Siamo un popolo di vigliacchi?
di Pier Luigi Leoni
Romano Prodi, in un recente discorso ad Assisi, ha messo il dito nelle piaghe dell’Italia con quel suo dire e non dire che a molti non lo rende simpatico. Ma il succo che se ne trae è che siamo un popolo di vigliacchi.
Un esempio del dire e non dire. La legge sullo ius soli «capisco che la si possa discutere per opportunità dopo la legge finanziaria.. ma è una legge che va fatta… Avere troppo paura della reazione dell’opinione pubblica, sterzando a destra, peraltro rischia di essere inefficace (perché semmai gli italiani votano l’originale)». Detto in chiaro: Gentiloni fa bene a non mettere la fiducia sullo ius soli, cioè a non rischiare la crisi di governo, ma lo dovrebbe fare dopo l’approvazione della legge finanziaria. Ossia Gentiloni dovrebbe infilare la testa nel cappio dopo aver tranquillizzato i mercati. E della legge elettorale chi se ne frega.
Prodi affronta anche il tema dell’incertezza decisionale determinata dalla paura di sbagliare. Paura dell’opinione pubblica e dell’indeterminatezza delle leggi e quindi dei possibili interventi della magistratura. «La politica invece dovrebbe avere coraggio e visione, pensare non solo all’oggi, ma al domani e al dopo domani. Imboccando una strada precisa: avendo coraggio». Uno che ha avuto coraggio, secondo Prodi, è stato il commissario straordinario Antonio Paolucci, che dopo il terremoto di vent’anni fa, ricostruì in soli due anni la basilica sbriciolata perché «aveva il coraggio di decidere con senso di responsabilità… Ma oggi, di fronte alla incertezza della legge e della giustizia noi abbiamo trasformato il Paese in una struttura di protezione reciproca. Tutti hanno paura, comprensibilmente, di prendere una decisione. E invece, per l’incertezza della legge, abbiamo moltiplicato i controlli e deresponsabilizzato coloro che prendono decisioni complesse». Parole sante, ma Prodi sorvola sul fatto che vent’anni fa le leggi non erano più chiare di quelle di oggi e la magistratura non era morbida. Insomma, siamo impastoiati dalle leggi o dalla viltà?
L’opinione di Barbabella
La tentazione di rispondere alla domanda di Pier in modo sbrigativo, che si, siamo impastoiati sia dalle leggi che dalla viltà, è grande. Però, mi ci soffermerò tra poco, bisognerà anche chiedersi chi fa le leggi e di chi è davvero la viltà. D’accordo con Prodi che il Paese è stato trasformato “in una struttura di protezione reciproca”, con il risultato che “tutti hanno paura … di prendere una decisione” su questioni complesse che richiedono assunzione di responsabilità. Basta guardarsi intorno e non si fa fatica a notare che non si sa quasi mai chi fa che cosa, chi deve rispondere di qualche accadimento, chi è disposto a prendersi a cuore una questione che potrebbe comportare qualche rischio serio. Ma chi si porta la colpa di questa situazione, direi di questo clima?
Insomma, siamo di fronte ad un processo generale di deresponsabilizzazione che destruttura lo stato e lo rende sempre meno credibile. Ma appunto Prodi non la dice tutta, perché la domanda è: come mai si è arrivati a tanto e come mai non si riesce a porre argine a questa tendenza all’autodistruzione del sistema pubblico? C’entra qualcosa la classe dirigente e in essa la classe politica? Prodi ne ha fatto e ne fa parte? Denunciare i fenomeni è giusto e necessario, ma nel contempo bisogna prospettare le soluzioni e dimostrare di impegnarsi per tradurle in pratica. Prodi è personaggio influente da una vita e lo è stato sia prima che dopo aver fatto per ben due volte il Presidente del Consiglio.
Possiamo dunque concedere che nel popolo italiano la lontananza e l’ostilità nei confronti dello stato, la scarsa considerazione del bene pubblico e la scarsa propensione a spendersi per la collettività, siano atteggiamenti largamente presenti e consolidati per vicende lontane e recenti. Ma possiamo ridurli a mancanza di coraggio di un popolo intero come fosse un suo carattere distintivo? Significherebbe di fatto assolvere tutti. E certo non si può, proprio non si può!
