Le parole sono importanti. Razzismo è cosa diversa dalla difesa dell’equilibrio e dalla preoccupazione del futuro delle comunità locali
di Franco Raimondo Barbabella
Il mito e l’esegesi ci danno interpretazioni diverse della vicenda della Torre di Babele (progetto di Marduk di tenere insieme le genti con un’unica lingua in una torre capace di raggiungere il cielo; intervento di Dio, che disperde gli uomini sulla terra e confonde le lingue): punizione divina dell’arroganza degli uomini o, al contrario, salvezza degli uomini affidata proprio alla “differenza che fa ricchezza”, cui si connettono in senso moderno, sulla base del rispetto e dell’amore per l’altro, da una parte il senso della libertà e della responsabilità e dall’altra la spinta alla collaborazione per un destino comune. Insomma, la confusione delle lingue non è necessariamente un dramma, ma richiede volontà di capire e di rispettare le differenze.
I miti antichi, se letti con mente sgombra da forzature, spesso danno indicazioni interessanti anche per capire la contemporaneità. Non c’è dubbio infatti che nel mondo di oggi “è grande la confusione sotto il cielo”. E la confusione linguistica raggiunge spesso livelli così forti da rendere difficili anche le comunicazioni essenziali, con riflessi pesanti sui comportamenti individuali e collettivi. Si confondono i significati delle parole, e come si sa “le parole sono importanti!” Prendiamo la parola razzismo e cerchiamo di capirci con qualche esempio, per arrivare infine a una indicazione inequivoca del suo significato che non può prescindere dalla storia. Tutto molto brevemente.
Il nuovo sindaco di Lampedusa Totò Martello, del Pd come il suo predecessore Giusi Nicolini, denuncia il comportamento dei migranti, che escono dall’hotspot senza alcun controllo e creano disagio e tensione sociale rendendosi protagonisti di minacce, molestie e furti, per cui dice che “sull’accoglienza deve cambiare tutto” e chiede la chiusura dell’hotspot. Basta questo per sentirsi piovere addosso l’accusa di razzista, naturalmente da sinistra e dallo stesso Pd. Sindaci emiliani del Pd manifestano contrarietà al modo di distribuire i migranti sul territorio, che troppo spesso non tengono conto delle situazioni reali, e denunciano una presenza eccessiva che rischia di mettere in crisi gli equilibri delle comunità. Subito piovono accuse di razzismo, sempre da ambienti di sinistra e del Pd. Sindaci del Veneto di diverso orientamento politico, leghisti come anche piddini o di sinistra, si oppongono all’arrivo di nuovi gruppi di migranti sia perché non concordati sia perché si rischiano tensioni sociali e sia per mancanza di luoghi idonei da mettere a disposizione. Ovvio che anche in questo caso arrivino dagli stessi ambienti della sinistra radicale e anche di quella di governo accuse di razzismo.
Ma che c’entra con tutto ciò il razzismo? Niente, proprio niente. Riproduco a tal proposito quanto affermato recentemente da un valente storico umbro, di orientamento socialista, il prof. Franco Bozzi: “Ora, si può essere d’accordo o meno sui sentimenti di preoccupazione e di timore di questa Italia minore, ma che c’entra il razzismo? Il razzismo è una dottrina (pseudo) scientifica elaborata nel corso dell’Ottocento da Arthur de Gobineau, (“Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane”) e che si venne poi specificando nella convinzione che esistessero tre razze fondamentali, la bianca la gialla e la nera. Ad ognuna di tali razze venivano attribuite inclinazioni specifiche: ai bianchi la razionalità e la scienza, ai gialli il commercio e gli affari, ai neri il canto e la danza. Poi si passò ad una distinzione ulteriore (fra i bianchi il primato fu assegnato agli ariani, discendenti diretti dal ceppo indo-europeo) e nel Novecento, con Alfred Rosenberg (uno degli imputati al processo di Norimberga) vi fu la deriva nazista e antisemita. Questo non ha nulla a che fare con la volontà di tutelare la propria terra, la propria cultura, i propri costumi”.
