Educare il popolo si può (e si deve), ma o è impresa rivoluzionaria o non è
di Franco Raimondo Barbabella
Mons. Gianfranco Ravasi, nell’ultimo breviario su Domenica del Sole 24 Ore intitolato Il popolo, cita la seguente frase di Seneca. “Torno a casa disumano rispetto a quando sono uscito, perché mi sono mescolato con il popolo” e ne rafforza poi il significato con quest’altra affermazione tratta dalla tragedia Fedra dello stesso autore: “Il popolo prova un gran piacere nel consegnare il potere a una persona turpe”. Anni prima il poeta Orazio aveva definito il popolo romano “una belva dalle molte teste”. Un giudizio pesante sull’essere popolo, una presa di distanza dura da parte di grandi intellettuali latini, che evidentemente Gianfranco Ravasi condivide e da cui prende spunto per contrapporre alla dimensione dell’essere popolo quella di essere se stessi mediante riflessione e silenzio.
Ma quel giudizio di poeti e filosofi può essere davvero dato per pacifico ancora oggi e la risposta di mons. Ravasi ritenuta del tutto condivisibile? Direi si e no per l’una e l’altra questione. Mi spiego. Oggi per molti versi il popolo (intendendosi con questo termine la massa dei cittadini) si comporta come si comportava all’epoca di Orazio o di Seneca. D’altronde il mio professore di filosofia morale all’università La Sapienza era solito ripetere che l’uomo (l’essere umano in generale), nonostante tutte le invenzioni tecnologiche che gli hanno reso più facile (o forse più complicata) la vita (l’automobile, la lavastoviglie, la televisione, ecc.), sul piano pratico – motivazioni e comportamenti – è rimasto ai tempi di Cicerone. Magari non è così: la lunga storia, l’evoluzione culturale, l’educazione, hanno prodotto cambiamenti sostanziali nella mentalità diffusa. Però è anche vero che la natura ondivaga degli orientamenti, la disponibilità a seguire il demagogo che sa spararla più grossa, l’interesse travolgente per il piccolo vantaggio, sono “vizi” diffusi oggi quanto ieri se non di più. Soprattutto, come ieri, occupano la scena il gusto della diceria e l’invidia, e anco più di ieri è forte la tendenza all’omologazione.
Dunque mons. Ravasi ha le sue buone ragioni a contrapporre al rumore della mancanza di pensiero il silenzio della riflessione. Ciò che, certo, è sempre valido sul piano personale. Ma a mio avviso va anche detto con nettezza che, come ieri e molto più di ieri, dei grandi vizi collettivi sono colpevoli di sicuro, ancor più dei singoli individui, i capi di movimenti e partiti orientati al populismo, coloro che per ottenere il favore popolare al fine di realizzare i loro disegni sono disposti a falsificare anche la realtà più evidente. A fare esempi corroboranti ci sarebbe da perdersi. Basti dunque citarne due: la vicenda dei vitalizzi e quella dei migranti. Lo ripeto da un bel pezzo: se ne esce solo con un lungo, lucido e paziente lavoro. C’è di mezzo la selezione di classi dirigenti all’altezza dei compiti di governo di oggi e un’opera di educazione talmente vasta e profonda da dover essere definita rivoluzionaria. Mi pare si tratti di qualcosa che fa tremar le vene e i polsi. Ma per favore non si dica che è impossibile.
L’opinione di Leoni
Cerco di dare il mio piccolo contributo al “lucido e paziente lavoro” che Franco ritiene indispensabile e non impossibile per bonificare la politica che ci sta opprimendo con la sua angosciante superficialità. Non posso che rifarmi alla mia lunga esperienza politica, indiretta ai livelli alti e diretta a quelli bassi. Ebbene, l’esperienza mi ha convinto che per smuovere anche un solo filo di paglia nel verso giusto non basta sapere qual è il verso giusto, ma anche quali sono le passioni che agitato gli esseri umani. “Conosco il meglio e lo apprezzo, ma seguo il peggio (video meliora proboque, deteriora sequor)”. Così il poeta romano Ovidio ha sintetizzato il contrasto tra la coscienza morale e le passioni degli esseri umani. Meno sinteticamente, ma con riferimento specifico alla politica, mi sento di affermare che le molle che spingono a entrare in politica sono lo spirito di servizio, la vanità e il desiderio d’intrallazzare. Lo spirito di servizio e l’intrallazzo sono fra loro incompatibili, ma la vanità, se non resta nubile, può sposarsi con l’uno o con l’altro. Questa mia convinzione è utile per una schietta autoanalisi che può portare a entrare in politica e operare positivamente o a restarne fuori e operare altrettanto positivamente. Ma prendersela con il “popolo” è come prendersela con quanto di deteriormente popolare ci portiamo dentro.
