Politici (provvisoriamente) simpatici e antipatici
di Pier Luigi Leoni
Il dottor Domenico Iannetti, medico chirurgo psicologo psicoterapeuta sessuologo, scrive su internet “tutti noi riconosciamo teoricamente il diritto di libertà di opinione agli altri ma di fatto ci risultano simpatiche solo le persone che la pensano più o meno alla nostra maniera. In ogni parte del mondo, in ogni cultura le persone provano simpatia esclusivamente per chi ha sostanziali affinità con loro stesse”.
Non capisco allora perché quell’assessore comunista di una giunta comunista dichiarò (ne sono testimone) che Giorgio Almirante gli era simpatico e lo affascinava con la sua eloquenza. Il sindaco comunista lo redarguì con le seguenti parole: «Codeste son cose che si pensano, ma non si dicono». Poiché non devo sottostare ad alcuna disciplina di partito, posso dire esplicitamente chi, limitandomi ad alcuni personaggi politici più in vista, mi è simpatico e chi mi è antipatico. E ne spiego il perché, non per convincere qualcuno, ma per convincere momentaneamente me stesso fino a quando, non deciderò, come qualche volta ho fatto, di cambiare idea.
Comincio da Massimo D’Alema, che mi irrita col suo modo di fare spocchioso, ma che vorrei conoscere personalmente, perché sono sicuro che sia una persona molto simpatica nei rapporti ravvicinati; uno che ama il vino e la cucina non può essermi antipatico. Mi è simpatico Silvio Berlusconi, perché, con tutti i suoi vizi e il suo narcisismo sfacciato, mi sembra un uomo di buon cuore. Il fatto che abbia strumentalizzato la politica (e ancora lo stia facendo) per salvaguardare le sue aziende, lo metto in relazione con lo sfascio che avevano progettato le sinistre.
Mi è antipatico Renato Brunetta, perché in ogni sua frase mette sempre una punta di disprezzo per gli avversari. Mi è simpatico Alessandro Di Battista, perché dice le cose più prevedibili con la faccia tosta di un attore consumato. Mi è antipatico Beppe Grillo, perché, per i miei gusti, è troppo volgare. Ma da quando ha al fianco una persona taciturna ed equilibrata come Davide Casaleggio si sta sempre più moderando. Mi è antipatico Matteo Renzi perché, dopo la batosta del referendum subita per la sua sbagliata scelta dei mezzi e dei modi, non si è fatto completamente da parte ostinandosi a voler governare un Paese che, senza le riforme costituzionali bocciate dal corpo elettorale, sarebbe stato (suo dire, e non senza qualche ragione) ingovernabile. Mi è simpatico Paolo Gentiloni, perché sa quel poco che dice e perché tira avanti benino con l’acquiescenza di un parlamento soddisfatto di aver messo Renzi alle corde. Mi è antipatico Matteo Salvini, perché spara opinioni demagogiche ogni volta che apre bocca, però provo nei suoi confronti una certa tenerezza quando vedo che s’illude di raccogliere tanti voti nella Magna Grecia.
L’opinione di Barbabella
Il dottor Iannetti ha tanti di quei titoli (perfino una laurea in filosofia antropologica) che sembra azzardato potergli obiettare qualcosa. Però penso che non sarà offensivo rilevare che, contrariamente a quanto mi pare egli voglia sostenere senza un pelo di dubbio, il riconoscimento del diritto di opinione appartiene, per tradizione teorica e pratica consolidata, ad un piano diverso dal sentimento di simpatia/antipatia. Per cui fra i due costrutti mentali non può esserci alcuna contraddizione.
Il diritto d’opinione, infatti, è il portato delle lotte d’emancipazione che si sono svolte lungo l’arco della storia moderna e rappresenta uno dei principi su cui si fondano le costituzioni democratico-liberali. È dunque un principio consolidato della cultura giuridica moderna, un principio non più assoggettabile né alle variazioni d’umore né alle gentili concessioni di qualcuno. Altra cosa sono i sentimenti di simpatia e di antipatia: essi valgono sul piano individuale e dipendono da come si è venuto strutturando il nostro personale sistema di relazione, oltre che dalle circostanze particolari in cui entriamo in contatto con gli altri. Quindi non hanno nulla di oggettivo essendo da rapportare sia alla percezione soggettiva dell’altro che alla valutazione razionale dei suoi atti e dei suoi messaggi.
Ovvio che, avendo anch’io come tutti dall’adolescenza in qua un apparato di convinzioni ideali e di esperienze, e dunque un mio modo di valutare persone e circostanze, ho anche le mie simpatie e antipatie in politica. Confesso però che esse si rivolgono, più che alle persone dei protagonisti, alle loro posizioni e ai loro atti. Ho detto più di una volta che la mia formazione risente di diverse influenze culturali, dalle riflessioni di tempi meno recenti più direttamente legate alla politica (Piero Gobetti e Carlo Rosselli) o più propriamente filosofiche (Benedetto Croce e Guido Calogero, Hannah Arendt e Karl R. Popper) a quelle più recenti di filosofia della scienza e del pensiero critico di vario orientamento. Direi che il quadro concettuale di riferimento politico in cui posso riconoscermi può essere definito di tipo liberaldemocratico e socialista, libero tuttavia da ogni schematismo e lontano da ogni tentazione di tipo ideologico, lontano cioè da quell’atteggiamento mentale che trasforma le idee in gabbie.
