di Marco Lauteri
I Ricercatore – CNR-IRET
Consiglio Nazionale delle Ricerche
Istituto di Ricerca sugli Ecosistemi Terrestri
(Fonte: www.vglobale.it)
Il grande ed aleggiante tema della sostenibilità, forse necessariamente banalizzato dalle sintetiche definizioni antropocentriche che cercano di renderne il significato, conduce in realtà il pensiero ai complessi olismi dei sistemi socioecologici. Questi sistemi si riconducono, in ecologia del paesaggio, ai paesaggi ecologici di natura culturale o antropica che sono nel loro divenire le cellule di tessuti ed organismi più complessi, quelli delle bioregioni e della stessa biosfera. Cercherei allora di cogliere l’opportunità di pubblicare su Villaggio Globale come pretesto per ripercorrere brevemente il mio percorso biografico, scientifico ed applicativo sull’argomento.
Vorrei così rivisitare alcune delle mie esperienze di ricerca dall’ecofisiologia vegetale verso la scoperta dell’ecologia del paesaggio e verso le prime timide esperienze nel campo cognitivo più applicato della agroecologia e, in definitiva, della socioecologia, qui incluse le esperienze di studio e cooperazione internazionale in aree di crisi sociale ed ambientale. Il tutto a generare nel lettore una percezione più reale dell’idea di sostenibilità e della sua natura olistica. Sostenibilità, dunque, quale potenziale attributo dei sistemi viventi, declinabile sulle diverse scale di organizzazione biologica che dalla cellula arrivano alla biosfera.
Marsica, Adriatico e passione per la natura
Da piccolo trascorrevo lunghi, spensierati periodi estivi con i nonni materni nella Marsica, tra montagne e valli coltivate d’Abruzzo, e con quelli paterni sulla costa Picena, le cui spiagge sabbiose erano campo di gioco e di attrazione verso quella che mi appariva immensa distesa marina. Erano gli anni ’60 e la prospera popolazione italiana si era già largamente urbanizzata. Tuttavia, le radici familiari erano ancora molto vissute e le ferie estive riempivano i paesi di villeggianti oriundi. Questo fenomeno di pendolarismo stagionale conteneva in se’ un grande valore sociale, quello di riunire le fasce attive ed urbanizzate della popolazione con le fasce anziane, queste ultime vero presidio di paesi e luoghi altrimenti condannati all’oblio. Un presidio, dunque, mantenuto dai paesani rimasti e che in qualche modo preservava il territorio ed il suo uso e, soprattutto, ne preservava l’identità e quei valori immateriali fatti di tradizioni, usi, costumi, personaggi, storie vissute, paesaggi e legende. Erano comunità felici. Felici di aver passato gli anni bui della guerra e delle privazioni, felici per i tanti emigrati che erano tornati con esperienze e ricchezze di sofferenze passate, vivaci di gioventù rientrata per le vacanze con il suo bagaglio di aspettative, sogni e paure. Tutto questo traspariva nelle lunghe veglie davanti ai focolari o nei chioschi in riva al mare. Erano generazioni che si passavano un testimone. Tutto questo tra i ritmi di una natura che dettava le sue regole e donava i suoi frutti a chi tali regole comprendeva e rispettava. Erano i frutti della biodiversità, proprio quella biodiversità che si era coevoluta con le genti e faceva parte dei saperi, delle sofferenze e delle gioie dei luoghi.
Le strade della transumanza: l’ingresso a S. Maria in val Porclaneta (Magliano dei Marsi), dominato dal massiccio del Velino-Sirente (Foto Marco Lauteri).
Il tratturo, ormai abbandonato, era ancora ben riconoscibile nel suo attraversare i Piani Palentini e lì ci si recava a cogliere i più bei esemplari di Cichorium intybus della Marsica, autotrofi fruitori di secoli di transumante fertilizzazione. L’enorme sciabica, trappola letale per alici, sardine, aguglie e vario novellame sotto costa, veniva trascinata verso riva da due numerosi gruppi vocianti di persone che, ritmicamente, tiravano ciascuno il proprio calamento di recupero della rete. Il tratturo si riconosce oggi a stento per alcuni tratti trasformati in reperti da museo con cartelloni informativi in bella vista; la sciabica è oggi una rete da circuizione a strascico il cui uso è bandito ovunque per i danni che può causare allo scarso novellame miracolosamente sopravvissuto a ben altri mezzi di prelievo ittico: scorci di un passato prossimo in cui il sodalizio tra uomo e natura era ancora forte e le risorse ambientali abbondanti. Scorci estivi che colpivano l’immaginazione di un ragazzino e scolpivano un’innata attrazione verso le cose della natura, suscitando in lui quei fondamenti biofili codificati nel DNA di tutti noi, eredità genetica di milioni di anni di co-evoluzione.
