Il populismo, debole in Europa, fa emergere dalle nebbie italiane il volto bruttino e inquietante della repubblica giudiziaria. Attrezziamoci!
di Franco Raimondo Barbabella
Si dice: “Le bugie hanno le gambe corte”. Non è mica vero, non sempre: le bugie possono anche avere le gambe lunghe, molto lunghe. Dipende. Da che dipende? Da tante cose: da chi le dice, dalle circostanze, da chi le ascolta, dal mezzo, perfino dal periodo storico e dal clima culturale che lo caratterizza. Se poi sono fake news è fatta: i social ne vanno pazzi. Per esempio, il populismo vive su un clima di fake news, insomma “un paradiso di bugie, quelle tue e quelle mie”, ecc. ecc.
Dunque non sempre le bugie durano poco, possono essere di supporto ad un clima che crea un orientamento che caratterizza un’epoca. E tuttavia anche le fake news alla fine devono fare i conti con la realtà, della quale si può anche non parlare facendo finta di non ascoltare e di non vedere, come le tre scimmiette, ma con l’effetto che quando essa si impone con un’evidenza schiacciante si deve per forza gettare la spugna.
Sta accadendo con l’ondata populista in Europa, dove si sciolgono come neve al sole argomenti populisti che ci hanno ammorbato per qualche stagione. La Francia rende obbligatorie ben undici vaccinazioni e così cade l’argomento che chiedeva “Perché solo in Italia?”. Sempre in Francia il Front National di Marine Le Pen rinuncia a chiedere l’uscita della Francia dall’Europa e dall’euro e così cade un altro degli argomenti che davano forza verbale agli euroscettici nostrani. In Gran Bretagna tutte le rilevazioni demoscopiche dicono che se si votasse oggi la Brexit non ci sarebbe e l’Ukip, il partito che ha vinto la partita della Brexit, è addirittura sparito dal panorama politico. Gente che dalle nostre parti ha propagandato quelle cose quasi con il gusto sadico di convincere i babbei, guardandosi si dovrebbe vergognare. Ma dde che?
E dunque che cosa accade in Italia? Beh, in Italia siamo appunto più originali, ci mancherebbe! Ci arrendiamo all’evidenza? Giammai!!! Da noi, come dice il Ministro Calenda, si rischia di andare alle elezioni con in gara tre populismi, ognuno dei quali insegue gli altri due sul loro terreno nell’illusione di guadagnare consensi a loro danno ma con l’effetto sicuro di ingannare gli elettori e generare ulteriore disaffezione, e con il connesso effetto probabile di spingere verso una crescita dell’astensionismo.
Tuttavia, pur con queste caratteristiche che confermano la vocazione pigmiota di quella che impropriamente chiamiamo “classe dirigente”, qualche squarcio nel clima magmatico dominante la realtà lo sta producendo. Ad esempio mercoledi scorso sono arrivate due dichiarazioni significative riprese da Claudio Cerasa sul Foglio di giovedi. Ecco la prima. Il magistrato Nino Di Matteo (quello della disastrosa inchiesta stato-mafia, idolo dei pentastellati) ha detto in un’intervista a La Stampa di “non essere pregiudizialmente contrario all’impegno di un magistrato in politica, soprattutto se questo significasse la naturale prosecuzione del lavoro svolto con la toga addosso”. Evviva l’indipendenza della magistratura, la famosa terzietà! Ed ecco la seconda. Il Fatto Quotidiano, che molti descrivono come il giornale che dà voce alle procure ed è vicino all’M5s, ci ha informati del fatto che il programma pentastellato sulla giustizia “in larga parte coincide con le proposte dell’ex PM di Mani Pulite Piercamillo Davigo”. Ma dai, davvero?