Detto questo, le mie simpatie vanno a coloro che, pur appartenendo a diversi schieramenti politici, riescono a dimostrare con i pensieri e con le opere e qualunque sia la funzione che sono chiamati a svolgere, competenza, sguardo lungo, prevalenza dell’interesse generale. Soprattutto, aborrono la demagogia e concepiscono la politica come esercizio di libertà nella responsabilità. Sinceramente, non ne vedo molti così caratterizzati. Mentre ne vedo molti, soprattutto i capi, che ne sono lontani, preoccupati molto dell’immediato, oltre che di sé e della propria parte, piuttosto che di governare il presente per preparare il futuro, oltre che di un effettivo interesse generale da far valere come guida ideale e pratica. Soprattutto, vedo molti improvvisati, malati di demagogia e disposti a tutto pur di ottenere il comando. Ripeto, il comando, nemmeno il potere. Mi sembra sufficiente fermarmi qui.
La cialtroneria, a partire da quella linguistica, ha qualcosa a che fare con l’indifferenza di fronte alla violenza? Si!
di Franco Raimondo Barbabella
Il video del pestaggio di Niccolò Ciatti in quel locale di Lloret de Mar si impone con una forza dirompente, ci tocca nel profondo, fa male. Ed è reale, come già hanno detto diversi amici, la sensazione di schifo nel vedere quei giovani che assistono allo scempio come si assiste ad uno spettacolo. È stato detto, uno spettacolo più interessante di un film, perché vero e perché si sviluppa in diretta, davanti ai tuoi occhi, e tu lo potrai raccontare, emozionandoti e quasi quasi desiderando di riviverlo ancora. Perversione? Forse, ma se di questo si tratta ha assunto tale frequenza e dimensione che non possiamo più fermarci ai sentimenti di ripulsa e alle parole forti. È l’ora di riflettere a muso duro su questi che appunto non sono più episodi strani quanto al contrario spie di condizioni culturali e sociali che si stanno stabilizzando.
Alla fine di marzo era toccato ad Emanuele Morganti ad Alatri: una lite dentro il locale, poi, fuori, il selvaggio pestaggio del branco con bastone e chiave inglese. Un altro giovane ammazzato senza pensamento e senza timore da parte di giovani davanti a giovani, che assistono e non intervengono. E non era questa, come ben sappiamo, la prima volta di violenze consumate nell’indifferenza. Sappiamo anche che non sarà l’ultima.
Dunque si ha l’impressione che la violenza stia diventando normale, venga accettata e in qualche modo partecipata emotivamente. Basta? No, non basta. Lo scrittore Ferdinando Camon su “La Stampa” ha scritto: “Questi uomini che guardano il massacro non lo guardano, ma vi partecipano. È come se venisse ucciso un cane? No di certo. Se fosse massacrato così un cane, cinque, sei, tanti spettatori interverrebbero per impedirlo, protesterebbero, griderebbero per fermare gli uccisori. L’uccisione di un cane fa inorridire”. E fa reagire, mentre quella di un essere umano no. Mi pare una notazione importante, perché indica che sta accadendo (o è già accaduta?) una vera e propria mutazione negli orientamenti culturali di fondo, quelli che determinano gli orientamenti pratici e le azioni di molti, soprattutto giovani. Ecco dunque la questione: se vogliamo rapportarci sul serio a problemi come questi dobbiamo mettere in linea i pensieri e organizzare una reazione non più solo momentanea ed emotiva.
C’è indubitabilmente un problema di educazione di lungo periodo. Non è più questione solo di istruzione (ovvio che c’è anche questo): materie, orario, anni di studio, organizzazione ed efficienza del sistema. È questione proprio di formazione del cittadino, dall’infanzia all’adolescenza all’età adulta. Perciò è questione di ciò che vuole una società, di come essa percepisce se stessa e il suo destino, di quali valori la comunità ritiene essenziali e come si organizza per renderli vita attiva. Non ci si può più tirar fuori col “passa oggi che viene domani” e con un’alzata di spalle.
Le persone si possono educare? Anche le emozioni si possono educare? E l’educazione può essere efficace? Si, ma deve essere organizzata in tutte le fasi, deve riguardare la funzione della scuola fin dall’infanzia, deve essere assunta come suo compito essenziale dalla famiglia qualunque forma essa abbia al momento, e deve improntare la società in tutte le sue diramazioni. Esattamente il contrario di ciò che accade oggi, che possiamo definire l’epoca dell’indifferenza educativa in ogni dove, dalla scuola alla famiglia, alle istituzioni, alle organizzazioni sociali, ai mass media e ai social. Che cosa si pensa poi di ottenere, angioletti che da soli si inventano percorsi personali di purezza evangelica?