La biofilia, di cui già parlavano Erich Fromm e Konrad Lorenz nei loro scritti degli anni ’70, è un attributo funzionale dell’essere umano. È quel sentimento empatico, definito tecnicamente come empatia asimmetrica, che ci lega in maniera appassionata all’ambiente in cui siamo chiamati a vivere. Fa parte delle istruzioni per l’uso che sono codificate geneticamente in ciascuno di noi (Wilson, 1984). Appare tutto come profondamente funzionale e non può che essere logico così. Eppure, alla fine, queste istruzioni vanno lette ogni tanto, almeno vanno rispolverate. Dimenticare le istruzioni per l’uso è alla fine perdere il senso della nostra biofilia. Diventiamo, così, pericolosi per noi stessi e per l’ambiente che ci ospita; ovvero, per dirla da una prospettiva non antropocentrica, sgraditi ospiti insostenibili.
Barriere frangiflutti lungo gli arenili dell’Adriatico piceno. Foto Marco Lauteri.
Lo stesso ragazzino, quello che ha richiamato la nostra attenzione alla biofilia, è cresciuto, ha continuato ad esplorare le bellezze naturali che l’Italia offre, si è appassionato alle escursioni nei parchi nazionali e aree protette o, semplicemente, in quelle aree più dimenticate dall’uomo e preservate alla naturalità. E, guarda il caso, quello stesso ragazzino si è ritrovato a coltivare studi universitari che spaziavano dalle scienze naturali a quelle agrarie, per poi entrare con una borsa di studio tra i guerrieri della scienza del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Eravamo all’epoca, i lontani anni ’80, poco più di un avamposto in un piccolo paese dell’Umbria nei pressi di Orvieto, Porano: il neonato Istituto per l’Agro-Selvicoltura, nella splendida cornice della settecentesca Villa Paolina. Lì i guerrieri, tutti giovanissimi al seguito del condottiero e direttore d’Istituto Francesco Cannata, affilavano le acuminate e nobili armi della ricerca su temi che spaziavano dalla fisiologia vegetale, alla genetica di popolazione e ai sistemi agronomici complessi, con attenzione a quei meccanismi socioecologici che regolano nascita, sviluppo e declino dei paesaggi ecologici antropici.
Al di là della precarietà contrattuale, era ormai chiaro che quella borsa di studio sarebbe stata per la vita, una credenziale a mantenere sempre viva la propria biofilia, a potersi sempre chinare ad osservare un fiore, sia pure sempre in bilico tra il desiderio di comprendere e le mere esigenze della meritocrazia.
Esperienze di biodiversità vegetale: biodiversità adattativa ed efficienza d’uso idrico
È meraviglioso osservare come la vita abbia auto-evoluto la sua enorme variabilità sia in senso genetico (il codice della vita stesso) che in senso fenotipico (gli effetti della traduzione del codice in una particolare condizione ambientale). Le piante non fanno eccezione. La limitazione stagionale della risorsa acqua ha imposto strategie adattative alle specie che colonizzano le bioregioni mediterranee. La regolazione stomatica, la riduzione delle perdite evaporative attraverso adatte morfologie fogliari (spesse cuticole, cere, tricomi, sclerofillia), strutture epigee di forma prostrata o addensate in stretti aggregati, sono questi alcuni dei tratti per contenere le perdite idriche evapotraspirative. Altre strategie sono di “avoidance”, basate prettamente su caratteri fenologici (forme terofitiche e quiescenza estiva). Altri caratteri adattativi possono considerarsi di tipo attivo basandosi sulla capacità di captazione di acqua profonda attraverso sistemi radicali a struttura doppia capaci di usare acque superficiali in periodi miti ed acque profonde in periodi siccitosi. Non sempre, dunque, il risparmio idrico è la strategia utilizzata. Risparmiare può significare il concedere ad altri la risorsa limitante, dando luogo a fenomeni di competizione e riducendo l’energia totale acquistata dal sistema, con svantaggi per la sua capacità di rinnovazione e resilienza (Alessio et al., 2004).
Diverse combinazioni o diversi gradi di espressione dei meccanismi citati danno luogo a strategie qualitativamente diverse. La capacità di un singolo individuo di modulare il suo fenotipo in senso adattativo costituisce la sua plasticità. La plasticità fenotipica è esprimibile come norma di reazione dei diversi caratteri o tratti adattativi. L’adattabilità specifica è, altresì, una proprietà emergente dall’insieme delle plasticità di individui, demi o popolazioni. Questa diversità adattativa è esprimibile come varianza additiva di famiglie e popolazioni e costituisce il vero potenziale adattativo ereditabile dalle generazioni successive. Alcuni demi o popolazioni possono essere particolarmente adattati a condizioni estreme pur possedendo scarsa plasticità. Nella scienza conservazionistica la perdita di famiglie o popolazioni particolari, anche relitte, è considerata un nocumento per l’adattabilità, causando una riduzione di biodiversità adattativa specifica.