Appunto, che c’entra il razzismo con tutti questi episodi, che dimostrano semmai la permanenza di modi di ragionare poco inclini a schematismi ideologici e alla superficialità imperante? Semmai sarebbe il caso di porsi il problema di come si fa accoglienza vera, che non può essere indiscriminata e deve essere fondata sulla possibilità reale di integrazione. Dunque qualcosa di meditato, razionale, programmato. Credo che molti di quelli che strillano farebbero bene, prima di aprir bocca, a fare lo sforzo di studiare. E congiuntamente sarebbe bene che sapessero che viviamo nell’area di civiltà che sa distinguere i significati di parole, concetti e comportamenti. Ma non ci si rende conto che sono proprio questi atteggiamenti che predicano accoglienza indiscriminata (apparentemente frutto di solo superficiale buonismo ma che nasconde invece, ben più di qualche volta, diversi interessi molto meno nobili) a generare il vituperato razzismo?
L’opinione di Leoni
I miti, come qualcuno ha detto in modo sagace, sono più veri dei fatti storici, perché questi sono accaduti (sempre che siano accaduti) solo una volta, mentre i miti raccontano ciò che accade continuamente. Che differenza c’è tra la Torre di Babele e l’odierna globalizzazione? Forse oggi c’è meno confusione di lingue, perché una brutta copia dell’inglese si sta diffondendo ovunque e perché i traduttori simultanei sono sempre più evoluti. Ma è la diversità delle culture che fa paura.
Non credo che siano molti gli Italiani che temano l’esercito delle badanti romene, moldave e ucraine che risolvono centinaia di migliaia di problemi, o il piccolo esercito dei Filippini che silenziosamente consentono a decine di migliaia di ricchi di sentirsi signori, cioè di essere serviti. Si tratta di gente nata e cresciuta dove un certo ordine statale e il retaggio cristiano ce li fa sentire vicini. Ma vi sono realtà che destano apprensione, come la proliferazione dei cinesi coi loro ristoranti, dove per quattro soldi ti fanno scegliere fra cento piatti, o coi loro negozi che non chiudono mai, o coi loro laboratori di sartoria sempre attivi; come le decine di migliaia di indiani e bengalesi che curano silenziosamente (ma fino a quando?) le stalle dei nostri agricoltori; come gli africani schiavizzati nei campi, che non possono non meditare la vendetta, oppure assoldati dalla malavita per lo spaccio di droga, oppure assistiti dalle cooperative e soprattutto impegnati nel bighellonare.
Quanto al razzismo, cioè alla convinzione che gli arabi siano violenti in quanto arabi e i neri indolenti in quanto neri e quindi siano tutti non compatibili con la nostra civile convivenza, credo che esista, anche se non è molto diffuso e non viene pubblicamente gridato. Mi sembra però che la grande maggioranza degli italiani si vergognino di essere tacciati di razzismo e infatti, quando sindaci e cittadini protestano contro l’arrivo di migranti nei loro paesi, accampano sempre ragioni di giustizia distributiva rispetto agli altri comuni e di pericoli per l’ordine pubblico, date le condizioni oggettivamente umilianti in cui si trovano questi poveretti, che hanno dato fondo alle disponibilità dei loro clan per pagarsi un viaggio in condizioni peggio che bestiali nel deserto e sulle acque del Mediterraneo. È un bel pasticcio, ma si può evitare che esso degeneri, grazie a una politica molto accorta sul piano internazionale e con l’aiuto di quella che io, in buona compagnia, mi ostino a chiamare Provvidenza.
Piantare alberi e costruire case è così piacevole che ci rende imprudenti
di Pier Luigi Leoni
Tradotto in italiano, un proverbio che ho sentito nelle campagne orvietane recita: «Se pianti la ficaia troppo vicina a casa, per qualche anno ti fa mangiare i fichi, poi ti scarica la casa». L’adagio si presta come metafora di vari aspetti della vita: il vicinato, l’amicizia, l’amore e così via. Ma, preso più alla lettera, vale come ammonimento a coloro che, pubblici amministratori o proprietari di case private, piantano alberi, condizionati dalla loro bellezza e dal loro significato simbolico, ma dimentichi che quegli esseri viventi crescono non curandosi delle case, delle strade e delle reti di servizi che sotto le strade si diramano in ogni dove.
Così si vedono in Orvieto, nei sobborghi e nelle frazioni enormi cedri del Libano che, nelle campagne orvietane, come i cipressi in quelle toscane, contrassegnavano le ville e le case padronali. Ma adesso contrassegnano solo l’imprevidenza di chi li ha piantati e, insieme ai pini e agli alberelli di Natale divenuti giganti, danneggiano le case e costano un occhio della testa per essere abbattuti.
