Non ci possiamo rassegnare al nardellismo e al declino
di Franco Raimondo Barbabella
“Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur” (“mentre a Roma ci si consiglia, Sagunto viene espugnata”) è la frase semplificata del giudizio di Tito Livio sul comportamento di Roma nei confronti di Annibale che stava assediando la città spagnola di Sagunto. Com’è noto, ne seguì la seconda guerra punica. Questa frase credo si adatti bene a descrivere la situazione che viviamo in questo momento: da una parte i partiti che, impegnati in una furiosa lotta per il potere, sembrano non lasciarsi nemmeno sfiorare dai problemi che sconquassano il Paese reale e non riescono a fare non dico un governo all’altezza del compito ma almeno uno straccio di governo di compromesso; dall’altra il sistema scolastico che sta precipitando verso una situazione di sfascio e che si sta ponendo per questo come la metafora di una nazione che danza tristemente sull’orlo del precipizio.
Non credo di esagerare: la sbornia elettorale è finita e la realtà va guardata in faccia per come è. Quale è la faccia che la scuola presenta oggi? I risultati delle indagini internazionali da tempo ci dicevano dei guai prodotti da anni e anni di trascuratezza generale, di riforme demagogiche e inutilmente stressanti, di politica del personale come strumento di impiego e non come strategia di formazione ed educazione del cittadino, di politica del risparmio e non di qualità dell’organizzazione, delle strutture, dell’insegnamento e dei risultati. Ma, nel succedersi dei governi, nessuno dei problemi veri è stato realmente affrontato: non quello della sicurezza e della modernizzazione delle strutture, non quello del rapporto tra istruzione, formazione e lavoro, non quello della qualità del personale (sistema di assunzione, valutazione e carriera), non quello dell’adeguamento dei servizi e della differenziazione delle professioni interne al sistema, non quello dell’autonomia, del decentramento e delle reali responsabilità istituzionali.
Nel frattempo nella società cambiava tutto. Con una progressione geometrica, tutti i vincoli sociali si allentavano e cadevano quasi tutti i tabù. Da una parte, i social media venivano interpretati come il luogo in cui finalmente ognuno aveva l’impressione di poter far tutto e dire tutto, supremo interprete della verità, vindice di ogni torto, castigatore dei costumi corrotti (generalmente solo degli altri). Dall’altra, tv e radio completavano la loro opera di riduzione di tutto a spettacolo: apparenze che durano lo spazio di una trasmissione, sdoganamento di ogni bestialità.
La sintesi è data da una trasformazione profonda dei costumi, sulla base di alcune convinzioni prima striscianti e poi diventate esplicite: la democrazia è una gabbia di regole inutili, le gerarchie sono fasulle, le competenze non contano. Uno vale uno: la mia opinione di carrettiere venditore di noccioline, che da sempre non leggo nemmeno i titoli di un giornale, vale quanto quella di un professore che ha passato una vita a leggere e a studiare; la mia opinione di improvvisato politico scelto a caso, che al massimo ha sbirciato qualche articolaccio sul web a proposito di vaccini, vale tanto quanto la tua di ricercatrice che ha passato una vita a frequentare ambienti di ricerca nazionali e internazionali.
Perché meravigliarsi che in un clima come questo tutti si sentano autorizzati a fare e dire tutto, e a sostituirsi nelle funzioni di altri senza averne alcun titolo? È un bel pezzo che dalla scuola si vuole tutto, senza però preoccuparsi minimamente, dai livelli nazionali a quelli regionali e locali, di metterla in condizione di funzionare, in termini di risorse, poteri e qualificazione costante e strutturale. Tutti dicono alla scuola cosa deve fare, tutti rimproverano, tutti sanno. Conseguenza di tutto ciò la distruzione del ruolo sociale non solo di docenti, dirigenti e personale esecutivo, ma dell’istituzione come tale. Un disastro di portata epocale.
Ed eccoci così alla cronaca: atti di bullismo tra studenti in percentuali storiche, che inoltre assumono spesso connotati di vera e propria persecuzione tra compagni; genitori che insultano, sberleffano e pestano il docente che rimprovera lo studente che non studia; studenti che sfregiano la professoressa rea di aver dato la sua valutazione; studenti che si esibiscono in atti di intimidazione, offese e vera e propria violenza contro i loro docenti; docenti che, afflitti da perdonismo continuato e aggravato, non reagiscono con l’immediata denuncia dei fatti, forse perché intimoriti o magari scoraggiati dalla convinzione che le autorità non faranno nulla come troppo spesso accaduto.
