Kim Jong-Un: despota attaccato al potere, ma non scemo.
di Pier Luigi Leoni
Il regime nordcoreano non ha realizzato il comunismo previsto da Carlo Marx – che non si è mai visto sulla faccia della terra – e neppure la dittatura del proletariato. Ma, nel nome e alla faccia del comunismo, un collettivismo duramene imposto da un forte dispotismo monocratico. La politica e la strategia di Kim Jong-Un, il giovane dittatore comunista della Corea del Nord, è oggetto di analisi da parte di tutti gli esperti del mondo. Non sono le minacce e i reciproci insulti col presidente Donald Trump, che emozionano gli esperti.
La loro valutazione prevalente è che il dittatore coreano cerchi di inserirsi nel gruppo delle potenze nucleari per consolidare il proprio potere. Operazione che altri Stati hanno effettuato con successo, mentre altri sono stati bloccati dalla potenza americana; la quale però, a causa della vicinanza della Cina a quell’area e del pericolo di una ritorsione di Pyongyang sulla Corea del Sud, ha le mani legate.
Ma, al di là delle rivelazioni truculente sui veri o presunti delitti di Kim Jong-Un, le immagini che ci vengono offerte del dittatore e delle parate militari a Pyongyang dànno a noi occidentali l’idea di un clima da operetta a cui viene costretto un popolo affamato, e l’impressione che una situazione del genere non possa durare. Immemori di ciò che succedeva in Europa appena ottant’anni fa, siamo portati a sperare in un colpo di Stato endogeno o promosso dalla Cina, oggettivamente danneggiata dalla nascita di un potenza nucleare i suoi confini.
Si dovette aspettare il 20 luglio 1944 e decine di milioni di morti, per un tentativo (non riuscito per un pelo) di assassinare Adolf Hitler, che da una follia lucida era passato a una paranoia autodistruttiva. Conoscevamo poco i Tedeschi e ciò che erano capaci di fare. Probabilmente gli stessi Tedeschi non si conoscevano abbastanza. Ancora meno conosciamo i Nordcoreani. Ma possiamo sperare che non avvenga il peggio perché la Corea del Nord è povera e non ha un solido apparato produttivo. Più spende per le armi nucleari e per i missili e più s’impoverisce. Per questo Kim Jong-Un ha fretta d’infilarsi nel club delle potenze nucleari. Chiamalo scemo.
L’opinione di Barbabella
Certo, definirei ammirevole questo tentativo di Pier di liberare il buon Carlo barbuto dalla responsabilità di aver portato in seno, seppure inconsapevolmente, quella serpe velenosa del dittatore nordcoreano Kim Jong-Un. E di liberarlo così per conseguenza logica, anche dalla responsabilità di essere all’origine di altri regimi che in vario modo hanno incarnato le idee comuniste o che comunque al comunismo si sono richiamati.
Mettiamo un punto. La responsabilità dei regimi dittatoriali, che siano fascisti e nazisti o comunisti o di altro tipo, non può essere di chi teorizza società perfette futuribili, ma di chi ne sposa o in toto o in parte le caratteristiche fondamentali e cerca di attuarle nella realtà. Dunque, nel caso della NordCorea, la famiglia Kim, a partire da Kim il-sung per arrivare a Kim Jong-Un, si porta la responsabilità di aver instaurato e gestito un regime dittatoriale, che si presume non aduso a distribuire carezze la mattina, un misto di comunismo e di patriottismo, e di culto della personalità che sfocia addirittura nella pretesa di divinizzazione dei membri della famiglia. Chiara Degl’Innocenti ha scritto: “La forza della dinastia Kim, oltre l’esercito e le testate nucleari, sta nel far credere al suo popolo di possedere poteri soprannaturali che le sono stati donati da forze superiori per proteggerla dai nemici stranieri”. Va bene, vero o no, che dire di più?
Comunismo marxiano o comunismo deista, dittatura è e pericolosa pure. Credo anch’io che la categoria della pazzia non possa spiegare le dittature, e tuttavia qualcosa che alla pazzia in qualche modo somiglia ci deve pur essere, perché se ci si crede dei e si riesce a far credere di esserlo davvero, allora, se non la malattia mentale vera e propria, almeno un batterio, un virus, una zanzara tigre che ne abbia impiantata una puntina ci deve pur essere. Perciò io penso che tranquilli non possiamo stare, nonostante il fatto che i guardiani ci sono. Ma perché non usano già ora tutta la loro forza, se non militare, almeno diplomatica? La Cina potrebbe strozzare quella dittatura in 24 ore. Veti incrociati delle grandi potenze? Può darsi. Comunque giochi molto complicati.
