Lo sciopero contro l’alternanza scuola-lavoro, ossia la decadenza morale del ceto medio
di Pier Luigi Leoni
Durante lo sciopero studentesco del 13 ottobre contro l’applicazione dell’alternanza scuola-lavoro è risuonato lo slogan “siamo studenti, non siamo operai” al quale il segretario generale della Fim-Cisl Marco Bentivogli ha reagito col seguente tweet: «Piccoli snob radical-chic monopolizzano i movimenti degli studenti contro il loro futuro. Chiedano scusa agli operai che a differenza loro sanno quanto paghiamo gli anni di ritardo sull’alternanza studio-lavoro». Dario Di Vico, sul Corriere della Sera, ha rilevato «Gli slittamenti culturali che riguardano la figura dell’operaio presso le nuove generazioni». Di Vico ha ricordato che «alla fine degli anni ’70 il metalmeccanico era una figura quasi mitologica. Lo studente che andava in corteo cercava di seguirne l’esempio, spesso si recava davanti ai cancelli della fabbrica per condividere con lui il momento magico del picchetto e della cacciata dei crumiri. In sostanza ne riconosceva e invocava la funzione di “guida”.
Al punto che diversi militanti della sinistra extraparlamentare vollero provare direttamente l’esperienza di lavoro alla catena di montaggio per conoscere da vicino il meccanismo di funzionamento quotidiano del capitalismo per incamerare conoscenze e far propria la cosiddetta condizione operaia… Ai giorni nostri, con la Grande Crisi alle spalle e i mille dilemmi sulla globalizzazione che avanza o che arretra, per gli studenti — almeno per quella minoranza che venerdì ha manifestato in 70 città d’Italia — l’operaio non è più quel punto di riferimento di tanti anni fa. È cambiato quasi tutto e di classi operaie non ce n’è più una, indossando la tuta si può essere tecnici del 4.0, addetti alle linee di montaggio oppure facchini della logistica. Tre lavori assai diversi tra loro. L’impressione è però che di questo mutamento i giovani sappiano poco o niente e la figura dell’operaio sia assimilata tout court al lavoro manuale o peggio allo “sfruttamento”. E da qui partono tutti gli equivoci della via italiana all’alternanza studio-lavoro, errori che potremmo sintetizzare con questa espressione: come raccontare male ai giovani cos’è oggi il mondo della produzione e come volendoli attrarre siamo riusciti ad allontanarli.»
Di Vico si è beccato la seguente reazione di uno studente: «Entrare nel mondo del lavoro e farlo da giovani, oggi, significa voler bene a se stessi. Resta però un diritto. Il diritto di sbattere la porta. La facoltà di rifiutarsi di lavare i pavimenti come esperienza formativa se il tuo sogno è quello di diventare medico. Il poter dire di “no” a qualsiasi forma di sfruttamento spacciata per formazione. Non si tratta di essere schizzinosi, o di non avere voglia di lavorare». Non sono d’accordo con Di Vico e con la sua evidente nostalgia per gli studenti marxisti degli anni ’70; né sono d’accordo con la maleducazione dello studente. Maleducazione che denota la decadenza morale del ceto medio italiano. Anche se m’imbarazza citare me stesso e i miei amici, ricordo che all’inizio degli anni ’70 ero un attempato aviere semplice, laureato e abituato a dirigere il personale di un piccolo comune, dopo aver vinto un concorso nazionale.
Come aviere ero addetto a fare le pulizie di un ufficio, a ordinare le relative scartoffie, a timbrare e registrare documenti; lavoravano con me alcuni cari amici laureati e diplomati, tutti agli ordini di superiori spesso più giovani e quasi sempre meno istruiti di noi. Eravamo sereni perché sapevamo che se quello non era il nostro futuro, era la preziosa esperienza in un settore della nostra Italia con sue caratteristiche particolari, peraltro più sano di ciò che mi era toccato vedere fuori della caserma. Nell’amministrazione italiana anteguerra, al primo gradino della gerarchia, c’era la qualifica di “alunno d’ordine senza stipendio”. Così la piccola borghesia, con umiltà e sacrificio, iniziava la scalata nella burocrazia pubblica. Come faccio a non provare nostalgia per gli alunni d’ordine senza stipendio e a non rattristarmi per quello studente che non vuole lavare i pavimenti perché sogna di diventare medico? Che cavolo di medico può diventare uno che non ha mai lavato pavimenti?
L’opinione di Barbabella
Già, “che cavolo di medico può diventare uno che non ha mai lavato pavimenti?”, proprio così!. A quello slogan iniziale “siamo studenti, non siamo operai” va contrapposto questo. Il ragionamento di Pier Luigi infatti è ineccepibile, al contrario di quello di Di Vico, che non è solo nostalgico ma anche deviante. Esso esprime quella diffusa tendenza a non scendere a fondo nell’analisi dei fenomeni sociali e culturali la cui responsabilità sta prevalentemente in capo alla schiera di intellettuali e professionisti della comunicazione che badano quasi esclusivamente a scrivere e dire ciò che fa audience.