Sono poche, in definitiva, le informazioni in letteratura sulla biodiversità adattativa delle specie vegetali. Tale lacunosità è dovuta alla complessità delle ricerche nel settore. Tuttavia, ricerche indirizzate a specie forestali hanno evidenziato la complessità delle risposte e dei meccanismi adattativi nelle bioregioni a stagionalità marcata, in particolare quelle mediterranee. Le risorse genetiche contenute in questi areali possono essere particolarmente ricche ma sono ancora relativamente inesplorate. Studi con isotopi stabili del carbonio ed altre tecniche fisiologiche hanno focalizzato dinamiche evolutive comuni in generi filogeneticamente assai diversi (Nothofagus, Castanea, Pinus, Quercus, Eucalyptus, Banksia, Pseudtsuga ed altri) ma tutti con areali di diffusione attraversati da gradienti climatici. Popolazioni di specie appartenenti ai generi elencati e originarie di aree pedoclimatiche contrastanti, hanno mostrato una risposta in efficienza d’uso idrico inversa rispetto a quanto ipotizzato in esperimenti comparativi.
Gli studi sulle popolazioni mediterranee ed orientali di Castanea sativa (Lauteri et al., 1997, 1999, 2004) hanno rivelato le basi fisiologiche dell’adattabilità alla diversa disponibilità idrica nonché l’esistenza di un ecotipo mediterraneo e di uno orientale (Maria Cristina Monteverdi e Marco Lauteri, in preparazione). Test di provenienza hanno indicato una marcata differenza di efficienza d’uso idrico, saggiando gli ecotipi con tecniche isotopiche. La funzionalità radicale e le interazioni pianta-ambiente nel continuum idraulico suolo-pianta-atmosfera sono attualmente studiate con gli isotopi stabili dell’ossigeno. Il progetto UE “CASCADE”, coordinato dalla mia collega Fiorella Villani, ha permesso di inquadrare il livello di biodiversità adattiva sull’areale europeo del castagno. Test di progenie in fitotrone ed in una rete di campi comparativi hanno prodotto importanti conoscenze sul ruolo della plasticità fenotipica e sulla varianza additiva di popolazioni europee di siti climatici contrastanti. Lavori paralleli su specie filogeneticamente distanti dal castagno (Quercus ilex e Pinus pinaster) hanno confermato, su scale geografiche diverse, le analogie nella diversità intraspecifica dei meccanismi di adattamento alla disponibilità idrica (Marco Lauteri e Tommaso La Mantia, non pubblicato; Tognetti et al., 2000).
Queste esperienze scientifiche, insieme a molte altre, mi hanno portato a percepire i sistemi viventi come un gioco di scatole cinesi, al cui interno la biologia si stratifica secondo livelli di complessità crescente, dalla singola cellula ai biomi, ciascuno dei quali è governato dalle proprietà emergenti proprie del livello specifico.
I cambiamenti globali e il sovrasfruttamento delle risorse ambientali
I fattori ambientali sono stati a lungo considerati quali risorse a libera disposizione d’uso per tutti gli esseri umani e, così, senza alcuna attribuzione di valore. L’aumento esponenziale dell’impatto antropico sulla biosfera ha di fatto mostrato la limitatezza e la vulnerabilità delle risorse ambientali. La prima storica Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo (UNCED, Rio de Janeiro, 1992), da cui scaturì la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC) e le varie convenzioni firmate a seguire nell’ambito della Conferenza delle Parti (Protocollo di Kyoto, 1997; Accordo di Parigi, 2015), palesa la presa di coscienza da parte di tutti i Paesi riguardo la questione ambientale. La sostenibilità dello sviluppo a livello globale solleva problemi di ordine generale che vanno dalle politiche di approvvigionamento energetico alle misure per arginare i cambiamenti climatici globali, toccando i tasti dolenti delle aree in via di sviluppo, della distribuzione delle risorse e della ricchezza tra Paesi, dell’inquinamento delle riserve idriche così come delle masse oceaniche e dell’atmosfera. Lo sviluppo sostenibile si idealizza, così, quale modello di vita e cultura che dovrebbe interessare la globalità della popolazione al fine di prevenire uno sfruttamento irreversibile delle risorse globali, intese quali patrimonio dell’umanità nel suo complesso.
