Il collasso dei partiti fa tornare la speranza di una democrazia senza partiti
di Pier Luigi Leoni
La filosofa Simone Weil, che alcuni considerano la più grande mistica del Novecento, scrisse nel 1943, poco prima di morire, un saggio, pubblicato postumo, conosciuto come “Manifesto per la soppressione dei partiti politici”.
La tesi della Weil è che i partiti hanno tradito la loro originaria funzione di organizzazioni di cittadini animati da un comune sentire e si sono trasformati in meccanismi per raccogliere e mantenere consensi stimolando le passioni popolari più deleterie, che sono indispensabili alla loro autoconservazione. Il saggio si conclude così: «L’istituzione dei partiti sembra proprio costituire un male senza mezze misure. Sono nocivi nel principio, e dal punto di vista pratico lo sono i loro effetti. La soppressione dei partiti costituirebbe un bene quasi allo stato puro. È perfettamente legittima nel principio e non pare poter produrre, a livello pratico, che effetti positivi.» La Weil ispirò Adriano Olivetti che, nel 1949 scrisse dei saggi raccolti, nel 2013 nel volume “Democrazia senza partiti”, con prefazione di Stefano Rodotà, nella quale si legge: «Questo scritto è una difesa appassionata di una dignità che la politica non può abbandonare, e che trova il suo alimento in grandi idealità, in passioni profonde, in opportunità concrete perché la persona riesca a esprimersi pienamente come cittadino». Un’affermazione di Olivetti è particolarmente incisiva e di una sorprendente attualità: «Non chiedete nulla, ma unicamente che la libertà che lo Stato e i partiti vi riconoscono a parole – quella di scegliervi i vostri rappresentanti – non sia una mistificazione. Il mandato politico, nella sua vera essenza, è soltanto un atto di fiducia degli uomini in un uomo».
Viviamo in un momento in cui si sta spappolando l’ultimo partito ancora saldamente organizzato. Quasi la metà degli elettori non vanno a votare e, dell’altra metà, molti votano controvoglia e poi si pentono. Chi scrive è uno di quelli che non si ritengono rappresentati da nessun partito e che vanno ancora a votare per abitudine, forse per un vizio simile a quello del gioco d’azzardo. Credo che siamo molto vicini a una crisi mortale dei partiti, mentre la democrazia è viva e vegeta, perché sono pochi gli sciagurati che sperano in un despota o nella cosiddetta dittatura del proletariato. Non sarà il caso di ripensare la democrazia meditando sulle idee di Simone Weil e di Adriano Olivetti?
L’opinione di Barbabella
Simone Adolphine Weil e Adriano Olivetti appartengono a quella schiera di persone, alcune note altre meno, che sono state capaci di esercitare il pensiero critico sulla realtà del proprio tempo, descrivendo fenomeni già in atto che poi sarebbero diventati preponderanti. Gli anticipatori sono persone scomode e non a caso si tende a dimenticarle. Noi no, noi non dimentichiamo: lo dimostri tu oggi, caro Pier, con questa riflessione sulla crisi dei partiti, lo abbiamo dimostrato noi insieme ad altri amici con la costituzione già due anni fa di CoM, Comunità in Movimento, appunto ispirata al pensiero e all’azione di Adriano Olivetti.
La Weil era una comunista eterodossa, vicina all’anarchismo, oggi diremmo riformista rivoluzionaria. Olivetti, fondatore del “Movimento Comunità”, era un innovatore intenzionato a dimostrare che idee diverse (socialiste, liberali e cattoliche) possono conciliarsi sia in un riformismo economico (il profitto al servizio della comunità) che in una concezione federalista dello stato (e dell’Europa) fondata sulla centralità delle comunità locali autonome. Entrambi erano liberi pensatori, capaci di esercitare il pensiero al servizio della comunità, piccola o grande che sia. Entrambi erano sperimentatori di innovazioni. Per Weil i partiti avevano ormai, già allora, tradito la loro funzione originaria di organizzatori di un consenso oggi diremmo informato e partecipato, essendo diventati organizzazioni verticistiche, burocratiche e autoritarie. Dunque meglio abolirli, tutti. Olivetti ne vedeva parimenti i limiti e le storture, metteva al centro le comunità locali con le loro complesse dinamiche che però consentono di dare spazio alle grandi energie che i partiti burocratizzati non riescono ad attivare, rendendo asfittica la democrazia. In sostanza, per entrambi, se non c’è libero pensiero e se non prevale l’interesse collettivo su quello di ceti ristretti o di individui, la democrazia è morta.