Le domande che ci si dovrebbe porre sono perché si arriva a manifestazioni studentesche (non scioperi, per i quali gli studenti non hanno titolo) di quel tipo e perché gli studenti oggi ritengono normale rappresentarsi con slogan di quel tipo. Le risposte non possono essere semplici, perché non possono prescindere da un’analisi delle trasformazioni profonde della società italiana, e in particolare dalla crisi dei processi educativi che coinvolge sia la scuola che le altre agenzie.
Azzardo solo un accenno al ruolo di una delle agenzie educative, la scuola, essendo tuttavia le altre due, la società in generale e la famiglia, non meno importanti. Dico però la scuola, perché intanto lì stanno gli studenti che protestano con queste modalità e perché la scuola rappresenta meglio di altri soggetti lo stato delle tendenze presenti nella società.
Io penso che per l’essenziale la scuola abbia tre compiti: educare i giovani ad essere cittadini consapevoli e responsabili; fornire loro una formazione che li metta in grado di scegliere la via più adatta e soddisfacente per il lavoro e la professione; fornire strumenti di analisi per interpretare e muoversi liberamente nel mondo. A parte le accezioni, anche numerose, che ci sono e parecchie delle quali conosco anche io almeno nella cerchia delle mie relazioni, in generale il nostro sistema scolastico non riesce a soddisfare se non in parte e per numeri limitati questi tre compiti. Soprattutto non vi riesce proprio per il primo e il terzo, quelli che fanno la qualità del cittadino.
Mettete in mano ad una intera scolaresca dell’ultimo anno di un qualsiasi istituto superiore, anche il più blasonato, un articolo di fondo di un giornale, o un saggio breve su un argomento complesso, o la sequenza di una discussione su questioni teoriche con risvolti pratici, ecc., e troverete solo una minoranza che riesce ad orientarsi dimostrando capacità critica. È da qui che bisognerebbe partire per capire quali provvedimenti bisognerebbe adottare (sui curricoli, sul personale, sugli strumenti, sull’organizzazione e sugli ambienti) per rinverdire al sistema educativo del Paese con speranza di successo la sua essenziale missione. Senza di che tutto il resto è noia.
Riflessioni dopo il referendum della Lombardia e del Veneto. Cose che ci riguardano
di Franco Raimondo Barbabella
Io penso che i referendum sull’autonomia della Lombardia e del Veneto ci riguardino molto di più di quanto non si pensi. E non mi riferisco tanto alle questioni politiche, che pure sono e saranno pesanti, quanto a quelle istituzionali di organizzazione dello stato e alle loro conseguenze sulla vita dei territori di confine come è il nostro.
Chi pensava che fosse una cosetta da snobbare, un pericolo da esorcizzare con qualche battuta o una fissa dei leghisti più radicali, ancora una volta non ha capito niente. Ci sono infatti fenomeni nella storia che intercettano solo coloro che vivono a contatto diretto con il popolo, e perciò non solo ne comprendono i bisogni ma ne fiutano le pulsioni, e coloro che per lungimiranza di pensiero riescono a fare analisi che vanno al di là delle contingenze.
Era chiaro da tempo che l’illusione di aver tappato le tendenze federaliste sviluppatesi al Nord una trentina di anni fa con la legge costituzionale del 2001 detta “sul federalismo”, riforma del Titolo V° mediante l’attribuzione di maggiori poteri alle regioni, è stata solo una deviazione temporanea molto miope. La questione era molto più rilevante, e ad essa non ha saputo metter mano nemmeno quella destra che ha preso il potere più volte a partire dal 1994 con inclusa la Lega. Tanto meno lo ha saputo fare la sinistra, che con il governo Renzi ha addirittura tentato una riforma neocentralista, a testimonianza anche di una miopia trasversale.
Ma l’illusione continua, perché chi pensava che Zaia, con il vento che tira in Europa e con la debolezza del governo e dei partiti in Italia, si accontentasse di una ritoccatina del regionalismo, in realtà si stava solo guardando l’ombelico. E così è. Ciò che accadrà lo vedremo, ma intanto il problema di una riforma generale dell’assetto istituzionale è stato messo sul tavolo. E non saranno rose e fiori per tutti coloro che hanno lo sguardo fisso all’oggi o al massimo a domattina.
