Com’è difficile restare calmi e indifferenti
di Pier Luigi Leoni
La filosofia occidentale, con poche contestazioni fino a qualche secolo fa, ha preso atto che gli esseri umani aspirano alla felicità (o, secondo il linguaggio cristiano, alla beatitudine). E la felicità-beatitudine non è conseguibile senza una vita virtuosa e senza il superamento della paura della morte. Una paura che può essere superata solo con la piena fiducia in Dio. Ciò che ostacola la vita virtuosa e la fiducia in Dio sono il vizio e l’ignoranza. Mentre la virtù è l’abitudine al bene, il vizio è l’abitudine al male. E l’ignoranza della felicità che deriva dall’esercizio della virtù, così come l’ignoranza delle sofferenze che provoca il vizio, condizionano, anche se in modo non assoluto, le nostre libere scelte. Per questo il discernimento del bene dal male non è solo un compito della coscienza individuale, ma un dovere dei genitori, degli insegnanti, degli amici, di tutti coloro che hanno una relazione con la persona. Questa impostazione è ormai poco diffusa nel mondo, e soprattutto in Occidente, dove imperano il materialismo e il relativismo e dove, di fronte a un tenore di vita molto elevato rispetto al passato, aumentano le nevrosi, le tossicodipendenze e i suicidi. Dove molta gente si distrae con le feste, la musica, i viaggi e lo sport, persino con la politica, ma non riesce a distrarsi dal pensiero incombente della morte. «Uh! com’è difficile restare calmi e indifferenti mentre tutti intorno fanno rumore» canta con poetica efficacia Franco Battiato. È difficile, ma credo sia bene provarci.
Il primo a sostenere che non c’è felicità se non si fa il bene e però non si fa il bene se non lo si conosce (conoscenza = virtù = felicità) è stato Socrate, il filosofo del dialogo. Il sapere per Socrate è una costruzione dialogica: in essa entrano in gioco almeno un io e un tu, in realtà una moltitudine di io e di tu. Entrano in gioco gli individui con i loro bagaglio di sentimenti e convinzioni e con i loro rapporti sociali. Dunque, secondo questa impostazione, anche la virtù non è un esercizio del bene in solitudine né la felicità è raggiungibile facendo deliberatamente parte per se stessi. Il solipsismo è nemico di virtù e felicità.
E la paura nelle sue multiformi espressioni, a partire da quella della morte che le riassume tutte, può essere anch’essa sensatamente ricondotta a questa dimensione dell’esercizio di razionalità? Stando alla filosofia classica si, basti pensare ad Epicuro. È noto il suo pensiero su questo punto cruciale: gli uomini sono infelici perché si lasciano vincere dalle paure, due su tutte, la paura degli dei e la paura della morte.
Ma gli dei vivono negli intermundia (una specie di limbo tra mondi fatti di atomi che si costituiscono per il meccanico movimento degli atomi senza bisogno di forze esterne tipo la volontà di un dio) e sono del tutto indifferenti alle vicende degli uomini; la morte poi non può mettere paura per la sua stessa natura: infatti, quando ci siamo noi non ci può essere lei, mentre quando c’è lei non ci siamo più noi. Banale? Mica poi tanto! Ecco dunque l’assurdità delle due paure fondamentali. La virtù è sapiente calcolo di ciò che è bene fare e non fare e la felicità è possibile se sull’irrazionalità della paura prevale l’opera della ragione.
Ma si dirà: Epicuro era un materialista. Ebbene si, la sua concezione del mondo era l’atomismo di Democrito. Domando: ma perché l’unico modo per superare la paura della morte dovrebbe essere la fiducia in Dio secondo la concezione cristiana? E se accettassimo per buone le acquisizioni, appunto il sapere frutto della ricerca razionale, della fisica contemporanea che descrive il mondo non come un ordine di origine divina né un insieme di cose ma come un continuo accadere, un flusso di eventi, qualcosa che somiglia più al caos di Napoli che all’ordine di Singapore (Carlo Rovelli), saremmo così lontani dalle indicazioni del materialista Epicuro?
In realtà il rapporto dell’uomo moderno con la morte non è riducibile a nessuna delle strategie sperimentate, è plurale come è plurale tutto ciò che connota la società per come si è venuta strutturando e orientando. Piuttosto parlerei di fuga dalla responsabilità come tratto caratteristico della mentalità contemporanea (che si struttura progressivamente nel Novecento), in cui includerei anche la fuga dall’idea della morte. Cosa che considero nient’affatto del tutto negativa, giacché è proprio questa fuga che consente quella fiducia operativa che permette di tradurre i pensieri in opere e di tenersi lontani da quel pericoloso solipsismo di cui ho parlato all’inizio. Ma non la voglio fare lunga. La morte prima o poi arriverà e non possiamo farci niente. La cosa importante per me è che nel frattempo abbiamo fatto tutto ciò che possiamo perché la nostra coscienza ci faccia abbandonare la vita con un sorriso. E solo così, se non saremo stati indifferenti al mondo, potremo essere anche “calmi e indifferenti mentre tutti intorno fanno rumore”.
Come risolvere i mali d’Italia? Ma ovvio, con il congiuntivo!
di Franco Raimondo Barbabella
Uno dei dialoghi più famosi della iperbolica comicità triste di Paolo Villaggio è quello della partita a tennis tra il rag. Filini e il rag. Fantozzi. Filini: “Batti”. Fantozzi: “Mi dà del tu?”. “No, batti lei”. “Ah, è un congiuntivo”. Ecco, questa uscita sul congiuntivo, il più illustre sconosciuto della nostra magnifica lingua, indica magistralmente uno dei mali diventati col tempo strutturali del nostro Paese. Per certi versi è la sintesi appunto magistrale del lungo percorso che potremmo indicare con l’espressione “abbandono delle arti liberali al loro destino”. In particolare quelle del “trivio”: grammatica, retorica e dialettica; ma in verità alla stregua di quelle del “quadrivio”: aritmetica, geometria, astronomia e musica. Detto altrimenti, sapere umanistico e sapere scientifico.
