di Franco Raimondo Barbabella
Inutile girarci intorno, sta venendo alla luce la realtà del Paese e di quella nostra, e bisogna farci i conti. La crisi dell’Umbria era già grave, uno scivolamento verso condizioni da regione meridionale, e Orvieto stava dentro questo scivolamento. Ora è arrivata la crisi del coronavirus, che al momento non colpisce direttamente né Orvieto né l’Umbria ma che è destinata a lasciare il segno anche qui, come nel mondo e in Italia, in modo più o meno pesante, e già lo vediamo.
Per valutarne la portata non vale attardarci sulla natura di questo virus (che appartiene alla categoria dei virus deboli, quelli mortali solo in casi particolari) quanto piuttosto considerare, oltre agli errori commessi, l’insieme delle debolezze che evidenzia e delle conseguenze che innesca la sua vasta diffusione. Non illudiamoci con l’idea che “ha da passà ‘a nuttata”, non sarà così, nulla sarà come prima, non può essere come prima, perché i problemi riguardano gli orientamenti, i comportamenti, l’organizzazione, insomma gli aspetti che ci consentono o no di stare all’altezza delle sfide del mondo contemporaneo, per quello che è, non per quello che immaginiamo o desideriamo.
Ci saranno, perché ci dovranno essere, trasformazioni profonde, nei modi di organizzare la vita collettiva e nei modelli di vita individuale, nelle abitudini, nei modi di produzione e nell’organizzazione del lavoro. Se la caveranno meglio, e potranno conoscere una nuova stagione di sviluppo non effimero, le realtà capaci di ripensarsi e reinventarsi, quelle che sapranno mettere a frutto le risorse territoriali collocandosi in modo creativo nei propri contesti, quello più vicino e quelli più lontani. Le crisi sono sempre anche occasioni di rilancio se le classi dirigenti sanno farsene interpreti.
Il dibattito elettorale amministrativo di dieci mesi fa sembra preistoria. E anche quello che ha accompagnato le elezioni regionali non si è molto distaccato dai tradizionali cliché della politica nostrana. L’idea di molti era infatti che si potesse pensare ed agire a bocce ferme, per cui chi avrebbe preso il potere avrebbe poi potuto plasmare la realtà secondo un modello proprio, peraltro allora quello dal consenso più facile. I primi otto mesi di governo locale hanno avuto proprio questo segno: dalle vicende di TeMa-Teatro e CRO alle modalità di approccio ai grandi temi (sanità, trasporto, turismo, cultura, ecc.) la linea di governo è stata caratterizzata dallo stare ben chiusi nel proprio recinto, dal non arrecare troppo disturbo al potere regionale (nel frattempo cambiato nel segno ma non nella logica) e dal non osare di avanzare proposte capaci di collocarsi in dimensioni di qualità e di livello nazionale. Eppure Orvieto e il territorio orvietano, si è detto sempre e così è, o vivono in una prospettiva ampia di quel livello o non sono, non vivono, non hanno futuro.
Ora è arrivata la crisi che sconvolge gli orientamenti e i piani, quella del coronavirus. Ed è arrivata nello stesso momento in cui si raccolgono i frutti negativi di una città e di un territorio che per un lungo periodo si sono chiusi nelle discussioni di un ambiente innamorato del galleggiamento e di classi dirigenti accecate dagli illusori vantaggi della navigazione a vista. Così Orvieto oggi scopre la crisi demografica e incomincia a percepire le conseguenze davvero serie dello scivolamento al di sotto dei ventimila abitanti.
C’è chi lo aveva detto da tempo senza essere mago o ritenersi tale, ma guai a dire le verità scomode; queste pare che sia più emozionante scoprirle quando sono accadute, perché magari così può essere ben coltivata la tanto amata logica emergenziale. Comunque sia, oggi ci siano dentro, ed è uno scivolamento preoccupante, ma non tanto perché ci spinge verso la condizione di paesotto di provincia (di bei paesotti ce ne sono tanti), quanto piuttosto perché genera degrado culturale e incide in profondità sul tessuto sociale ed economico. È lo scivolamento verso una condizione di città senza ruolo e vocata ad una vita di ricaschi, una città decadente.