Come la gran parte dei politici e della classe dirigente dell’Italia Centrale, compresa quella che abita e agisce dalla nostre parti. Non ho capito che cosa si aspetta a ragionare in termini elementari di federalismo diffuso, come converrebbe da tutti i punti di vista, e non li elenco. Io penso a questo modello, appunto semplice e conveniente (non mi azzardo nemmeno a parlare di ideali): Europa federale, stato nazionale federale con macroregioni, all’interno delle macroregioni unioni dei comuni con logica di area vasta, comuni come amministrazioni attive e presidi del territorio.
Tempo fa, prima come COVIP e poi come CoM, abbiamo rilanciato l’idea dell’Italia di Mezzo e nel contempo abbiamo detto dell’urgenza di procedere all’unione dei comuni e allo sviluppo di un’ambiziosa politica interregionale. Io in particolare ho formulato la proposta della Regione dei Due Mari, che allora ha avuto una certa eco. Ma nessuna forza politica, dicasi nessuna, ha preso posizione; solo qualche scialbo e stanco convegno, con relazioni superficiali e senza seguito, quasi esclusivamente come esorcismo di un problema né sentito né compreso.
Anche qui miopia, pura miopia. Perché per una zona come la nostra, se non si andrà verso l’Italia Mediana, con inclusione insieme all’Umbria almeno del Lazio Nord, oltre che della Toscana e delle Marche, la prospettiva sarà di una nuova pesante e definitiva emarginazione. E amen. Ma a chi rivolgo queste riflessioni, oltre che al mio amico Pier?
L’opinione di Leoni
L’opinione mia collima con quella del mio amico Franco. Ma l’idea di un federalismo basato sulle macroregioni e sulle libere collaborazioni intercomunali, apprezzata da molti sul piano teorico, non riesce a diventare popolare e quindi a entrare nei programmi dei partiti. Mi domando il perché e cerco di rispondermi. Credo che siano state troppe le delusioni. La realizzazione delle regioni a statuto ordinario è stata un disastro perché ha fagocitato ricchezze enormi, che hanno pesantemente aggravato il debito pubblico, ha aggravato il groviglio legislativo, ha accresciuto la burocrazia, non ha prodotto sviluppo, non ha ridotto lo squilibrio economico tra Nord e Sud, ha moltiplicato la corruzione. Ma soprattutto ha confermato e messo ancora più in evidenza ciò che aveva caratterizzato le regioni a statuto speciale.
Cioè che vi sono regioni italiane al passo con la modernità, in grado di competere con le più progredite regioni dell’Europa centrale, e vi sono regioni italiane che non riescono a mettersi al passo. Dopo quasi mezzo secolo dal completamento delle autonomie regionali vi sono 11 regioni con un residuo fiscale attivo (in ordine decrescente: Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Piemonte, Toscana, Lazio, Marche, Provincia autonoma di Bolzano, Liguria, Friuli-Venezia Giulia e Valle D’Aosta) e 10 regioni con residuo fiscale passivo (in ordine crescente: Umbria, Provincia autonoma di Trento, Molise, Basilicata, Abruzzo, Sardegna, Calabria, Puglia e Sicilia).
Da molti anni nelle regioni del Nord scalpitano perché vedono che il surplus di ricchezza da loro prodotto va al Sud senza dare frutti di sviluppo e quindi di riequilibrio. La Lega Nord per l’Indipendenza della Padania fu fondata nel 1989 con l’unione di sei movimenti autonomisti attivi in gran parte delle regioni più ricche: Lega Lombarda, Liga Veneta, Piemont Autonomista, Union Ligure, Lega Emiliano-Romagnola ed Alleanza Toscana. La riforma costituzionale del 2001, per scoraggiare l’indipendentismo leghista, prospettò un possibile ampliamento dell’autonomia regionale da concordare tra lo Stato e le singole regioni. A quella riforma si riallacciano i recenti referendum lombardo e veneto e l’iniziativa della regione Emilia-Romagna.
Ma basta un po’ di buon senso per comprendere che se all’ampliamento dell’autonomia del Nord non si accompagna la restrizione dell’autonomia del Sud (cosa impossibile senza una riforma costituzionale che nessuno ha la forza di imporre), non si va da nessuna parte. È per questo che il governo centrale non potrà che assegnare alle regioni che stanno premendo, alcune nuove funzioni indicate dalla costituzione, ma lesinando le risorse finanziarie in modo da non dover tagliare i finanziamenti al Sud.
Sarà un’altra grande delusione: un pasticcio dal quale non si potrà uscire senza l’attivazione di un’assemblea costituente che metta a confronto le più razionali dottrine politiche e giuridiche e dia all’Italia una costituzione moderna. Gli Italiani sono stanchi delle riforme costituzionali abortite o nate deformi e giustamente non hanno fiducia nella capacità riformatrice del parlamento. Bisogna far loro capire che solo una bella assemblea costituente, eletta con sistema rigorosamente proporzionale, può far emergere la grande civiltà giuridica italiana e risvegliare l’orgoglio di quella che, nonostante tutto, è una grande nazione.