Come si reagisce a tutto ciò? Nel mondo politico sembra non vi sia alcuna coscienza della portata generale del susseguirsi di questi gravissimi episodi. Per il mondo dell’informazione si tratta pur sempre di occasioni per fare grandi titoli e passare subito oltre in attesa del prossimo episodio. Per le varie autorità si tratta di fare bella figura con qualche dichiarazione forte e limitata al momento. Quando poi si passa alla cura si leggono cose che fanno rabbrividire.
La ministra (sic!) Fedeli, che ha dedicato gran tempo alla declinazione al femminile del vocabolario del MIUR, essendosi accorta forse da notizie di stampa che nella scuola stanno succedendo cose di cui anche un cieco e sordo non potrebbe evitare di accorgersi, ha gridato “bocciateli!” e poi pare si sia dedicata all’emanazione di un “Piano nazionale per l’educazione al rispetto”, che certo va sempre bene, e che però come minimo si potrebbe dire che è sproporzionato rispetto alla bisogna. O no?
Ma la proposta più bella l’ha fatta il sindaco di Firenze Nardella, che con gran clamore di stampa e social media ha lanciato una proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione in tutte le scuole del regno della materia “educazione alla cittadinanza”, un’ora settimanale con tanto di voti e bocciatura, ritagliata, udite udite!, dall’orario delle materie umanistiche. Demagogia pura, non solo perché l’obbligo di educazione alla cittadinanza già esiste (altra questione è perché non viene praticato), ma perché è assurdo togliere ore a materie già falcidiate dalla politica del risparmio e soprattutto perché solo il culto dell’apparire può far pensare di risolvere i problemi del bullismo, della maleducazione diffusa e addirittura della violenza con il voto in una materia curricolare. È ancora una volta una fuga dalla responsabilità. Spero che qualcuno chieda a Nardella se in coscienza pensa, lui, di aver fatto tutto quanto è in suo potere (e dovere) per combattere la sciatteria, il vandalismo, le illegalità presenti nella sua città.
Questo modo di pensare, sbrigativo e demagogico, è molto diffuso. Lo chiamerei ora perciò nardellismo. Io però dico che non ci possiamo rassegnare a pensare alle analisi vere per quanto complesse e alle soluzioni anch’esse vere per quanto impegnative, anche se lo scoraggiamento è sempre più grande e diffuso. Ci riguarda tutti, se abbiamo davvero a cuore i nostri giovani, le professioni del mondo dell’educazione, la scuola come istituzione che prepara il futuro e la società come organizzazione necessaria e vocata alla collaborazione tra i viventi.
L’opinione di Leoni
Ogni volta che sento parlare di scuola mi tornano in mente le parole di mio padre, dottore in pedagogia e direttore didattico, che amava profondamente la scuola, alla quale aveva dedicato la vita. Egli sosteneva che il valore legale dei titoli di studio, avrebbe mandato in rovina la scuola italiana; avrebbe inquinato i rapporti tra i tre elementi fondamentali dell’istruzione: gli studenti, le famiglie e l’istituzione scolastica. Perché la scuola stava diventando (fortunatamente) scuola di massa e i vecchi criteri non erano più adatti. Infatti i genitori sono sempre stati sempre più attirati dal miraggio del diploma e della laurea che avrebbero conferito ai loro figli le etichette necessarie per un buon ruolo sociale. Hanno finito col preoccuparsi più della promozione che dell’istruzione premendo sugli insegnati col ricorso alla raccomandazione e sui figli con l’invito non semplicemente a studiare, ma a cavarsela ricorrendo anche agli espedienti.
Gli studenti, con l’obiettivo del diploma e della laurea caro alle famiglie si sono sentiti istigati al servilismo, alla doppiezza e, quando ciò non bastava, al vittimismo e infine alla ribellione. Gli insegnanti si sono sentiti sempre più umiliati da studenti e professori e sfruttati dallo Stato. Credo sia arrivata l’ora che a scuola ci si vada esclusivamente per imparare e poter affrontare gli esami cui si sarà sottoposti dalla vita oppure (per chi vuole proseguire gli studi dopo aver assolto l’obbligo scolastico) dalle scuole superiori e dalle università, che non avranno banchi da scaldare né diplomi e lauree che consentano l’accesso diretto alle professioni. Finché non si farà una riforma adatta alla scuola di massa è inutile piagnucolare per il degrado della società e della scuola. Il rimedio sta nelle buone leggi e non nelle chiacchiere.