Allora, tra un po’ di pazzia e questi giochi complicati, come si potrebbe disinnescare il pericolo che la situazione rappresenta per tutti noi? Non so se gli americani, i cinesi e i russi lo sanno, ma noi abbiamo due carte che, se usate bene, potrebbero essere vincenti. No, non penso a Salvini, che a suo tempo è andato in NordCorea ed è ritornato entusiasta, ma ora non può essendo impegnato a conquistare la Sicilia, nota isola della Padania. Non penso nemmeno a Di Maio che è già innamorato del regime venezuelano di Maduro e non riuscirebbe, visto il gran da fare che lo assilla per non scottarsi subito con il cerino che Grillo gli ha lasciato tra le dita, a occuparsi anche dei capricci missilistici di Kim Jong-Un.
Penso invece proprio a lui, il senatore più creativo e imprevedibile della storia di tutti i Senati delle democrazie occidentali, il senatore di Forza Italia Antonio Razzi, seppure, a proposito di questa lotta a distanza tra Kim e Trump egli abbia da poco dichiarato: “Non sono d’accordo con entrambi, in questo caso sono tutti e due asini. Io mi sono offerto di discuterne con entrambi, ma nessuna prende la palla al balzo”. Comunque sembra pronto a partire in qualunque momento per la NordCorea “per il bene del Pianeta” (sic!).
Se però questa disponibilità di Razzi continuasse a non essere apprezzata (e sarebbe strano, perché anche il nome indica qualcosa che al dittatore nordcoreano piace molto), forse sarà il caso di rivolgersi ad Albano, si proprio lui, Albano Carrisi, il cantante dalla voce similtenorile, che ha scritto a Kim una lettera che ad un certo punto dice così: “Abbandoni, se può, i suoi spaventosi progetti di provocazione della guerra e le posso assicurare che per me e molti altri colleghi artisti sarà un piacere venire nel suo Paese a cantare per lei, per celebrarla come promotore di una nuova era di pace”. Lo so che pensate che questa sarebbe la mossa risolutiva. Ma attenti, anche lui come può sperare in un successo da solo? A meno che non abbia in serbo la vera arma segreta: cantare in coppia con Romina. Allora si che la speranza di pace potrebbe tradursi in realtà. Seguono i tamburi e poi le nostre chiarine.
Basta miseria politica, entusiasmateci con le idee coraggiose!
di Franco Raimondo Barbabella
Mercoledi scorso Giuseppe De Rita sollevava con la consueta lucidità una questione essenziale della politica, di quelle che si percepiscono subito come vere perché non eludibili, pena l’inconsistenza delle iniziative. La questione è la seguente: mentre si fa un gran parlare della inevitabilità di coalizioni politiche per governare nei prossimi anni, a quasi tutti sfugge che, se fare coalizione è importante, “ancora più importante è definirne lo scopo … declinare gli obiettivi per cui si vuole governare insieme”. Senza definirne lo scopo, fare coalizione diventa solo un messaggio di questo tipo: “dateci il potere, poi pensiamo noi a governare”, il massimo tradimento del principio che “il potere appartiene al popolo”, la politica ridotta a miseria ideale.
Non ci si può dunque fermare a questo livello della prospettiva politica, povero, miope, inefficace. “Occorre allora riproporre e vivere degli scopi che abbiano una certa carica di immaginario collettivo”. D’altronde senza un atteggiamento mentale e una scelta di questo tipo, qualunque sia la coalizione, non si sarà in grado di gestire “i due grandi processi di lunga durata che caratterizzano l’attuale momento: da un lato, l’integrazione lavorativa e sociale dei milioni di immigrati oggi presenti fra noi; dall’altro, la dinamica delle quattro filiere che ci fanno potenza internazionale (made in Italy, enogastronomia, industria dei macchinari, turismo); dedicandosi nel contempo al rinnovamento dei meccanismi e degli apparati decisionali, senza il quale non si governa la quotidianità dei due processi di lunga durata sopra citati”.
Ma maturerà in qualcuna delle parti in lizza questa consapevolezza? Lo spettacolo cui siamo costretti ad assistere è tale che non si può essere fiduciosi. Ed è triste, perché nel contempo in Europa c’è chi questo tipo di problemi se li pone. Si prenda ad esempio la reazione lucida, da vero statista, del presidente francese Emmanuel Macron alla crisi politica tedesca scaturita dalle recenti elezioni, con il pericolo che si accresca la fragilità dell’edificio istituzionale europeo e ci si incammini addirittura verso la sua disgregazione. Mi riferisco al discorso che Macron ha fatto martedi scorso nel tempio della cultura francese, la Sorbona. Un discorso di tale forza concettuale e di tale coraggio politico che Giuliano Ferrara lo ha definito “Il grande inno alla gioia di Macron”.