Avvertimento ai politici: la politica non è solo cosa da uomini
di Pier Luigi Leoni
I sociobiologi negano l’opinione, oggi di moda, che preti, educatori e governanti abbiano ordito nella storia un complotto degli uomini per reprimere e sfruttare il sesso femminile. Essi fanno risalire le differenti caratteristiche fisiche, mentali e valoriali dei due sessi alle centinaia di migliaia di anni (un’enormità rispetto ai meno dei ventimila dalla scoperta dell’agricoltura e dalla complicazione della convivenza umana) in cui le donne furono educatrici e raccoglitrici e gli uomini cacciatori e guerrieri. Applicano entusiasticamente la teoria dell’evoluzione come chiave che apre tutte le porte. Anche a costo d’inventarsi le porte. Così la donna sarebbe mediamente poco idonea al lancio del giavellotto, perché le sue spalle si sarebbero conformate non per la caccia, ma per sostenere i bimbi durante l’allattamento. Così l’uomo sarebbe mediamente più abile nel controllo dello spazio, mentre la donna sarebbe più duttile nell’impiego del linguaggio. Così la donna sarebbe mediamente più idonea alla comprensione delle comunicazioni non verbali, mentre l’uomo sarebbe, sempre mediamente, più rapido nel ragionamento logico e matematico. Vale a dire che la natura, secondo questo approccio alla storia naturale, si sarebbe comportata come gli allevatori che, a partire dal lupo, hanno selezionato, da una parte, i cani da caccia e, dall’altra, i cani che giocano coi bambini autistici nella pet-therapy.
Sia l’idea del complotto storico che quella della sociobiologia sono argute, ma sembrano cogliere solo parti di verità poco utili a chi, uomo o donna, si muova nell’ambiente politico. Certo, in esso trovate sia le battutacce di volgari maschilisti, sia le piccate reazioni di intransigenti membri dell’LBGT (Lesbian, Gay, Bisexual and Transgender people); ed è opportuno che tenerne conto, ma evitando di fasciarsi la testa. Per capire la vita non basta una vita. Non vi meravigliate se una donna trova difficoltà nella manovra per parcheggiare a marcia indietro. Ma non datelo per scontato, perché ciò avviene “mediamente”, come dicono i sociobiologi per mettere le mani avanti. Certo, pare che le compagnie aeree non se la sentano di far pilotare i grandi aerei di linea alle donne. Ma non agitatevi se, mentre l’aereo sta per decollare, vi capiti di sentire una voce femminile che annuncia: «È la comandante che vi parla».
Nel mondo della politica predominano ancora largamente gli uomini, nonostante che il corpo elettorale sia prevalentemente femminile e che una legge politicamente corretta favorisca la presenza negli organi collegiali di entrambi i sessi. Ma date tempo al tempo, e non date troppo credito all’insinuazione dei sociobiologi che le donne desiderose di potere abbiano un livello anomalo di testosterone. Potreste avere delle soprese.
Non sarà invece che quel tre cento di intelligenza in più che i sociobiologi attribuiscono alle donne c’entri qualcosa nel farle diffidare della politica?
L’opinione di Barbabella
Le spiegazioni dei fenomeni di tipo scientista fanno il paio con quelle di tipo ideologico ed entrambi fanno la stessa fine: muoiono di realtà, nel senso che i fatti affossano le paure e i desideri, soprattutto quelli inconfessati perché inconfessabili. Che esistano differenze di genere è palese, ma che questo debba dare origine a collocazioni predeterminate nella scala sociale a favore dell’uno o dell’altro è solo ideologia che nasconde convenienze di chi la professa.
Che esistano poi differenze di capacità rispetto a specifici compiti è altrettanto evidente, ma che questo debba essere verificato in pratica e non stabilito a priori lo è altrettanto. Figuriamoci per quanto attiene al diritto o al dovere di esercitare funzioni: in una società democratica si dovrebbero occupare posti ed esercitare funzioni solo in base alla selezione trasparente dei più adatti, dando naturalmente per scontato che non esistono né criteri perfetti di selezione né risultati perfettamente coincidenti con le aspettative.
Questo in generale. Ma in politica le cose non possono stare in modo del tutto diverso: dovrebbe essere designato a ricoprire funzioni solo chi, uomo o donna, si ritiene sia la persona più adatta a svolgere nell’interesse di tutti quel determinato compito. Ciò che raramente è, anche in democrazia. E appunto ciò che ne costituisce forse il limite maggiore, che però non è costitutivo, ma relativo a circostanze storico-sociali e culturali in teoria rimovibili. Da qui le lotte per l’uguaglianza, almeno di opportunità. Una questione che oggi, nelle società occidentali, non è più drammatica, anche se non completamente risolta.
Io credo errata la politica delle quote, come credo errata e foriera di guai ogni impostazione che stabilisca un merito per legge. Le quote sono una cosa di questo tipo. Il merito è individuale e si dimostra, non si ha per quote. E non è nemmeno vero che con le quote si ottiene giustizia. Non mi si venga a dire che il solo gridare “avanti le donne”, così come l’analogo “avanti i giovani”, senza preoccuparsi di accompagnare tali grida con l’altro, complementare e di pari potenza, “avanti quelli bravi”, abbia portato di per sé un qualche apprezzabile miglioramento. Comunque, chi avesse paura dell’avanzare delle donne nella società e in particolare in politica, dovrebbe averla solo se questa dovesse derivare da prevaricazioni e non da meriti conquistati per intelligenza e capacità. Tutto il resto è noia.