I politici recitano una commedia che non tiene conto dei veri bisogni popolari
di Pier Luigi Leoni
Credo che siamo in molti ad aver assistito alla campagna elettorale e di assistere alle successive mene per accroccare un governo come si assiste al concerto di un’orchestra che stona. Mi sono fatto la convinzione che gli attori sulla scena politica non si rendano conto che le orecchie dei cittadini vorrebbero sentir parlare soprattutto di quattro cose: famiglia, scuola, lavoro e sanità. Quindi o sono stupidi loro o sono stupido io. Sennonché, sfogliando la rivista “Sette”, allegata al Corriere della Sera del giovedì, mi ha sorpreso un articolo di Enrico Marro. Mi ha sorpreso sia perché dice ciò che penso anch’io, sia perché l’autore ha trovato una rivista nazionale che glielo ha pubblicato.
Marro scrive che il taglio delle tasse non dovrebbe essere indiscriminato (flat tax) ma dovrebbe partire dalle famiglie con figli: «quoziente familiare alla francese (dove non a caso si fanno più figli), abbattimento delle imposte per le mamme lavoratrici, asili nido. Uno Stato che non affronta il declino demografico rinuncia al futuro». Per quanto riguarda la scuola, «andarci dovrebbe essere un piacere. Per studenti e docenti. Le scuole devono essere belle e funzionali. Gli insegnati devono essere pagati bene, ma devono aggiornarsi e sottoporsi a verifiche. E va assicurato uno standard minimo in tutto il Pase. Le gite scolastiche devono servire per scoprire l’Italia. Basta gite a Valencia se un siciliano non conosce Venezia e un veneto non conosce Palermo». Per quanto riguarda il lavoro, «più ancora della questione contratto a tempo indeterminato versus contratto a termine, è la volontà o meno di trovarsi in una certa condizione a fare la differenza: quella che passa tra il professionista conteso dai committenti e il disoccupato che consegna la pizza con la bicicletta» e, per evitare lo sfruttamento, servono regole «fin dagli stage e dai tirocini e, dove non c’è contrattazione, il salario minimo per legge». Quanto alla sanità, «da quanto tempo diciamo che ci sono 20 sistemi sanitari quante sono le Regioni? E che curarsi in Calabria non è come curarsi in Lombardia? Siamo rassegnati o vogliamo affrontarlo questo problema?»
Marro si pone anche il problema del perché i politici si azzuffano su redditi di cittadinanza e flat tax e sui modi per finanziarli, trascurando temi essenziali come la scuola e la sanità, e sospetta che ciò avviene perché i politici «molto spesso usano canali d’élite come scuole private e casse sanitarie di categoria». Io sospetto invece che i politici soffrano della sindrome del palcoscenico. Recitano una commedia che non è utile al pubblico, ma che lo emoziona e strappa qualche applauso. Ma poi gli spettatori tornano a casa e trovano i guai di prima, aggravati dal tempo perso e dalla spesa per il biglietto. Non è per questo che le gente da palcoscenico non è stata mai considerata abbastanza seria?
L’opinione di Barbabella
Magari sarà come dice Pier che i politici (ma chi designa esattamente questo termine?) sono gente di palcoscenico e come tali la gente normale non li considera molto seri. Però allora perché vota proprio quelli che le sparano più grosse? Autolesionismo? Gusto dello spettacolo? Di più: brivido del rischio?
Marro secondo me ci chiappa e non ci chiappa. Anzi, ci va un po’ giù alla sbrigativa, perché per affrontare anche le sole cose che gli stanno a cuore ci vuole una classe dirigente che metta al primo posto i problemi del Paese e non l’occupazione del potere con la logica del “levate tu che me ce metto io”. Ma dov’è questa classe dirigente? Non c’è perché c’è l’altra, come si vede in questi giorni. Ma perché c’è quella? Perché è stata votata dal popolo. Dunque torniamo all’inizio, e in verità a quelle domande non c’è risposta facile.
Prendiamo almeno atto di una cosa: che il popolo voleva cambiare e l’ha fatto. Ma l’offerta era abbastanza miserevole e la scelta non è stata proprio da sballo. Peraltro si sa che il popolo, quando s’innamora o quando s’adira, non va per il sottile.
Il mio auspicio (ma è appunto solo un auspicio) è che in questo marasma emerga qualche cervello non solo sano ma anche dotato di inventiva e assistito da un animo coraggioso, cosicché si possa por mano ad una riforma istituzionale di tipo radicalmente federale, in modo che emerga anche una classe dirigente che, essendo legata ai problemi reali e stringenti dei territori, sia insensibile ai richiami sia delle ampolle del sacro fiume che del vaffa e dei vari cerchi magici. Il resto verrà. Speriamo però che nel frattempo non ci sia chi pensi e voglia farci pensare che la storia finisce qui.