Questo, tuttavia, non può prescindere dal riconoscimento e dalla valorizzazione di tutte le componenti di civiltà umana, a partire dalle realtà locali. La rete globale dell’uso territoriale (tende ormai a coincidere con l’intera biosfera!) si compone effettivamente della miriade di nodi locali che necessariamente devono essere ricondotti in un ambito di conservazione e riqualificazione per il conseguimento di un reale sviluppo sostenibile. La conferenza mondiale sullo sviluppo sostenibile (Nazioni Unite, 8-14 Giugno, Rio de Janeiro, 1992) adotta nell’Agenda 21 un approccio integrato per la pianificazione e gestione delle risorse territoriali, puntualizzando la necessità di obiettivi, azioni e metodi ripartibili sui diversi livelli di governo del territorio: da quello intergovernativo a quello nazionale fino alle amministrazioni locali, custodi queste ultime delle risorse territoriali e portavoce insostituibili delle aspettative sociali ed economiche delle popolazioni locali. Un tale approccio si pone come obiettivo la massimizzazione dei beni ottenibili tramite l’uso sostenibile delle risorse territoriali e con l’integrazione, dunque, delle esigenze ambientali, sociali ed economiche da parte delle amministrazioni.
Impianto sperimentale a palma da dattero irrigato con acque reflue depurate. Gerico, Territori Palestinesi. Foto Marco Lauteri.
Gente sul baratro, crisi socioecologiche e paradigma della sostenibilità
Atterriamo di notte al Ben Gurion di Tel Aviv. Con me viaggiano il guerriero naturalista, precario della ricerca precaria, Giuseppe Russo e l’agronoma, guerriera della biodiversità e presidente della Fondazione Archeologia arborea, Isabella Dalla Ragione . Veniamo accolti dall’amica Linda della Fondazione Giovanni Paolo II, ONG impegnata su progetti di cooperazione internazionale in aree di crisi. La Custodia Terrae Sanctae, provincia religiosa dell’ordine dei Frati Minori, ci offre ristoro nelle sue strutture. Il giorno seguente incontreremo la Phoenix dactylifera, obiettivo saliente della nostra visita medio orientale.
Dal punto di vista botanico, la palma da dattero (Phoenix dactylifera L.) rappresenta un ecoide con caratteri marcati di specializzazione ad ambienti caldi, aridi e salini. Presenta il tronco ricoperto verso l’alto da basi fogliari lignee sovrapposte. La foglia pennata ha una nervatura centrale che può raggiungere i 6 m in lunghezza, con foglioline di colore dal grigio-verde al blu-verde che oscillano tra i 20 e i 40 cm di lunghezza. Le palme da dattero producono infiorescenze composte da fino a 10000 piccoli fiori fragranti, bianchi nelle femmine e color crema nei maschi. In particolare questi ultimi risultano anche cerosi. I datteri (bacche riunite in corpose infruttescenze) possono andare dal color giallo a quello marrone, sono allungati, con una buccia densa e sottile, una polpa dolce e un solo nocciolo duro e cilindrico.
Gli alberi impiegano dai 6 ai10 anni per entrare in produzione. Al momento, nell’area di Gerico, Territori Palestinesi, pochissime sono le varietà coltivate e immesse sul mercato: per la quasi totalità delle produzioni destinate al mercato si parla della varietà Medjoul. Le altre varietà sono destinate per la maggior parte al consumo familiare. Nella valle del Giordano la palma da dattero è considerata rara, rispetto alle aree settentrionali costiere e montuose, o a quelle che si trovano a Sud Est. Ciò nonostante l’area di Gerico è considerata uno hot spot per la coltivazione di questa specie, la quale raggiunge qui risultati produttivi e qualitativi di eccellenza.
L’adozione da parte palestinese di un sistema colturale intensivo, a replicare fedelmente quanto declinato negli impianti produttivi israeliani, ha permesso di conseguire risultati a dir poco eclatanti in un periodo relativamente breve. La facies desertica in cui Gerico è contestualizzata ha cambiato letteralmente aspetto. La città è attualmente inclusa per buona parte all’interno di una fascia verde di impianti a palma. Tale fascia progredisce man mano che si avvicina l’obiettivo palestinese di un milione di palme piantumate. Tutto questo ha dei costi e determina rischi.
La realizzazione di sistemi colturali monotoni e altamente intensivi rappresenta qualcosa di molto diffuso nella globalità degli usi del suolo. Tuttavia, la strategia intensiva è quanto di più opposto si possa confrontare alle moderne scuole di pensiero sull’uso sostenibile del suolo, per intenderci quelle rivolte all’agricoltura multifunzionale e biologica, all’agroselvicoltura o, anche, all’agricoltura di conservazione.