Oggi si tratta dunque di riorganizzare le strategie. Un punto di fondo sembra chiaro: il futuro va ripensato adesso, proprio quando la crisi morde, perché è adesso che si reagisce, ci si riorganizza e si fanno le scelte che poi condizionano le logiche del pensare e dell’agire e le direzioni dell’organizzazione collettiva. Il futuro sarà caratterizzato da un bisogno di residenzialità con caratteristiche complessive di protezione e di qualità il più possibile elevata e da una mobilità efficiente e controllata. Ma anche da legami multipli con ampia base territoriale e nel contempo con ampia diffusione del digitale e in particolare dello SmartWorking. Orvieto può essere una delle città che ce la possono fare in ragione di storia, posizione e potenzialità. Ma, dobbiamo saperlo, questo risultato non ce lo regalerà nessuno: dipende certo da condizioni esterne, ma non meno da quello che sapremo fare noi.
Appunto, in queste condizioni non ci si può fermare all’idea dello sviluppo monodirezionale: lo sviluppo deve avere carattere polisettoriale, deve avere natura progettuale con ampia base territoriale e deve essere improntato a logiche collaborative e di sistema. Il modello Civita non può essere il nostro modello, per tante ragioni. Che succede, tanto per dire, quando un settore entra in crisi, in questo caso il turismo di massa internazionale? Oggi è diventato ben chiaro, se non lo fosse stato già, che puntare sul turismo dequalificato è una miopia assoluta.
Ecco che cosa cambia a livello di strategie dello sviluppo per l’uscita, certo difficile, ma possibile, dalla crisi. Ci vuole un progetto ambizioso di riorganizzazione e di ricollocazione progettuale nel contesto. Devono funzionare i servizi (sanitari, di trasporto, scolastici, di connessione, ecc.), sennò è inutile che parliamo di residenzialità. E per la stessa ragione vanno create condizioni favorevoli ad investimenti polisettoriali. Va incentivato l’uso del digitale, va curato l’ambiente. Ci si deve presentare in regione con una progettualità ambiziosa nei settori vitali, dal credito ai rifiuti, dalla sanità ai trasporti, dalla cultura alla scuola. E come trasformiamo il tema oggi smorto delle aree interne in un vero progetto di cambiamento territoriale strategico? E quando ci decideremo a voler diventare patrimonio mondiale Unesco?
E la ex caserma Piave? E l’ex ospedale? Ma pensiamo davvero che sia saggio continuare nella strategia di attesa di un campus universitario? Il problema non è tanto che da anni e anni si punta su qualcosa che non prende mai corpo, ma è che le scelte monodirezionate sono pericolose. Anche qui domanda: e se poi gli studenti americani ad un certo punto non vengono perché si creano condizioni di crisi, che si fa, si chiude baracca? Non sarebbe meglio tornare a ragionarci come occasione per farne quel pezzo di città che manca e che la può ricollocare sia nel territorio che nel contesto nazionale come città che offre qualcosa di stabile che altri non hanno? Basta con il minimalismo! Eccone esempi probanti. Sanità: non scambiamo il necessario completamento e ammodernamento del servizio ospedaliero con le ben più impegnative scelte strategiche di livello territoriale coordinate con l’intero sistema provinciale e regionale! Banca: non scambiamo la prudenza necessaria su ciò che non ci compete con la rinuncia non solo a proporre ma addirittura a parlare di ciò che ci compete eccome, ossia lo sviluppo, le sue priorità e le necessarie strategie finanziarie. Bisogna cambiare, ma il cambiamento positivo o è ambizioso o è solo apparenza, non è un regalo, è una conquista.
Questo è l’atteggiamento mentale che dobbiamo conquistare. Tutti, ambienti culturali, ambienti economici, ambienti sociali e politici. Grande sforzo? Si, ma bisogna farlo. La stessa dialettica tra le forze politiche deve cambiare segno. Bisogna trovare il modo di fare ragionamenti comuni sulle scelte di fondo che fanno comunità, che costruiscono la comunità. Ognuno resti pure se stesso, ma sulle questioni essenziali, quelle dirimenti per il futuro, dobbiamo metterci intorno ad un tavolo e ragionare con in testa il bene di tutti. Ora, non chissà quando, o la realtà andrà dove nessuno di noi vuole, almeno in teoria.