Nelle vie pubbliche imperversano i pini domestici che sfasciano le fognature, sollevano le pavimentazioni e con le loro pigne (anche le pigne verdi cadono e fanno male) costituiscono un pericolo costante. I Comuni stipulano polizze per danni causati a persone e a cose dalle cadute dei rami e delle pigne, dalle insidie stradali dovute alla deformazione del manto stradale, dalla viscidità creata dal fogliame caduto e non prontamente rimosso. Tali polizze sono onerosissime e le compagnie di assicurazione ne sono ossessionate, tanto che spesso si coalizzano per ripartire il rischio senza rovinarsi i rapporti col cliente.
Quando impareranno gli amministratori pubblici e le persone private a dare il giusto peso al buon senso e ai consigli degli agronomi, dei vivaisti e del giardinieri? Ma quello che succede con gli alberi è poca cosa rispetto a quel che è successo nella valle del Paglia e un po’ in tutta Italia e nel mondo. L’imprevidenza e l’imprudenza è una caratteristica universale dell’umanità. Ma altrettanto umano è porsi il problema e cercare di limitare i danni riflettendo bene quando si pianta un albero in giardino e su un’area pubblica, così come quando si programma un quartiere e si costruisce una casa.
L’opinione di Barbabella
Pier, lo vedi che la razionalità ha un gran ruolo e che la sua assenza si sente, si vede e si pesa? Certo, hai assolutamente ragione, sembrano problemi marginali, ma non è così, sia per le conseguenze concrete, sia e direi soprattutto per da una parte la vera e propria incoscienza di quel fare quotidiano che corre dietro ai desideri e ai gusti dell’immediato, e dall’altra per quell’agire senza visione che non si preoccupa né del presente né del futuro.
Ne sappiamo tutti qualcosa. Tutto questo però passi sul piano privato: ognuno poi ne pagherà le conseguenze che inevitabilmente ne verranno; ma non passi per nulla sul piano pubblico: tutto il territorio ne porta i segni, spesso pesanti, che gravano su generazioni e generazioni. A questo proposito non si possono dare le colpe solo agli amministratori in modo generico, che prende tutti e non prende nessuno. Le responsabilità di questo tipo vanno infatti ben definite ed anche equamente distribuite: coinvolgono amministratori e tecnici, pubblico e privato, singoli e collettività. E su ogni aspetto andrebbe fatta una riflessione e stabilito ciò che è successo e perché. Ci sono interventi miopi programmati in base ad un’urbanistica frutto di spinte particolaristiche che gli amministratori non hanno avuto il coraggio di negare; ce ne sono altri (zonizzazioni, costruzioni, piantumazioni, ecc.) frutto di ignoranza mista a interesse; e altri ancora frutto di un lasciar fare demagogico completamente disinteressato a ciò che verrà, in base al principio che “oggi ci sono, domani non si sa”, per cui chi verrà dopo se ne occuperà.
Come si vede, un problema che sembra frutto solo di ignoranza e miopia ne richiama altri e alla fine fa emergere soprattutto il vizio tipicamente italiano, che negli ultimi decenni si è andato via via rafforzando fino a diventare sempre più frequentemente fonte di guai, ossia l’idiosincrasia per analisi e comportamenti razionali, lungimiranti e coerenti. Ma non è solo superficialità, non è solo interesse spicciolo, è mancanza di solida cultura del territorio, che diventa ovviamente, nelle circostanze specifiche, causa di danni anche seri. Vai però a contrastare questa cultura e gli interessi che intorno ad essa si sono stratificati, e vedi che cosa ti succede!
C’è chi ci ha provato a programmare secondo una visione corretta dell’uso del territorio, correggendo gravi scelte del passato, compreso l’arredo urbano e la gestione del verde e delle zone alberate, ma il minimo che si possa dire è che è stato mal sopportato per un certo tratto e poi lasciato solo e attaccato con tutta la virulenza e la cattiveria di chi “ama” l’interesse particolare e le cattive abitudini. Ad esser buoni si deve dire con Ovidio “Video meliora proboque, deteriora sequor” (Vedo il meglio e l’approvo, ma seguo il peggio). Invece ad esser cattivi che cosa si dovrebbe dire?