Nel caso dei palmeti, le risorse idriche dell’area vanno progressivamente depauperandosi a causa degli enormi consumi irrigui che la palma richiede per realizzare la sua elevata produttività. La salinità dell’acqua ha raggiunto valori di preoccupazione, stando a quanto dichiarato dagli stessi investitori locali. Alti livelli di salinizzazione secondaria dei suoli sono percepibili chiaramente nelle abbondanti concrezioni saline in superficie. Gli impianti si basano quasi esclusivamente sulla propagazione clonale di un’unica varietà sia pure di altissimo pregio merceologico, la Medjoul.
Il timore di attacchi parassitari e del dilagare delle fitopatie, unitamente alle elevate esigenze nutritive di un sistema produttivo spinto, espongono i gestori aziendali sul costoso mercato degli input esogeni. Così i costi di concimi, compost, ammendanti, insetticidi e fungicidi si aggiungono alle ingenti spese energetiche per l’irrigazione e per le lavorazioni. Tutto ciò è fatto sotto il cappello, per così dire, delle dinamiche di cambiamento climatico, le quali prospettano per l’area un futuro affatto roseo. Il rischio di un collasso del sistema è elevatissimo. Le sue conseguenze sarebbero drammatiche. Tuttavia, una sorta di emulazione competitiva con il vicino israeliano spinge sempre di più verso l’intensificazione degli investimenti fondiari e la messa a coltura di nuovi appezzamenti.
Invaso di irrigazione presso la stazione sperimentale di Gerico, Territori palestinesi. Foto Marco Lauteri.
Quanto brevemente discusso pone in evidenza la necessità di sviluppare nuove strategie di uso fondiario, in direzione di un miglioramento delle condizioni dell’ecosistema agrario e di una riduzione degli input esterni al sistema stesso. In altri termini, una volta creata questa mirabile fascia verde all’esterno della città, gli operatori palestinesi devono porsi l’obiettivo della massimizzazione dell’efficienza d’uso delle risorse ambientali e della sostenibilità dell’intero sistema paesaggistico. Questo traguardo è ottenibile solo rinunciando alle altissime produzioni e guardando alla stabilizzazione delle rese su livelli meno depauperativi. Altra condicio irrinunciabile è l’aumento di biodiversità complessiva del sistema, a partire dalle varietà di P. dactylifera, fino alle specie che devono essere consociate all’interno del sistema.
Anche, aspetti più squisitamente naturalistici devono essere parimenti considerati. La vegetazione spontanea va favorita nell’intorno dei coltivi. Gli apparati radicali profondi di specie specialistiche delle aree predesertiche (a titolo di esempio citiamo il giuggiolo della corona di Cristo, Ziziphus spina-christi) possono influenzare positivamente le condizioni ambientali, a beneficio anche delle specie coltivate, e contribuiscono a re-instaurare i cicli biogeochimici alla base della fertilità dell’area nel suo complesso.
Di fatto, la restaurazione di reti ecologiche complesse e resilienti, in cui si inserisce la matrice agraria, è un prerequisito della lotta alla desertificazione. Le condizioni di umidità atmosferica migliorano sopra ed attorno alle canopie. Il trasferimento di calore sensibile è bilanciato dal calore latente messo in gioco nella traspirazione fogliare ed il microclima locale ne è favorevolmente influenzato. Tutto questo può mitigare l’aggravarsi delle condizioni climatiche anche su area vasta, qualora i modelli virtuosi di uso del suolo vengano adottati ampiamente. La consociazione con specie azotofissatrici instaura un arricchimento di azoto nel suolo di pari passo con l’aumento della sostanza organica e la capacità di ritenzione idrica. I ruscellamenti superficiali delle acque meteoriche sono blanditi e la percolazione profonda permette di immagazzinare riserve idriche rilevanti nel profilo di suolo esplorato dalle radici. Il sistema, in definitiva, è rivitalizzato dalla complessità e tende a riflettere proprietà più spinte in termini di resilienza ai disturbi ecologici.
Degrado periurbano nella Valle del Mar Morto, Territori Palestinesi. Foto Marco lauteri.
Il volo Lisbona – Fortaleza della compagnia portoghese piega decisamente verso ovest, appena sorvolate le isole di Capo Verde. Lì inizia il tratto più stretto dell’Oceano Atlantico che ci separa dal Brasile e dall’Amazzonia orientale. Siamo diretti a Belém, capitale dello Stato del Pará. Con me l’amico e guerriero delle scienze socioeconomiche Andrea Pisanelli, il responsabile di progetto Stefano Binotti del Consorzio Universitario di Economia Industriale e Manageriale (CUEIM) e l’agronomo Federico Grati di Agroils Srl, compagnia specializzata su sviluppo e consulenza di filiere innovative e sostenibili nel settore dei biocarburanti. La missione ha l’obiettivo principale di testare e valutare la possibilità di sviluppare filiere sostenibili di colture oleaginose all’interno della regione amazzonica orientale. Tra i partner brasiliani c’è l’Università Federale Rurale dell’Amazzonia (UFRA, Belém); il finanziamento è italiano da parte del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare.
