Abbiamo la classe dirigente più lungimirante della storia e non ce ne eravamo accorti. Ma perché siamo sempre così distratti?
di Franco Raimondo Barbabella
Molti di coloro che hanno seguito il dibattito in Senato sul decreto vaccini avranno pensato, anche sulla scorta di molti altri episodi di cui si ha generalmente viva memoria, che la nostra classe dirigente non solo è digiuna di scienza ma le è pervicacemente ostile, tante e tali sono state le scemenze che si sono dovute ascoltare anche in tale solenne occasione. Ma si sono sbagliati.
In realtà la nostra classe dirigente, di cui evidentemente la classe politica è autentica parte e genuina espressione, ha una raffinata cultura scientifica, solo che la tiene gelosamente nascosta, magari non si capisce perché. Che però ce l’abbia lo dimostrano alcuni fatti incontrovertibili. L’ultimo è stato opportunamente analizzato pochi giorni fa da Antonio Polito sul Corriere della sera. Si tratta della cosiddetta “transumanza dei parlamentari”, che poi non è altro che la riproposizione del vecchio e mai tramontato trasformismo (tranne che all’epoca della prima repubblica, non ci si crederebbe, vero?) che ha caratterizzato le vicende parlamentari italiane almeno a partire da Agostino Depretis (Discorso di Stradella, 1882) avendo già a disposizione come esempio illustre il precedente piemontese del “Connubio” Rattazzi – Cavour (1852).
Scrive Polito che “il trasformismo ha dilagato proprio nella seconda Repubblica” a seguito del crollo del Muro di Berlino e di Tangentopoli e si è poi aggravato dal 2013 quando è venuto meno anche il bipolarismo. E prosegue: “Oggi il Parlamento è praticamente disossato. Al Senato non si può neanche dire se ci sia oppure no una maggioranza politica, perché numerosi gruppetti di senatori rispondono ormai a singoli cacicchi, dei quali non si sa più se appartengono al centrodestra o al centrosinistra. Come nella fisica quantistica, si tratta di particelle subatomiche talmente mutevoli e veloci che se ne può rilevare solo il movimento o solo la posizione, mai tutt’e due le cose insieme”.
Non ci si crede, vero? Proprio così: altro che ignoranza scientifica, questa è gente che conosce le teorie novecentesche più raffinate della regina delle scienze, la fisica. Ed esattamente applica quel “Principio di indeterminazione” che Werner Karl Heisenberg formulò nel 1927 e che (alla grezza, lo so) può essere espresso così: di una particella subatomica, ad es. un elettrone, non si può stabilire contemporaneamente sia la posizione che la velocità. Dunque conseguenze serie anche sul piano dell’epistemologia e della filosofia della scienza: fine del determinismo meccanicista ottocentesco, fine della validità indiscussa del principio di causalità, dunque non prevedibilità del futuro per l’impossibilità di conoscere in modo preciso il presente.
E allora, perché un politico attento e previdente, conoscendo questo principio di incertezza che governa il grande mondo, il cosmo, non dovrebbe preoccuparsi delle conseguenze che da esso potrebbero derivare per il piccolo mondo, il suo, e certo, ci mancherebbe!, anche per la nazione, dunque per il destino di tutti noi? Se ne preoccupa eccome, e cambia zona e vestito, e talvolta dopo lungo peregrinare torna al punto da cui era partito, descrivendo in tal modo un anello, in inglese un loop, che è un altro aspetto, raffinato e avanzatissimo, della ricerca in fisica (teoria della gravità quantistica a loop).
Essendo dunque ormai acclarato che nella nostra classe dirigente c’è una cultura scientifica nascosta sì ma ben presente e che ci sono episodi incontrovertibili che ne testimoniano la capacità di utilizzo, non si capisce come gente colta ed esperta, addirittura storici e docenti universitari, come l’illustre Ernesto Galli della Loggia, non se ne rendano conto. Infatti, qualche giorno prima, sempre sul Corriere, il detto Ernesto Galli si lamentava in un ponderoso articolo sui mali d’Italia, un elenco lunghissimo e devo dire calzante, che nulla funziona e soprattutto che la politica ha rinunciato ormai al compito stesso per il quale è legittimata ad esistere, cioè al potere di governare i processi, con la conseguenza di un’illegalità diffusa per cui ormai ognuno comanda per sé, fa quello che gli pare, e il disordine inevitabilmente regna sovrano.
Appunto, altra prova che la nostra classe dirigente ha una cultura scientifica nascosta ma solida, conosce benissimo le più avanzate teorie della fisica contemporanea, anzi le possiede a tal punto che le applica automaticamente senza nemmeno pensarci. Non è forse vero, infatti, che proprio la teoria quantistica dimostra che la realtà nella sua struttura fondamentale ha una natura granulare ed è un movimento e un cambiamento continuo senza direzione prevedibile, dunque necessariamente disordinato?