Due dichiarazioni che una volta collegate diventano due squarci nella finta nebbia populista, la realtà che piomba sulle bugie di un’operazione politica che parte da lontano e che ormai si definisce nella sua più chiara portata. È il progetto di repubblica giudiziaria, che inizia all’epoca di Tangentopoli e prosegue fino ad oggi assumendo connotati e protagonisti via via diversi, da Di Pietro a Davigo, ma tutti con caratteristiche sostanzialmente simili. La costante è rappresentata dalla debolezza e insieme dalla presunzione della politica, di una certa politica, alimentate da un furbismo dalle gambe corte (questo si!) che ha seminato danni per generazioni in tutto il Paese. Io penso che dovremmo preoccuparci e non stare con le mani in mano.
La politica italiana è allo sbando. Credo che dipenda dal tramonto delle ideologie e dalla conseguente crisi dei partiti. Era comodo avere a disposizione chi ci prometteva le magnifiche sorti e progressive della liberal-democrazia o la prospettiva del socialismo che ci avrebbe resi felici dalla culla alla fossa, o la nostalgia del ventennio, quando i treni viaggiavano in orario, anche se ci armavamo, soprattutto di chiacchere, per andare a sbattere il muso prima in Africa, poi in Russia e infine in Italia. Andavamo a votare in massa, ognuno con la propria speranza. Di tutto questo non restano che ceneri, tranne qualche carboncello cocciutamente acceso. Tutto si evolve. E l’aveva capito il genio di Adriano Olivetti quando spiegò, organizzando formidabili esempi, che alla società industriale non si attagliava né il cinismo capitalista né lo statalismo socialista, ma l’umanesimo comunitario e quindi il superamento dei partiti. Era troppo in anticipo sui tempi e morì troppo giovane. Ma i nodi sono venuti al pettine. La scena politica è ingombra di chiacchieroni senza ideologia e senza idee. “Quante stupide galline che si azzuffano per niente”, direbbe Franco Battiato. Anche se credono di azzuffarsi per posti di potere che non avranno o dei quali si dovranno pentire. In questo dilagare del populismo (ma mi sembra più corretto chiamarlo demagogia) sta in agguato un potere autoreferenziale come quello giudiziario, che non essendo impiantato né sulla sovranità popolare, né sulla democrazia, è saldo e incensurabile. All’inquietante magistrato Pier Camillo Davigo, cui venivano fatti presenti gli errori, le pigrizie e gli abusi della magistratura, ho sentito pronunciare, senza essere contraddetto, una frase terribile: «Male non fare, paura non avere». Come se alla magistratura, invece che la valutazione della rispondenza di un comportamento alla legge, fosse affidato l’albero della conoscenza del bene e del male. Speriamo bene; ma prepariamoci al peggio.
Non tutto il male viene per nuocere
di Pier luigi Leoni
Agli stranieri piace l’Italia, ma molto meno gli Italiani. E qualche ragione ce l’hanno. Le parole scritte da Winston Churchill sulla guerra d’Etiopia sono poco note in Italia, ma ben scolpite nelle menti degli stranieri: “Gettare un esercito di un quarto di milione di uomini, comprendente il fior fiore della popolazione maschile italiana, su uno sterile lido distante duemila miglia dalla patria, contro l’opinione del mondo intero e senza controllo dei mari e quindi, in questa situazione, imbarcarsi in quella che può essere una serie di campagne contro un popolo ed in regioni che nessun conquistatore in quattromila anni ha ritenuto che valesse la pena di sottomettere, è un rendersi ostaggio del destino che non ha un parallelo in tutta la storia”. E l’accanimento con cui l’Unione Europea ci rinfaccia l’enorme debito pubblico non è frutto di malvagità, ma del risentimento perché, all’epoca della lira, con l’inflazione e con l’emissione esagerata di buoni del tesoro, fu compensata l’enorme evasione fiscale e consentito alle imprese