Per molti versi la situazione di oggi va in questa direzione ed è preoccupante. Nel mondo, i partiti al potere o sono a guida personale forte (Trump, Putin, Merkel) o sono inventati di sana pianta da individui abili e dotati di visione, e quindi anch’essi a guida personale (Macron). In Italia i tre maggiori partiti sono anch’essi a guida personale. Ma questo non sarebbe di per sé un indizio di pericolo per la democrazia se non fosse che nessuno di essi sta dimostrando di essere migliore l’uno rispetto agli altri e, nonostante tutti i proclami continui di rinnovamenti fantasmagorici, migliore anche rispetto ad un passato da cui pure derivano i guai di oggi.
Possiamo dunque ritenere attuali le analisi e le sfide innovative lanciate tra gli anni trenta e gli anni cinquanta del secolo scorso da Simone A. Weil e Adriano Olivetti? Io penso di si, sia per l’ispirazione ideale e la forza morale non periture delle loro analisi che per la centralità di idee come il riformismo liberale, il federalismo nazionale ed europeo, l’esaltazione insieme di responsabilità individuale e pratica comunitaria. Oggi non sono più necessari i partiti ideologici semplicemente perché nel mondo globalizzato non sono le ideologie che possono interpretare i bisogni e le soluzioni di problemi molto articolati e cangianti delle società. Ci vuole un pensiero non schematico, dunque permeabile alle novità e disposto a soluzioni non consuete. Ci vuole solidità culturale e insieme sia creatività che disponibilità al confronto. Tutto tranne che difesa ad oltranza di interessi ristretti, logica del capo che comanda e di masse che seguono. Ci vogliono strutture snelle a livello locale e coordinamenti generali a livelli più alti. Ci vogliono strutture unificanti che non siano improntate a burocrazia verticistica ma a logica di rete.
Non so se nella realtà effettuale si andrà in tale direzione. Ma questa è la mia convinzione. La democrazia oggi in crisi si salva e si rilancia con la democrazia e non inseguendo autoritarismi e populismi. E si salva e si rilancia se a tutti i livelli si organizzano le forze culturali e sociali intorno a idee mobilitanti che danno fiducia e speranza nel futuro. Personalmente penso anche per questo che, come in tutti i periodi di messa in discussione dell’esistente, anche ora sia necessario agire anzitutto a livello delle comunità locali perché è nella forza dei territori che sta la linfa vitale della ricostruzione del tessuto connettivo del Paese. Di qui la più che decennale battaglia per fare dell’Umbria la regione che rende praticabile l’idea dei territori-cerniera interregionali e l’idea del potere costruito sul modello di rete. Magari sarà solo un altro modo di sognare l’avvenire, ma almeno avremo messo sul piatto qualcosa che non era un interesse personale e che altri, se vorranno, potranno a modo loro ancora coltivare.
Dopo Ratisbona, la tentazione del cinismo anche di fronte ai nostri mali. Ma la coscienza che rimane ti morde e non ti lascia
di Franco Raimondo Barbabella
Dopo quanto rivelato nei giorni scorsi dall’avvocato Ulrich Weber su ciò che è successo tra il 1945 e il 1992 nel Coro di Ratisbona (violenze fisiche e psicologiche ad almeno 547 bambini, a 67 anche abusi sessuali; 49 colpevoli già identificati; Georg Ratzinger, direttore del Coro per trent’anni, e Ludwig Müller, vescovo di Ratisbona nel 2010, accusati di comportamenti gravemente omissivi), dicevo dunque, dopo queste rivelazioni, il cinismo di Ratisbona (al di là della natura criminale degli atti compiuti) è difficilmente eguagliabile.
Non è impossibile immaginare che si sia pensato che in fondo le punizioni corporali e l’assoggettamento sessuale stesso erano un giusto prezzo da pagare per ottenere disciplina e prestazioni canore al limite della perfezione. Ma si, perché altrimenti un orecchio raffinatissimo, esercitato per una vita ad ascolti del massimo livello qualitativo, ne avrebbe sofferto, e lo spirito non avrebbe potuto staccarsi dalla materialità del suono fino a confondersi con la purezza dei cori angelici. Ripeto, cinismo ineguagliabile.