Ad esempio, è un frutto di magia che dal caso Tortora in qua continuino ad accadere a ripetizione casi di personaggi pubblici colpiti da accuse che poi si rivelano inesistenti? Quanti e quali sono? Bastino i nomi di Andreotti, Mastella, Orsoni, e ora anche Renzi. Non è vero che il Berlusconi Presidente del Consiglio fu raggiunto da un avviso di garanzia nel bel mezzo di un incontro internazionale per un’accusa rivelatasi inconsistente? E non è vero che Mastella fu costretto alle dimissioni da Ministro provocando così anche quelle di Prodi per accuse riconosciute ora infondate? E non è accaduta la stessa cosa ad Orsoni allora Sindaco di Venezia? E Penati, ci si ricorda di Penati? Stiamo perdendo il conto.
Ma chi ha determinato questo strapotere della magistratura e questa incredibile debolezza della politica, che di quello strapotere è l’altra faccia? La politica, certa politica (e chi ne è stato e ne è compiacente e/o complice), essa sì è vigliacca e forse anche criminale. Ecco un piccolo passo di un’intervista di Antonio Di Pietro: “Ho fatto politica sulla paura … La paura delle manette, la paura del, diciamo così, ‘sono tutti criminali’, la paura che chi non la pensa come me è un delinquente e quant’altro. Poi alla fine, oggi come oggi, avviandomi verso la terza età, mi rendo conto che bisogna rispettare anche le idee degli altri”.
Capito? È Di Pietro il giusto, il moralizzatore, l’uomo scelto da molti per mettere a posto l’Italia. È del tutto normale, indifferente, che per quella politica della paura gente perbene come Moroni o Gardini si sia ammazzata? Quelle di Di Pietro sono dichiarazioni incredibili, e non dice niente nessuno? Gli entusiasti dipietristi di allora, oggettivi anticipatori dei “maioisti” di oggi, tutti zitti? E gli eredi dei perseguitati di allora, parimenti tutti zitti? Un’altra domanda, la stessa, da ripetere sempre: ma chi permise e perché l’ascesa politica di Di Pietro? Chi diede fiato al Pool di Mani Pulite? Chi candidò poi Di Pietro nel Mugello? Chi scelse di allearsi con lui e gli permise di fare quello che tutti sappiamo e che però non so quanti vogliono ancora ricordare?
Certo Prodi qualcosa ne sa. Come sa chi fece a suo tempo la battaglia per la separazione delle carriere di magistratura inquirente e magistratura giudicante. E come certamente sarà informato del fatto che oggi i radicali e l’Unione delle Camere Penali hanno ripreso quella battaglia e stanno raccogliendo le firme per farla diventare proposta di legge. Mi piacerebbe chiedere a Prodi se, oltre a preoccuparsi delle lotte interne al PD si sta preoccupando anche di queste cose.
Da Gigino a Gigino. Una storia italiana
di Franco Raimondo Barbabella
I due Gigini sono Luigi De Magistris e Luigi Di Maio. Il titolo indica il percorso che compie la tentazione populista nella crisi della cosiddetta prima repubblica e nelle convulse vicende della seconda, dal dipietrismo al grillismo. L’occasione di rifletterci su è data dal decimo anniversario del VDay, il Vaffa da cui è nato il Movimento 5 stelle. Otto settembre, data forse non casuale.
Diciamolo subito: solo in Italia poteva accadere che un movimento nato da un “vaffanculo” potesse avere il successo che ha avuto. Ma, detto questo, si tratta anche di capirne le origini e le caratteristiche assunte. Farei però il percorso a ritroso. Partirei dunque dalle caratteristiche che vediamo.
Che cosa vediamo? Anzitutto, un movimento litigioso e confusionario, con esponenti ambiziosi ma poco competenti, carrieristi ed esibizionisti come gli altri. In secondo luogo una lontananza abissale tra princípi, dichiarazioni e realtà dei comportamenti. Basti per tutti il tradimento costante, direi sprezzante perfino del buonsenso, del principio uno vale uno. Principio di per sé falso e pericoloso, ma comunque proclamato e tradito senza vergogna. Le regole sono variazioni a soggetto, e l’unica che vale sul serio è che su tutto decidono Grillo e la Casaleggio & Associati, cioè soggetti privati non eletti da nessuno e fuori da ogni controllo democratico.