Le conseguenze sono dinanzi a noi tutti i giorni. Non si tratta solo di quanto commenta Giuliano Ferrara al ricordo di quel dialogo dei due ragionieri: “Tutte le volte che penso al futuro premier Di Maio immagino di rivivere quella scena italiana indimenticabile, all’altezza di Totò”. No, si tratta molto di più, non solo perché di Di Maio acongiuntivati sono pieni il palco e il parterre di ogni dove e di ogni settore, ma perché non c’è più nemmeno il coraggio di porre il problema, come se ci fossimo ormai abituati a considerare la grammatica un inutile orpello, la retorica una cosa specialistica per amanti delle orazioni ciceroniane e la dialettica come roba da privilegiati filosofi perdigiorno. Quando invece è proprio la società moderna che richiede, insieme ad una robusta educazione scientifica, proprio una forte preparazione logica, retorica e dialettica, a garanzia non solo di un esercizio costante di pensiero critico e dunque di libertà e insieme di responsabilità, ma proprio della possibilità di misurarsi con i caratteri portanti e le opportunità del sistema sociale e produttivo contemporaneo.
Mi picco di essere stato da sempre, e di restare a maggior ragione oggi, un sostenitore della centralità del congiuntivo, centralità non solo nell’effettivo esercizio e nell’uso linguistico, ma centralità soprattutto simbolica. Mi piace ricordare che all’epoca in cui “Teleorvieto 39” faceva le sue pionieristiche trasmissioni, segnate da quel romantico e un po’ strampalato localismo pieno di speranza oggi assolutamente impensabile, una sera fui intervistato dal Maestro Sborra su quasi tutto lo scibile. Quando il discorso cadde sull’impoverimento della nostra lingua, che a lui stava particolarmente a cuore, ripresi un’idea di cui avevo parlato con alcuni amici fuori Orvieto e proposi di costituire il “club del congiuntivo e del gerundio”. Mi accorsi dopo che anche ad altri, in diverse parti d’Italia, era venuta la stessa idea. Un club quasi a difesa di un’idea morente. Oggi forse quell’idea è ancora valida, nel suo significato simbolico, proprio come allora. Lasciamo perdere il gerundio, ma il congiuntivo si, perdindirindina!
D’altronde il congiuntivo è il modo nel quale prende forma la complessità e la ricchezza della nostra lingua. Lì c’è la dimensione del desiderio, del dubbio, dell’irrealtà. Lì trova espressione la soggettività individuale. Lì c’è il regno delle possibilità. E che cosa c’è oggi, nelle società irrigidite dai privilegi e dalle paure di massa, di più negletto di una sana soggettività e di più lontano di una reale apertura al mondo della possibilità? Ma ci pensate di che cosa si privano e soprattutto ci privano (questo è il guaio maggiore) gli individui, una marea, che pensano che il congiuntivo sia una variante maschile della famosa malattia degli occhi? Ci pensate quanti danni fanno nelle amministrazioni pubbliche coloro che, oltre a considerare il gerundio il modo di esprimersi dei ternani, credono che il congiuntivo sia un animale notturno da cui guardarsi e usano solo l’indicativo presente perché, come vivessero solo di giorno, così si sentono più sicuri, con i piedi ben poggiati per terra?
Credetemi, i rimedi ci sono per tutte le cose, e dunque anche per questa. Ne dico uno, estremo si, ma efficace: vietare l’elettorato passivo a chi non supera una prova elementare di riconoscimento del congiuntivo in almeno dieci frasi. Semmai il problema può essere trovare un numero sufficiente di esaminatori. Ce ne sarebbe anche un’altra, ma è troppo impopolare e quindi rischiosa: vietare l’ingresso nei teatri e negli stadi (per par condicio) a chi non riconosce una parola d’ordine con il congiuntivo incorporato. Ci sono anche rimedi ordinari, ma visto che non vengono adottati, forse sono ancora più impopolari di quelli che ho appena suggerito.
Diciamolo chiaro, la lotta per il congiuntivo richiederebbe un impegno molto più gravoso che quello profuso a suo tempo per la Bosnia. E voi pensate che i quattro dell’Ave Maria (Renzi, Grillo, Berlusconi, Salvini) avrebbero, ciascuno, il coraggio spregiudicato del D’Alema interventista? E poi, via, siamo seri, chi li potrebbe mai capire: vuoi mettere “ammazzare gente per salvare altra gente che ammazza” con “lottare ad oltranza per il modo della possibilità”? No, meglio arrendersi al presente assoluto come all’arabo. Esagerato? Mica tanto, quasi ci siamo!
I quattro dell’Ave Maria usano il congiuntivo. Quel simpaticone di D’Alema no. Se dovessimo giudicare le persone dall’uso del congiuntivo staremmo freschi. Dovremmo dare tutto il potere a Matteo Renzi, che non solo sa usare il congiuntivo e il gerundio, ma anche l’aggettivo dimostrativo “codesto” (o addirittura “cotesto”) che poche persone colte sanno ancora usare. A parte i toscani. A me coloro che non usano il congiuntivo, nonostante i sacrifici dei genitori per mandarli a scuola, e pretendono di tenere discorsi pubblici mi risultano molesti, ma li sopporto pazientemente perché me lo ha comandato Gesù Cristo. Ma non pensate che non “sia” faticoso essere cristiani.