Il progetto riguarda la fattibilità di piani di sviluppo sostenibile, piani imperniati dunque ad un uso non depauperativo ma conservativo o, se possibile, migliorativo delle risorse naturali dell’Amazzonia. Attenzione primaria, in relazione ai criteri di sostenibilità, è attribuita alla comprensione ed al rispetto delle popolazioni locali ed all’opportunità di migliorarne le condizioni di vita nel pieno rispetto dei valori ambientali della regione. Tali valori, nel contesto amazzonico, assumono il carattere globale di patrimonio insostituibile per i servizi resi agli equilibri biogeochimici del Pianeta. I territori analizzati ricadono nello Stato del Pará. Si tratta di due aree, rappresentative di due ecoregioni amazzoniche con condizioni ecologiche e socio-economiche profondamente diverse, sottoposte a pressioni antropiche di natura ed entità ben differenziata. Profondamente diversi, allo stesso tempo, risultano i presupposti di sviluppo sostenibile ai quali mira il presente progetto di ricerca e pianificazione.
Due aree di studio – Il progetto si rivolge a due aree rappresentative di aspetti peculiari della regione amazzonica nord-orientale, in prossimità del delta del Rio delle Amazzoni, Stato del Pará, Belém. In particolare le aree oggetto di analisi ricadono nell’isola di Marajó e nella zona a sud di Belém attraversata dal rio Moju. Entrambi le aree possono considerarsi rappresentative di particolari ecoregioni, classificate come foreste pluviali tropicali nell’ambito del bioma amazzonico (WWF – IBAMA: NT0138, Foreste pluviali tropicali a latifoglie, Várzea del Marajó; NT0170, Foreste pluviali tropicali a latifoglie del Tocantins-Araguaia-Maranhão). Tali ecoregioni sono situate in prossimità dell’anastomosi del bacino idrografico Araguaia-Tocantins con quello del Rio delle Amazzoni. La suddivisione in bioregioni nell’ambito del bioma Amazzonia è fortemente fondata sul reticolo idrografico. È proprio il dedalo di corsi d’acqua, spesso imponenti, a costituire un reticolo di barriere biogeografiche che delimitano le diverse bioregioni.
La prima bioregione, detta di várzea o foresta inondata, è catalogata come vulnerabile dal WWF. Ciò è ben comprensibile data la dinamicità fluviale della regione e considerando la pressione antropica cui l’area è sottoposta da secoli. Le maggiori cause di preoccupazione riguardano, oltre l’assenza di aree protette, lo sfruttamento agricolo estensivo (pascolo brado di bovini e bufali), le attività di esbosco, la colonizzazione umana crescente, la pressione venatoria e di pesca nonché la raccolta dei frutti spontanei delle palme e forme primitive di agricoltura di sussistenza. In particolare l’esbosco ha ridotto fortemente, a partire dagli anni 50, le specie da legno di pregio quali Virola surinamensis, Carapa guianensis, Cedrela odorata, Ceiba pentandra e Maquira coreaceae. Inoltre, le formazioni dense naturali a Mauritia flexuosa vengono rimpiazzate da impianti di Euterpe oleracea per la produzione del pregiato frutto di açai. La perdita degli habitat è esacerbata dall’espansione dei pascoli estensivi, con crescente competizione da parte di bovini e bufali d’acqua nei confronti di capibara e manati (pesce bue o Trichechus manatus e T. inungis) per il pascolamento della vegetazione acquatica. Le coltivazioni erbacee rappresentano, infine, solo una causa minore del degrado degli habitat in questa ecoregione.
La seconda ecoregione analizzata è sottoposta ad una forte pressione antropica. Di fatto è una delle aree più sviluppate dell’intera Amazzonia. Ciò è attribuibile alla presenza di importanti città (Belém, Paragominas, Bragança) collegate da un’efficace rete stradale. I collegamenti stimolano fortemente i progetti di sviluppo industriale. Attualmente un terzo della superficie forestale della regione è stato disboscato, lasciando un mosaico di terre degradate, frammenti forestali, pascoli estensivi, foresta in successione secondaria (capoeira), foreste degradate dal prelievo delle specie da legno di pregio e, infine, di insediamenti urbani minori dispersi sul territorio.