Allora il cinismo che per caso ci dovesse sorgere spontaneo di fronte alla sequela dei nostri mali che ci si ripropone giornalmente senza tregua dobbiamo accettarlo come normale? In fondo perché no, data la prepotente sensazione di qualcosa di irreversibile e di irrisolvibile: i nostri mali sono così tanti e così durevoli! Grossa tentazione. Eccone alcuni, la schiuma di questi giorni. E vediamo di esercitare il nostro latente cinismo. Ci piacerà?
C’è il prof. per 5 anni fantasma nella scuola di Lodi e avvocato in Calabria. Prof. di diritto, dite che doveva insegnare legalità? Ma via, che esagerazione! C’è l’imprenditore (di Amatrice?) che in occasione dell’ultimo terremoto ridacchia assaporando l’affare come l’altro otto anni fa in pieno terremoto dell’Aquila. Perché, che c’è di male, non dite sempre che bisogna creare lavoro? C’è la figlia di Paolo Borsellino che si lamenta perché giudici finti amici del babbo hanno depistato le indagini facendo fallire processi e impedendo che dopo 25 anni si sappia chi ha fatto quell’attentato assassino che più assassino non si può. Ma via, anche qui, possibile che a questa brava ragazza nessuno abbia insegnato che “dagli amici mi guardi Dio, che dai nemici mi guardo io”? E poi che pretesa è mai questa, di avere una giustizia che non depista e scopre e mette in galera i colpevoli? Davvero basta con le esagerazioni!
C’è la sentenza del Tribunale di Roma contro Buzzi-Carminati-&Soci che ci dice che nella Capitale non c’è mafia ma solo corruzione. Embè, che vuoi che sia, quando mai lì non c’è stata corruzione! Allora brindiamo, l’immagine d’Italia è salva, si può continuare. C’è anche il trentunenne guineiano, che girava con il coltello e all’occorrenza lo usava contro gli agenti che tentavano di controllarlo. Ma poverino, lo faceva per divincolarsi dalla loro aggressione, lo capite o no? Ora, dopo due precedenti espulsioni regolarmente non eseguite, pare sia stato espulso. Tornerà con lo stesso aereo? E da ultimo (ma è solo per dargli un taglio) ci sono gli incendi, pare appiccati apposta da cittadini bollati come piromani. E no, qui rasentiamo l’offesa. Ma come, si vorrebbero trasformare in delinquenti bravi padri di famiglia che si industriano a dar fuoco per poi essere assunti per spegnere? È proprio vero, manca ormai ogni rispetto per chi si dà da fare.
Basta dunque, meglio occuparsi delle foto di Belen? Saranno davvero tutte photoshoppate? E però, se scoprissimo poi che lo sono, potremmo sopravvivere? Nel dubbio, meglio il cinismo dei tanti che ad ogni notizia del tipo già detto di solito ripetono “sono cose che capitano”. Ma che triste alternativa! Ecco perché alla fine, nonostante tutto ti ronza sempre in testa quella voce femminile delle sette e mezza su Radio24 che tutte le mattine ripete: “Ma che razza di discorso è questo! Queste cose capitano perché, quando capitano, c’è un sacco di gente che dice sono cose che capitano”. Come darle torto?
L’opinione di Leoni
Sono cose che càpitano, ma non dovrebbero capitare. Tra l’essere e il dover essere c’è spesso un abisso che fa paura. E, per non impazzire di paura, distogliamo lo sguardo dall’abisso. Ci scandalizza che ciò accada in una nazione cosiddetta civile come l’Italia; ma purtroppo l’insensibilità di fronte agli orrori è propria di tutti i tempi e di tutte le culture. E allora?
Allora non resta che sperare in tempi nuovi e lavorare per essi, ciascuno nel suo piccolo, nell’ambiente familiare e di lavoro, in tutti i gruppi di cui fa parte; ma anche, e soprattutto, non rinunciando alla politica, che è la più indispensabile fra le attività dell’essere umano. Disse Jules Renard: «Non mi occupo di politica, è come dire non mi occupo della vita». E della politica ci si può occupare in vari modi, anche con la critica e persino con l’insurrezione e la rivoluzione.
Ma dire, come si usa dire, che la politica è un cosa sporca, è una bestemmia contro la natura e contro la storia, perché la politica può essere la più nobile delle arti e ad essa dobbiamo non solo la conservazione della società, ma anche il suo progresso. La libertà di parlare degli errori e degli orrori che ci angosciano e la speranza di porvi rimedio sono conquiste della politica. È una conquista della politica perfino la libertà di parlarne male.