Allora finalmente facciamola finita con le accuse ricorrenti di ignoranza scientifica alla nostra classe politica, espressione suprema della nostra classe dirigente. Accuse infondate, la realtà dice esattamente il contrario. Dovremmo piuttosto esserne orgogliosi, perché come Paese essa ci mette in sintonia con il mondo, meglio, ci colloca all’avanguardia nella storia del mondo. Non ci si crederebbe, vero? Eppure deve essere proprio così, sennò un popolo intelligente come quello italiano avrebbe da tempo provveduto. Ottimismo signori, ottimismo! Perciò con ci resta che concludere con un sentito Evviva l’Italia!
L’opinione di Leoni
Voglio spezzare una lancia a favore della nostra classe parlamentare. Mica si può passare la vita a mettere in evidenza i difetti degli altri. Allora, per dimostrare che sono stato un bravo studente di storia (meno di fisica, perché troppe volte gli scienziati ne hanno ribaltato le fondamenta e mi hanno disorientato) vorrei ricordare che la nostra cara Italia altro non è che una forzatura della storia. E la nostra classe politica non è il peggio che possiamo aspettarci, visti i precedenti.
L’ambizione dei Savoia e la moda dei grandi Stati nazionali, nonché l’interesse degli imperialisti inglesi a inserire nell’Europa meridionale un elemento di disturbo agli imperialismi francese e austroungarico, appiccicarono la Magna Grecia neofeudale e bizantina al Centro-Nord della penisola, che aveva digerito le invasioni barbariche, il feudalesimo, le città-stato e le signorie regionali. Su quello che successe dopo l’unità d’Italia andrebbe steso un velo pietoso, ma alcune cose non si possono tacere: una serie di guerre coloniali semplicemente folli, che hanno portato solo guai; il coinvolgimento tragico in due guerre mondiali che hanno portato lutti, disastri e l’inutile allargamento temporaneo dei confini nazionali; l’emigrazione di milioni di poveretti fino a pochi decenni fa; qualche ammodernamento del Paese a prezzo di una ventennale dittatura con velleità totalitarie e fine tragica e ingloriosa; uno sviluppo economico dopo la seconda guerra mondiale (superata, grazie agli Americani, la fase della fame) molto più debole di quello dei popoli sterminati e devastati dalla guerra come i Tedeschi e i Giapponesi; una stentata sopravvivenza della democrazia nella morsa della mafia, della corruzione, delle stragi di Stato, dei rigurgiti della violenza rivoluzionaria e dell’enorme indebitamento pubblico.
Un incubo che la riflessione sulla grandezza e spesso sull’eroismo di alcuni personaggi e su tanti aspetti di modernità che ancora ci mantengono il settimo posto tra i 20 paesi più sviluppati del mondo non basta a dissolvere. Quindi, i circa mille bricconcelli che abbiamo mandato in parlamento portano il peso di quella po’ po’ di storia e, tutto sommato, non se la cavano male. Abbiamo un comico genovese che tira le fila di un bel pezzo di parlamento, un chiacchierone fiorentino che cerca di manovrare un nobile romano di secondo piano al governo, un vecchio imprenditore, tinto e stirato, che s’arrabatta ancora in politica per salvare le sue aziende, un lombardo che, avendo rinunciato alla speranza di spaccare l’Italia, s’illude di mettere la mani anche sui voti del Sud, e altri personaggi bizzarri che, tuttavia, consentono alla barca di stare a galla. Contentiamoci. Dammi retta, caro Franco.
La comunicazione politica con gli spot televisivi
di Pier Luigi Leoni
La comunicazione politica avviene ormai quasi esclusivamente con gli spot televisivi. I personaggi politici di primo, secondo e terzo piano si sprecano nel tentativo di accalappiare consensi. Chiamiamola propaganda, come usa la Clerici, o consigli per gli acquisti, come usa Costanzo, o pubblicità, come usano gli altri, si tratta comunque di colpire l’attenzione dello spettatore con frasi ad effetto che cercano di interpretare le angosce e i desideri più diffusi. Alla stregua del prostamol, dei salva slip carefree e del kukident, le ricette politiche sono ripetute con enfasi, contando sull’ansia e sull’ignoranza dell’ascoltatore.