La realizzazione di una rete sperimentale dedicata a due situazioni rappresentative di due distinte ecoregioni amazzoniche (le formazioni di foresta pluviale inondata, o várzea, del Marajó; le formazioni di foresta pluviale di terra firme) permetterebbe all’Italia, in collaborazione con il Governo paraense, di acquisire conoscenze innovative su questioni di equità e sviluppo sociale, di conservazione e ripristino di biodiversità e di reti ecologiche, di produzione agro-alimentare, di approvvigionamento bioenergetico.
Due indagini. Uno primo studio in un’area dell’isola di Marajó evidenzia un’ampia diversità specifica, prendendo a campione 100 parcelle da 1000 m2 distribuite lungo transetti dal fiume verso l’interno, su 100 ha di biocenosi a várzea. Prendendo in considerazione individui arborei e palme con diametro a petto d’uomo uguale o maggiore di 10 cm, i ricercatori dell’UFRA rilevano, sul totale di 10 ha di parcelle, ben 5130 individui distribuiti in 30 famiglie, 79 generi e 112 specie. Abbondanti sono le specie oleaginose sia arboree che palme. Tra queste sono ben rappresentate Euterpe oleracea (açai), Manicaria saccifera (buçu), Mauritia flexuosa (miriti), Mauritia vinifera (buriti), Maximiliana maripa (inajá), Oenocarpus batacea (patauá), Raphia taedigera (jupati) e Socratea exorrhiza (paxiúba). Tra le arboree oleaginose sono rappresentate, assieme a molte altre, Hevea brasiliensis (seringueira), Penteclethra filamentosa (pracaxi), Bombax paraense (mamorana da mata), Theobroma grandiflorum (cupuaçú), Carapa guianensis (andiroba) e Virola surinamensis (virola). L’abbondanza di oleaginose riveste un’importanza cruciale per il piano di sviluppo sostenibile dell’area, permettendo di pianificare filiere produttive di oli di pregio per l’industria cosmetica, l’alimentazione e la produzione di biocombustibili per i consumi energetici delle comunità locali.
La seconda area in esame rispecchia dinamiche generali del bacino amazzonico, mostrando evidenti modificazioni subite ad opera dell’uomo. Analisi basate su tecnologie GIS (Sistema Informativo Territoriale) ed elaborazioni di immagini landsat 5, riferite agli anni 1984, 1988, 1994, 1999, 2001 e 2008, delineano un progressivo aumento della pressione antropica nell’area di studio, specialmente in termini di espansione del centro abitato e di intensificazione della rete viaria. La nascita di nuove strade è, infatti, intimamente connessa con il processo di deforestazione. A disturbi su scala locale seguono generalmente processi di deforestazione su più ampia scala, con l’introduzione di pascoli per l’allevamento brado di bestiame e la costituzione di fazende con superfici di migliaia di ettari. La perdita di fertilità ed il degrado dei suoli, in conseguenza del pascolo estensivo, conduce a fenomeni di abbandono del territorio. Tuttavia, l’abbandono non è sinonimo di processi successionali verso la foresta secondaria. La lisciviazione dei suoli e la formazione di orizzonti cementati (plinthosol) determina, piuttosto, la genesi di savane inondate, i cosiddetti campos caratterizzati da ridottissimi livelli di biodiversità e produttività. L’introduzione più recente di un’agricoltura meccanizzata su sempre più vaste aree e la conseguente espansione delle coltivazioni contribuiscono alle attuali dinamiche di deforestazione.
Due piani di fattibilità. Il progetto arriva a definire due distinti impianti pilota, finalizzati a sperimentare forme innovative e sostenibili di utilizzo del suolo e delle risorse forestali, nell’ambito delle due aree amazzoniche considerate. Nel primo caso sono interessati territori ad altissima valenza naturalistica su cui sono presenti formazioni di foresta tropicale inondata (várzea); nel secondo caso l’intervento è proposto su aree amazzoniche che hanno subito e stanno subendo un fortissimo impatto antropico, a partire da epoche recenti (anni ’60). Si tratta, quindi, di contesti molto diversi che richiedono un diverso approccio gestionale. Così, l’analisi della várzea di Marajó indica la possibilità di una razionale utilizzazione delle risorse forestali autoctone con la raccolta delle abbondanti fruttificazioni delle specie oleaginose e con l’estrazione in loco delle sostanze oleose. Queste, estratte con presse elettriche, possono indurre lo sviluppo di filiere commerciali e di produzione locale di energia elettrica tramite semplici generatori diesel, con evidenti vantaggi per le popolazioni palafitticole locali (riberinhos).