Non sto pensando certo ad una società di santi, ma che si lasci correre tutto, come se tutto fosse casuale o deciso ab aeterno e impossibile da correggere, no, questo proprio no. E comunque basta prediche, a scuola, come fuori. È ora di stabilire una scala di valori. Da dove cominciamo? Come sempre dalla verità. E la verità comincia con il rispetto delle parole, del loro significato autentico in quanto relazionato al contesto. Si possono fare mille esempi. Ad esempio oggi si dice fascismo con una facilità incredibile a proposito di fenomeni tanto diversi da chiedersi se si ha un minimo non dico di conoscenza delle cose ma almeno di semplice informazione; addirittura si parla di Olocausto a proposito dei migranti. Non si tratta di banalità, in quanto questa ‘scioltezza’ nel distorcere il significato delle parole è piuttosto la spia di un degrado civile e morale che più si tarderà ad ammettere e più diventerà irreversibile.
Ce lo ha ricordato l’amministratore delegato del New York Times, Mark Thompson, che citando Tucidide (ma quanto va di moda oggi Tucidide, di qua e di là dell’Atlantico!) scrive che “un fattore importante del declino di Atene da democrazia disfunzionale fino a tirannide e anarchia passando attraverso la demagogia è stata una mutazione nel linguaggio: la gente iniziava a definire le cose come le pareva, secondo l’autore, e andava perso ‘il significato normale e accettato delle parole’”.
In sostanza, ciò che accadde ad Atene duemilaquattrocento anni fa potrebbe accadere di nuovo, seppure in modi diversi, anche oggi, quando è in atto una deriva generale in cui tutto sembra possibile. Solo se si prenderà coscienza di questa dimensione delle cose, di cui sono spia gli episodi di violenza che si susseguono sotto i nostri occhi allucinati, allora si troverà la forza di reagire nel giusto modo, che è quello che ho cercato di indicare sopra.
Possiamo dire dunque che la società ha compiti educativi e che le sue istituzioni si devono porre questo come compito principale? Che nella scuola la priorità ce l’ha la formazione del cittadino e che tutto il resto è funzionale e basta? Che le famiglie devono farla finita di delegare tutto salvo poi guerreggiare su tutto, dal panino ai dieci minuti di scuola e non so più a che cosa? Che non si possono più premiare gli ignoranti e tollerare gli incapaci? Soprattutto, possiamo dire basta alla cialtroneria, comunque e dovunque infiltrata?
Insomma, o ricominciamo con pazienza ad educare o non ne usciremo più. Educazione alla libertà con fondamento nella responsabilità, individuale e sociale.
L’opinione di Leoni
Secondo Giordano Masini, mio amico su facebook, il ragazzo [io direi giovanotto] ammazzato di botte in Spagna [io direi Catalogna] di fronte a una folla apparentemente inebetita non è vittima del cinismo degli spettatori, ma di un fenomeno noto in psicologia sociale dagli anni ’60, il bystander effect (apatia dello spettatore): maggiore è il numero degli spettatori di un evento drammatico, minore è la probabilità che qualcuno intervenga in aiuto della vittima. È una cosa che ha fare – tra le altre cose – con il senso di responsabilità, che è più basso se più alto è il numero delle persone con cui viene condiviso, e con la nostra istintiva indisponibilità a comportarci in maniera diversa dagli altri. È difficile da accettare, ma potrebbe capitare a chiunque di noi, anche a quelli che oggi sono convinti che sarebbero intervenuti”.
Ho frequentato Lloret e Mar e conosco la sua attrezzatura per lo svago di massa a buon mercato. Niente di così diverso da alcune zone italiane. Tanto è vero che alcune ore dopo un giovanotto di Pianiga è stato pestato quasi a morte in una discoteca di Jesolo.
Certo che c’entrano l’educazione familiare e quella scolastica, così come la crisi morale delle società opulente e la stanchezza della democrazia. Ma non va dimenticato che i raduni di massa sono stati inventati per sfruttare la fuga delle persone dalla propria insoddisfacente quotidianità. Dagli spettacoli dei circhi e degli anfiteatri romani, agli stadi per gli spettacoli sportivi di massa, ai raduni canori e a quelli politici, le masse sono convocate per spillare soldi o consensi politici. Ma nei raduni di massa possono esplodere, e sovente esplodono, episodi di violenza provocati proprio dall’eccitazione che dà la massa a persone fragili per natura o per assunzione di sostanze psicotrope o per sobillazione di provocatori. Chi si occupa di ordine pubblico sa bene che i raduni di massa sarebbe meglio che non ci fossero. Ma è destinato a rimanere deluso perché sia le democrazie che le dittature ne hanno bisogno.