava, logisticamente ed umanamente, passare un paio di mesi all’anno impegnati nelle campagne nelle quali c’erano studenti universitari ma anche, e soprattutto, una schiera di operai nei quali era difficile non riscontrare caratteri etruschi.
Uomini avvezzi a spostare metri cubi e metri cubi di terra al giorno, altro che bisturi e pennello, con una professionalità impressionante ed una sensibilità ai cambiamenti stratigrafici che non poteva venire da altro se non dalla quotidiana dimestichezza con la ferace terra etrusca. Mi sembra ancora di sentirli parlare: “dotto’, qui cambia ….”.
E’ questo che si cercherà di comunicare domenica prossima, lasciando da parte quell’archeologia “dotta” (e talora distante dai più), ricordando che ne esiste un’altra, proprio con le parole che Mario scrisse a sua moglie in una lettera data 1956: “due sere fa sono stato invitato a mangiare la “porchetta”, cioè un maiale arrosto cotto intero. Non si tratta solo di mangiare, del vizio della gola che può soddisfarsi.
Ma c’è qualcosa di più profondo e di più antico. Il gusto della mensa, di un rito che ha anche le sue esigenze estetiche (prima di mangiare la “porchetta” è portata intera a far vedere, appena cotta ancora infilata nel lungo bastone), il piacere epidermico dello stare riuniti, di ritrovarsi fra amici, di riscaldarsi allo stesso calore. E la cerimonia è cementata da un vinello dolce e agro, il vino nuovo, il mosto ancora torbido. Questa è … l’archeologia che io preferisco!