Nel caso delle aree sottoposte al forte degrado della foresta de terrafirme, l’idea progettuale è di modificare profondamente la tradizionale forma di uso del suolo. Questa è attualmente basata su incendio e coltivazione itinerante (natural fallow) nel caso di piccoli agricoltori (cablocos) e nel pascolo estensivo nel caso di grandi proprietari terrieri (fazendeiros). Il progetto pilota, dunque, guarda a forme più moderne ed integrate di uso del suolo che prevedono le rotazioni di colture alimentari consociate con essenze arboree oleaginose a fini bioenergetici. Tra queste essenze, una specie presunta autoctona o naturalizzata da secoli, la Jatropha curcas, sembra particolarmente promettente per impianti produttivi in contesti agroforestali. Inoltre, il progetto ha come punto di forza e di innovazione l’introduzione del paradigma della rete ecologica nella ricostituzione di aree a forte valenza naturalistica (foresta secondaria). Il ripristino ecologico della regione si concretizzerebbe, in questo modo, nell’aumento di aree denominate, secondo la normativa vigente brasiliana, come riserva legale. Sempre secondo tale normativa, questo permetterebbe l’impianto di attività sostenibili nella proporzione del 20% della superficie aziendale, includendo in questa l’80% di riserva. Le conseguenze sulla tutela della biodiversità amazzonica e sul ciclo globale del carbonio sarebbero imponenti. I nostri studi stimano, su un’area analizzata di soli 7700 ha, un possibile recupero di stock di carbonio forestale nell’ordine di un milione di tonnellate.
Insediamento di Riberinhos sul dedalo fluviale dell’isola di Marajó, Pará, Brasile. Foto Marco Lauteri.
I cenni autobiografici presentati vogliono riassumere il livello di complessità che ci si trova a fronteggiare in ogni tentativo di ripristino verso condizioni di sostenibilità socioecologica. Non esiste una ricetta universale, ciascun caso affonda le sue radici nella propria storia di evoluzione bioculturale. Ogni storia va compresa e sono gli attori locali gli unici a portarla veramente sulla propria pelle. Sono loro da cui deve partire ogni istanza primaria per la salvaguardia della propria terra. Sono loro che hanno il diritto dovere di assumere il governo della propria evoluzione, verso una condizione di resilienza sociale ed ecologica adeguata ai repentini cambiamenti globali; questi ultimi determinati da un modello di sviluppo evidentemente insostenibile.
In conclusione, assumendo il sentimento biofilo come insito in ciascuno di noi, voglio credere che questo stesso senso di appartenenza ai sistemi naturali possa essere il perno intimamente culturale di ogni equilibrio dinamico tra popolazione umana e risorse ambientali. Sono scettico di fronte alle scorciatoie tecnologicamente miracolose che in un prossimo futuro potrebbero sequestrare enormi quantità di gas serra dall’atmosfera o proiettare scorie radioattive nello spazio interstellare. Credo, invece, ai cicli biogeochimici che hanno regolato e regolano le funzioni della biosfera.
Credo all’acume empirico delle innumeri generazioni che ci hanno preceduto, un acume che ha permesso a queste ultime di compenetrare i cicli biogeochimici e di realizzare opere e processi gestionali delle risorse ambientali ancora oggi ammirevoli. Pensiamo, ad esempio, ai sistemi oasistici, ai paesaggi terrazzati, alle sistemazioni idrauliche su vasta scala, alle antiche normative di protezione delle foreste, alle tecniche di rotazione agraria a difesa dei suoli e della loro fertilità. Tutto questo sta tornando di estrema attualità e non solo sulla scala più locale delle economie di nicchia. Molte idee e tecnologie del passato si stanno coagulando nella forma del nuovo paradigma dell’economia circolare. Ritengo, tuttavia, che il ruolo fondamentale per un processo concreto di pacificazione tra uomo e ambiente dovrà essere giocato dalle nuove generazioni, specialmente quelle in grado di rivendicare la gestione dei propri territori secondo modelli di governo sviluppati principalmente dal basso.
L’esercizio della sostenibilità, infatti, esige presidio. La permeabilità dei sistemi socioecologici, necessariamente aperti ai flussi di materia ed energia al pari di una cellula, li rende particolarmente vulnerabili ai processi di contaminazione e di degrado. Tra questi, l’abbandono e la perdita del sodalizio bioculturale sono forse i rischi maggiori. La discontinuità generazionale determina la perdita identitaria ovvero il venir meno di quel prerequisito culturale che, sulla scala locale, rappresenta l’unico vero orientamento verso soluzioni di sostenibilità. Imperativo è, dunque, difendere le biodiversità di ogni angolo del mondo, a partire da quelle bioculturali ed identitarie.
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