Inutile andare oltre, l’elenco delle distorsioni che evocano una forma preoccupante di totalitarismo digitale è troppo lungo per insisterci ancora. Un totalitarismo peraltro grezzo, non solo sul piano tecnico (come si è visto con la piattaforma Rousseau), ma su quello della cultura informatica. Si veda la discussione sul tradimento delle aspettative per l’uomo da parte della Silicon Valley, che rende vecchio e artefatto l’entusiasmo grillino per la meccanizzazione delle decisioni che isolano e sterilizzano confronto e passioni. Ma di questo M5s nemmeno si accorge.
Più interessante è, io credo, ragionare per un momento sulle origini del fenomeno, ciò che ne spiega anche la natura, e forse il destino. Da questo punto di vista, per chi volesse andare al cuore delle cose, è consigliabile la lettura di tre libri recenti. Il primo è “Credere tradire vivere” (novembre 2016) di Ernesto Galli della Loggia. Il secondo è “La delegittimazione politica nell’età contemporanea” (dicembre 2016) a cura di Giovanni Orsina e Guido Panvini. Il terzo è “Supernova. Come è stato ucciso il Movimento 5 Stelle” (settembre 2017) di Nicola Biondo e Marco Canestrari.
Riassumo rapidamente il senso delle cose, il succo, così come si può estrarre da queste letture. La storia della Repubblica si impianta su una storia di delegittimazione, che inizia con la nascita del regime fascista per incarnarsi poi, attraverso il 25 luglio e l’8 settembre del ’43 (per la logica degli eventi), nella contrapposizione di fascismo e antifascismo che trasformano reciprocamente l’avversario in nemico, per cui chi non la pensa come te, e magari cambia opinione e schieramento, diventa un traditore, da combattere senza quartiere, e al minimo ostracizzare e ignorare. Quanti esempi, eh?
Quando le classi dirigenti che si susseguono nel corso della cosiddetta prima repubblica degradano verso forme di irresponsabilità civica e di vera e propria rapina della democrazia rendendo evidente la loro incapacità di autoriformarsi, quella delegittimazione assume le forme del moralismo anticasta che ha la sua prima incarnazione nel dipietrismo, un misto di moralismo e di frenetica alternanza castale. Si noti bene: nel 2007, chi gestiva la comunicazione sia di Italia dei Valori che del nascente Movimento 5 Stelle era la Casaleggio & Associati. Luigi De Magistris ebbe il successo che è noto proprio sull’onda dell’appoggio del grillismo nascente.
Il Movimento 5 Stelle di fatto è l’erede di questa storia e Di Maio in fondo è il prolungamento e l’erede di De Magistris. In realtà dunque Grillo non ha fatto altro che allungare il cappello e raccogliere frutti già pronti. Il senatore PD Alessandro Maran ha onestamente riconosciuto che molti argomenti di Grillo sono gli stessi di cui si è nutrita a lungo certa sinistra incurante della necessità di pensare e dedita allo sport della delegittimazione dell’avversario, dell’insulto e della falsificazione di chi è diverso e pensa diversamente. E si cita l’esempio di noti fiancheggiatori, ad esempio Marco Travaglio, grande frequentatore di tutti gli ambienti dell’antiberlusconismo militante, dall’Unità all’Espresso, da Repubblica a Santoro, prima di fondare con Padellaro, altro ex Unità, il Fatto Quotidiano, come dicono in molti organo non ufficiale di magistratura e grillismo.
Tutto vero, io credo. Però quanto a delegittimazione dell’avversario nel centrodestra non si è certo scherzato. Comunque, io sono più che mai convinto che il Movimento 5 Stelle sia non il frutto velenoso della storia di una parte politica, quanto piuttosto, come ho detto, il prolungamento sotto altra forma di quella strutturale abitudine alla delegittimazione e denigrazione dell’avversario che, insieme all’atteggiamento mentale antiscientifico, anarcoide e velleitario, tendenzialmente autoritario, è un tratto forte e trasversale di classi dirigenti che connota la storia nazionale.
Un tratto che ha natura proteiforme, scoppia e poi si trasforma, non è mai identico a se stesso, e si rinnova ogni volta che le classi dirigenti democratiche dimostrano di non essere all’altezza delle sfide della realtà e dei bisogni reali del popolo. Forse qui stanno gli aspetti più negativi del fenomeno, per la semina di quel mix aggressivo di pulsioni irrazionali e di lucido disegno di potere che nei più genera passività, sfiducia e irresponsabilità. Incide, lascia il segno e dura nel tempo. E sono macerie, fisiche e morali.
