di Gabriele Marcheggiani
Se riesci a scomodare i più grandi musei italiani ed europei, per farti “prestare” opere di indiscusso valore artistico da mettere in mostra in un paesino di trecentoquaranta anime (e quarantasei galline!), sperduto sui monti friulani della Carnia, magari attirando fin lassù migliaia di persone ogni anno – quattrocentomila in quattordici rassegne – probabilmente o sei un folle oppure sei il parroco di una comunità fortunata.
Ci sono cose che sfuggono all’umana comprensione, che non appartengono alla razionalità, che vengono definite segni, prodigi, miracoli: a Illegio, frazione montana di Tolmezzo, sembra che un vero e proprio miracolo sia accaduto e come spesso succede in questi casi, alla base di tutto c’è un’idea geniale quanto folle. Guardando il film di Thomas Turolo, si ha la netta percezione di cosa significhi confidare nella Provvidenza, di quale percorso incredibile sia la vita se affidata nelle mani amorevoli del Creatore: aiutati che Dio ti aiuta, si dice così, no?
La comunità di Diec, come viene chiamato il paesino in friulano e di cui al titolo del film, è stata la protagonista della pellicola, con don Alessio, il parroco e l’ideatore del progetto bizzarro, insieme appunto alla Provvidenza. Adagiato sui fianchi di montagne aspre, dure, dove l’inverno arriva già a ottobre e la neve se ne va ad aprile, con un’unica strada di accesso, neanche troppo comoda, svuotato nel corso dagli anni dall’inevitabile migrazione dei suoi abitanti in cerca di lavoro a valle o anche all’estero, Illegio potrebbe sembrare a prima vista uno dei mille borghi montani in agonia del nostro Paese.
Anche don Alessio sembra un prete come tanti, tranquillo, dalla parlata pacata, nel suo clergyman di ordinanza, non sembra proprio uno che ami uscire dal seminato con idee un po’ folli. Eppure la sua idea di portare a Illegio opere artistiche di pregio che normalmente sono in mostra a Roma o a Firenze, a Milano o a Parigi, con la convinzione che avrebbero attratto in paese frotte di visitatori e rianimato il borgo, i canoni della follia li aveva tutti.
Con l’aiuto convinto dei suoi paesani, don Alessio mette in piedi una prodigiosa macchina organizzativa che coinvolge un po’ tutti: ciascuno dà il suo, in base alle proprie capacità, forse anche di più, visto che gran parte dei lavori di preparazione debbono essere svolti di notte, quando non si lavora. Il miracolo di Illegio prende forma piano piano, con una testardaggine, un’abnegazione e una costanza tipiche delle genti friulane e il miracolo sta tutto qui, nell’aver reso concreta un’idea che sarebbe difficile realizzare anche in città grandi, senza problemi di comunicazione, al centro di reti collegamento primarie, nell’essersi affidati letteralmente alla Provvidenza con una fiducia cristallina.
Oggi la manifestazione di Illegio è conosciuta, ne parlano giornali e TG, anche critici d’arte come Vittorio Sgarbi se ne sono interessati, attirando sulle montagne della Carnia decine di migliaia di persone: il paese è tornato a vivere, si è collocato al centro di una comunità nonostante resti abbarbicato sui crinali montani. L’epopea di Illegio è un inno alla bellezza della fede, al valore aggiunto di sentirsi comunità viva, a quel percorso invisibile che sembra plasmare la nostra esistenza nonostante noi, quella Provvidenza divina cui, come nella parabola evangelica, anche gli uccelli del cielo sembrano affidarsi con fiducia. Al termine del film si vorrebbe salire in auto e mettersi in viaggio verso il Friuli, stringere la mano a don Alessio e ai suoi parrocchiani, respirare quell’aria fine di montagne e passeggiare nei vicoli del paesino. Perchè Illegio e i sui abitanti bizzarri, come essi stessi si definiscono, il miracolo l’hanno fatto davvero, hanno anch’essi operato quella Conversione necessaria che spalanca le porte e, è proprio il caso di dirlo, abbatte finanche le montagne che opera “ogni singolo giorno” fin nel più profondo delle nostre vite.