italiane di conquistare grosse fette di mercato estero sottraendole soprattutto ai Francesi, agli Inglesi e ai Tedeschi. Infatti ancora oggi possiamo vantare di essere primi, secondi o terzi esportatori di ben 844 prodotti. Tra questi siamo primi in ben 200 prodotti, i cui primi dieci sono: borsette in pelle; macchine e apparecchi per imballare o impacchettare le merci; calzature con suola e tomaia di cuoio naturale; occhiali da sole; paste alimentari secche; barche e panfili da diporto o da sport con motori entrobordo; cuoi a pieno fiore, anche spaccati, preparati dopo la concia; farmaci in dosi; parti di macchine per imballaggio; parti di pompe per aria o per vuoto. Abbiamo persino quasi raggiunto la Francia nella vendita di vini in bottiglia. Non meravigliamoci quindi se la Francia, con l’aiuto di Obama, ci ha trascinati nella guerra contro Gheddafi per piazzarsi in Cirenaica e lasciarci la Tripolitania, con tanto di criminali che trafficano in carne umana e proteggono le nostre estrazioni petrolifere. Per fortuna il ministro Minniti ha ripreso la politica di Berlusconi, famoso per il bacio della mano a Gheddafi, e fa avanti e indietro da Tripoli per lisciare Fāyez Muṣṭafā al-Sarrāj, quella specie di primo ministro che ancora riesce a salvarsi la pelle.
Pier Luigi mi consentirà di dubitare che il darsi da fare del ministro Minniti, che pure non manca di idee e di determinazione, in quella terra dai connotati banditeschi chiamata Libia, sia in grado di riscattare agli occhi degli stranieri che si intendono di storia (io penso non più di quelli che esistono dalle nostre parti) lo sciagurato avventurismo delle nostre guerre d’Africa, soprattutto in Africa Orientale.
E di dubitare anche che l’insistenza di oggi dell’UE sulla necessità di mettere sotto controllo i nostri conti pubblici, che sono in perenne pericolo per la propensione ad essere spendaccioni al di là delle nostre possibilità, sia frutto di pregiudizio piuttosto che di un sano e necessario richiamo alle nostre responsabilità. Richiamo giusto e sano se, avendo sottoscritto i trattati che ci vincolano, vogliamo stare da protagonisti in un contesto in cui i partner hanno dimostrato di avere l’occhio più lungo dei nostri furbastri governanti sempre alla ricerca di ricette che invocano in primo luogo la flessibilità, cioè semplicemente l’autorizzazione a spendere ancora a debito, senza pensare al futuro.
Io penso che abbiano ragione coloro che, guardando con occhio competente l’Italia di oggi, si rendono conto che questo nostro Paese si è comportato troppo spesso come Paese scarsamente affidabile a causa di una classe dirigente che è stata ben descritta da Denis Mack Smith nelle sua “Storia d’Italia” pubblicata da Laterza nel 1959 sotto gli auspici di Benedetto Croce, una classe dirigente marcata fin dall’inizio da quel viziaccio, il trasformismo, che Gaetano Salvemini a suo tempo aveva precisamente definito come un “brutto nome di più brutta cosa”.
E perché gente pensante oggi dovrebbe mutar opinione? La realtà del Paese è davvero disarmante, ed è la realtà di oggi. Si, è frutto di una lunga storia, ma è la realtà di oggi che parla. L’ha descritta venerdi scorso sul Corriere della sera Ernesto Galli della Loggia con esempi calzanti e parole durissime ma non certo sproporzionate a fronte dei fenomeni a tutti visibili. “L’Italia è di chi se la vuol prendere, da noi chiunque può fare quello che vuole. E quasi sempre lo fa. …”. E allora come non chiedersi anche, e Galli se lo chiede, se per caso la difficoltà dell’Italia “di farsi prendere sul serio dai suoi partner europei, forse dipenda per l’appunto dalla sua immagine di un Paese che, si sa, è abituato al disordine, al tirare a campare, alla prassi di un comando della legge sempre elastico e contrattabile. Con un Paese così dove si potrà mai andare?