Ecco perché chi insegue il populismo sul suo stesso terreno, invece di sfidarlo contrapponendo ad esso visione razionale, idee credibili alternative ed esempi di comportamenti responsabili, è doppiamente colpevole. Lo è perché, invece di correggersi, vuole solo far dimenticare di essere una delle cause scatenanti, e perché in questo modo, invece di indebolirlo ed eliminarlo, di fatto rafforza il fenomeno. Ma soprattutto perché, a mio parere, non ci vuole davvero molto sia a capire che a fare, anche se, certo, ci vuole gente che in ogni dove voglia e sappia fare.
L’opinione di Leoni
Il Movimento 5 Stelle è un fenomeno tipicamente italiano. Quindi, volendone capire qualcosa, bisogna cercarne le cause in Italia, essendo di poco aiuto i fenomeni populisti che si agitano qua e là in Europa. Una prima causa, mi sembra il discredito che la democrazia parlamentare si guadagnò dall’unità d’Italia in poi, sia nella fase classista del voto per censo, sia nella fase giolittiana del suffragio universale. Folli avventure coloniali e debolezza nel resistere alle pressioni della piazza e della Corona che ci gettarono nel massacro della grande guerra, poi l’incapacità di ostacolare il movimento fascista e la svolta autoritaria. Con le conseguenze che tutti ben conosciamo.
Dopo il disastro della seconda guerra mondiale e lo strascico di sangue della guerra civile, le varie forze in campo che si richiamavano al comunismo, all’anticomunismo cattolico e al liberalismo prefascista, trovarono un compromesso che partorì una costituzione buona per tutti gli usi, tranne che per l’efficienza dello Stato, e una repubblica parlamentare che soddisfaceva il protettorato americano senza eliminare la speranza dei socialcomunisti di tentare, grazie al voto popolare, il giochino che stava loro riuscendo nei Paesi dell’Est.
L’antipatia per la classe politica democratica fu interpretata dal Movimento dell’Uomo Qualunque, fondato da un brillante giornalista e commediografo, Guglielmo Giannini, che però, da intellettuale liberale, non digerì il fatto che il suo Movimento fosse diventato la bandiera di reazionari e di nostalgici del regime fascista, e lo mandò alla deriva. Le elezioni del 18 aprile 1948, grazie all’attivismo determinante della gerarchia cattolica, portarono alla vittoria della Democrazia Cristiana e all’inaugurazione di una stagione di egemonia cattolica temperata dai piccoli partiti laici e poi dal progressivo sganciamento dei socialisti dalla subordinazione alla politica filosovietica del partito comunista. Fino a quando, con l’istituzione delle regioni a statuto ordinario e con una forte spendita in deficit di denaro pubblico, i comunisti non furono tacitati mollando loro alcune importanti regioni italiane.
L’avidità della classe politica, l’inefficienza degli apparati pubblici, la supplenza politica assunta da una parte della magistratura ammalata di protagonismo e infine una crisi economica che ha rimangiato una parte del benessere costruito sull’onda dello sviluppo internazionale dei mercati, hanno rinfocolato il discredito della classe politica, il fastidio per le defatiganti schermaglie parlamentari e il disgusto per elezioni politiche fortemente influenzate dal clientelismo. Mentre una parte dell’elettorato abbandonava progressivamente l’esercizio del voto, un’altra parte s’infatuava delle promesse di palingenesi sociale di un movimento imperniato sul moralismo e sulla democrazia diretta da realizzare con gli strumenti informatici. La vecchia antipatia per i difetti della democrazia rappresentativa all’italiana, si è saldata con l’entusiasmo per la promessa di una svolta moralizzatrice e modernizzatrice. Sennonché il M5S, a causa del proprio radicalismo, si è chiuso in un forte assediato da tribù con le quali non vuole e non può dialogare e venire a patti. La conseguenza è che le sue tensioni interne, proprie di ogni movimento, di ogni partito e di ogni gruppo umano, si risolvono o con la fuga nelle braccia dei nemici o con forme di insistenza ossessiva sugli stessi slogan, talché i suoi esponenti più chiacchierini suscitano, in chi li ascolta da fuori, l’impressione di qualcosa di malsano. E gli assedianti aspettano appuntando le frecce.