È questa la democrazia italiana di oggi. Gli autori degli spot politici, come quelli degli spot commerciali, non sanno bene di che parlano, ma contano sulla loro empatia con gli spettatori. Sono state svuotate le sezioni dei partiti, sono stati ridicolizzati i sindacati, sono stati abbandonati i parroci. La comunicazione politica si fa con spot pubblicitari che vengono riecheggiati nei bar e nelle pause di lavoro, dove dominano la scena i battibecchi tra i grillini, che promettono la palingenesi, e tutti gli altri, che non ci credono. Ma questa medaglia non ha solo una faccia. L’aspetto positivo è che le prossime elezioni partoriranno due camere così caotiche che i partiti dovranno scendere a compromessi così umilianti da perdere quel poco di faccia che loro rimane ed essere costretti al suicidio. Allora avremo toccato il fondo e non ci resterà che risalire. Oppure scavare.
L’opinione di Barbabella
Diciamocelo, Pier, il fosco ormai ci piace. Allora, per continuare su questo tono, mi rifaccio al Breviario di Mons. Gianfranco Ravasi, che nel numero del 24 luglio della Domenica del Sole 24 Ore intitolato La Marcia ripropone un pensiero di Albert Einstein, un notissimo passo del suo testamento ideale (Come io vedo il mondo, 1949). Eccolo: “Disprezzo chi marcia con piacere in rango e in formazione dietro una musica. Soltanto per errore può aver ricevuto il cervello; gli sarebbe ampiamente bastato un midollo spinale”.
Perché mi viene da rilanciare questo pensiero di Einstein rubandolo al Breviario di Mons. Ravasi? Ma perché è di una eleganza ineguagliabile e, seppure scritto in altro contesto e certo per altri fini (contro le tragiche parate naziste, fasciste e comuniste, e per una nuova epoca di pace dopo la tragedia della seconda guerra mondiale), si presta benissimo ad una estensione ideale al contesto dell’epoca che viviamo, non solo italiano ma in Italia particolarmente caratterizzato in quel senso. Elegante, perché per dire che uno è stupido se rinuncia a pensare con la propria testa gli basta citare il meccanismo della risposta automatica agli stimoli; estensibile all’oggi, perché è senza tempo l’appiattimento volontario delle differenze, la rinuncia all’indipendenza di pensiero e, nell’epoca della società di massa, la voglia di schiacciarsi sulle tendenze di massa.
Il delizioso pamphlet di Carlo Maria Cipolla Le leggi fondamentali della stupidità umana (in Allegro ma non troppo, Il Mulino, 1988) ci ricorda che nel mondo gli stupidi sono presenti in abbondanza ed hanno una caratteristica inconfondibile che è espressa con la Terza Legge Fondamentale, detta anche aurea: “Una persona stupida è una persona che causa un danno ad un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé od addirittura subendo una perdita”. Ma è la Quinta Legge Fondamentale che ne indica l’assoluta pericolosità: “La persona stupida è il tipo di persona più pericoloso che esista”. E che cosa c’è di più pericoloso degli individui che rinunciano al proprio cervello per sentirsi parte di una totalità e seguire l’onda senza chiedersi dove può portare?
Ho citato più di una volta nei miei interventi anche Il capo e la folla di Emilio Gentile. Il Novecento ci ha regalato, insieme a tante cose positive, il dramma delle dittature, delle adunate di massa, la riduzione dei popoli a gregge, la demagogia dei capi e la rinuncia più o meno imposta agli individui ad essere se stessi. Il fascismo ha educato il popolo all’obbedienza e alla passività; il comunismo ha fatto la stessa cosa; in altro modo lo ha fatto anche la Chiesa con la partecipazione attiva di chi sul piano politico ne interpretava la volontà; chi ha usato il proprio cervello è stato quasi sempre bistrattato, messo da parte, perseguitato.
Poi è venuta l’epoca della pubblicità, in cui tutto è spot, dal reggiseno al panino al partito e al movimento. O vai in tv o non sei nessuno, o sei sul web e fai parte della massa dei follower o ti sembra di essere fuori. Via le idee, sciò! Guai a te se ti fermi a pensare e guai se provi a invitare altri a riflettere. Mi aspetto che tra poco qualcuno si ricorderà di Meleto e inviterà il Governo (non importa quale) a processare per corruzione dei giovani chi diffonde il pensiero critico, come fece appunto quello squallido personaggio con Socrate nell’Atene dell’inizio del IV° secolo. E di sicuro troverà anche gli Anito e i Licone di oggi pronti a sostenerne le ragioni per quanto bugiarde. Nel contempo gli stessi si faranno paladini della libertà e della creatività individuale, ci mancherebbe!
Tu dici, caro Pier, che aver ridotto la politica a spot, a pura apparenza, al regno del niente, fidando nella disponibilità di massa a seguire acriticamente queste ombre che si consumano da sole, avrà almeno il vantaggio di portarci al fondo del fondo, per cui da lì o si risale o ci si scava la fossa? Ho l’impressione che questo è il percorso, ma sono convinto che ci si deve fermare prima, in qualche modo, perché il fondo del fondo non è mai raggiungibile in quanto semplicemente non c’è.