Si può dire quello che si vuole, ma qui ci troviamo di fronte a scelte chiare, proprio di scopo. Intanto scelte di fondo. Ecco come le sintetizza Ferrara: “un super-stato per rendere coeso e convergente un super-mercato concorrenziale, differenziato ma unito da un’ambizione di democrazia liberale, potenza su scala mondiale, sovranità effettiva e cultura che è il meglio della storia a cui sono approdati cinquecento milioni di europei”. Scelte di fondo seguite da proposte operative coerenti: superministro del bilancio e bilancio comune robusto della zona euro nel segno dell’anticrisi e di un nuovo modello sociale, liste transnazionali per l’elezione di una parte dei parlamentari europei, un’agenzia europea per l’innovazione radicale nel campo del digitale e dell’intelligenza artificiale, l’adozione di strategie comuni per l’educazione dei giovani nel segno dell’identità europea, un esercito comune e una politica estera comune, ecc.
Dunque da qualche parte del nostro continente c’è chi si preoccupa ed ha il coraggio di indicare scopi, obiettivi strategici, ben sapendo che questo non è il tempo dell’ordinaria amministrazione ma quello delle idee coraggiose, delle prospettive “che abbiano una certa carica di immaginario collettivo”. E speriamo dunque che anche qualcuno dalle nostre parti si presenti sulla scena e dica non più solo “basta!” o “vaffa”, no a questo, no a quello, usando poi tutto l’armamentario della strumentalizzazione e del furbismo che rende tutto così poco credibile. Speriamo che qualcuno ci dica “suvvia, entusiasmatevi con me!”, ma con idee ragionate e convincenti, non con le rottamazioni.
L’opinione di Leoni
I sociologi hanno scelto un difficilissimo mestiere: scoprire le leggi che regolano le azioni collettive, giudicare ciò che è bene e ciò che è male per l’umanità; dare consigli per orientare l’umanità verso il bene tenendo conto di quelle leggi. Dare consigli a chi? Ai disperati cantati da Vasco Rossi, impegnati “ognuno a rincorrere i suoi guai; / ognuno col suo viaggio; / ognuno diverso / e ognuno in fondo perso / dentro i cazzi suoi”? Alle persone cosiddette normali, le cui energie mentali sono assorbite dal lavoro, dal cercare di sistemare i figli e dall’assicurarsi un po’ di serenità nella vecchiaia? No, i sociologi si rivolgono ai politici, pretendendo che costoro non debbano permettersi il lusso di essere dei disperati o delle persone normali.
E i politici non li stanno a sentire, perché il tramonto delle ideologie, che hanno prodotto più guai che vantaggi collettivi, li ha ridotti dalla condizione di entusiasti e visionari a quella di persone normali e spesso disperate. I marchingegni economici e finanziari inventati da burattinai che ci sembrano cinici e malvagi, ma che sono semplicemente degli infelici schiavi del denaro e del potere, stanno coinvolgendo tutto il pianeta. Al politico italiano, come del resto ai politici di quasi tutto il mondo, resta solo la scelta di barcamenarsi tra la scarsità delle risorse e la necessità di non farsi mandare a quel paese dagli elettori.
E poiché schiacciare o ubriacare gli elettori è diventato molto difficile, l’impegno è quello di incrementare le risorse producendo ogni anno un po’ più di ricchezza per tacitare l’insaziabilità della gente. Chi ha dimestichezza coi maiali, sa che per creare euforia in questi simpatici animali basta far sentire il rumore di qualcosa che si muove agitando il secchio. Essi scambiano il rumore per quello del granturco. Ma poi, se il granturco non arriva, diventano cattivi, almeno fino a quando non perdono le forze a causa dell’inedia.
Mi rendo conto che non è più di moda paragonare gli esseri umani agli animali, ma le metafore animalesche sono state sempre utili, se adoperate cum grano salis, fino a quando non sono usciti fuori i sociologi. Ebbene, questo stato di frustrazione dei politici mi sembra che sia stato colto da quel paracenere di Beppe Grillo quando si è accorto che c’è molto più gusto a stare all’opposizione. Si può predicare, accusare, giudicare, condannare, condizionare, costringere la maggioranza a dar retta ai sociologi, come quello più celebre, Giuseppe De Rita, che non ha disdegnato di fare per dieci anni anche il presidente del Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro), il più inutile degli organi costituzionali; o come Domenico De Masi, legato ai grillini da reciproco amore.