I danni infiniti del leaderismo personalistico
di Franco Raimondo Barbabella
A me sembra che uno dei paradossi più inquietanti delle società democratiche contemporanee sia rappresentato dal fatto che, mentre ogni individuo in teoria può godere di libertà e tutele mai conosciute prima, nei fatti questa possibilità diventa solo apparente, a causa da una parte dell’adozione di meccanismi di comando sia economici che politici troppo complessi e scarsamente trasparenti, e dall’altra dell’attribuzione delle leve di comando ad individui ai quali sembra doversi delegare ogni responsabilità e potere o che tendenzialmente vogliono essi stessi attribuirsi ogni responsabilità e potere.
Magari non è così, ma certo l’impressione che sia così è molto forte. Lo è, per quanto mi riguarda e – lo ripeto – con riferimento alle libere società occidentali, se pensiamo a Donald Trump, ma anche se pensiamo ad altri importanti leader europei. E in Italia? Dopo Tangentopoli e la crisi dei partiti tradizionali, si è progressivamente arrivati ai partiti e ai movimenti personali, e il sistema si è espanso dal centro alla periferia facendo registrare fenomeni di narcisismo e di arroganza fino a pochissimi decenni fa assolutamente impensabili.
Lo spettacolo sta diventando per certi aspetti insopportabile e per altri addirittura preoccupante, perché più il clima è litigioso e ingannevole e più scompaiono le idee e ancor più si chiede fedeltà al capo. Ciò che unifica appunto non è la ricerca e la testimonianza della verità ma l’inganno, non è l’interesse della comunità ma la carriera dell’unico che decide per tutti. La vicenda della legge elettorale è ampiamente riassuntiva dello stato reale delle cose che ci riguardano.
Ma quando si passasse dal livello nazionale a quello delle regioni e delle realtà locali le cose potrebbero apparire anche peggiori. Partiti e movimenti nazionali a guida personale fanno a gara per avere sparsa nei territori una rete di esecutori che spesso si pongono come leader in sedicesimo che, ad imitazione del capo, fanno e disfano, avendo a riferimento esclusivamente le proprie convenienze. Conseguenza: classi dirigenti scarsamente credibili, negazione della politica, culto dello sguardo corto.
L’ho detto e scritto tante volte: la società moderna è società di individui che cercano continuamente il meglio o lottano per ottenere la posizione più vantaggiosa per sé e per il proprio entourage, integrando o escludendo l’uno o l’altro di tali elementi. Poi magari si arrendono o si ribellano. Se la politica riesce a rendere compatibile l’interesse generale con questa condizione, allora è utile ed è percepita come tale; in caso contrario, avviene appunto il contrario. Ma c’è ancora bisogno di prove per capire che nessuno è indispensabile e tanto meno eterno? Questa è l’epoca del ritorno alla credibilità e allo sguardo lungo. O la decadenza non si fermerà. Facile a dirsi, difficilissimo a farsi.
L’opinione di Leoni
Ormai è diffusa la convinzione che alla compresenza sul pianeta di governi democratici e di governi dispotici ci si debba abituare. Vi sono grandi popoli refrattari alla democrazia con cui le democrazie accidentali intrallazzano per i loro commerci o con cui si alleano per schiacciare altre dittature. Inoltre le grandi democrazie, con il loro sistema di produzione capitalistico temperato da forme di sicurezza sociale, non riescono a controllare le scorrerie delle grandi centrali della finanza internazionale, quei luoghi dove si specula sui prodotti del lavoro umano presenti e futuri determinando i prezzi e spostando le merci non per il maggior bene di tutti, ma per lo smodato arricchimento di pochi. Mi sembra inevitabile che una democrazia così ridotta venga a noia ai pochi popoli che ad essa, da pochi secoli o da pochi decenni, si sono abituati.
Il fenomeno Trump ha tutta l’evidenza di una reazione di metà del popolo americano alla classe politica serva della grande finanza. Ma la reazione avrà poca durata, perché hanno scelto un pasticcione senza finezza intellettuale, un dilettante allo sbaraglio, molto bravo solo nel farsi del male da solo. La vicenda della Brexit ha tutta l’aria di una reazione di metà del popolo del Regno Unito allo strapotere dei nani della finanza annidatisi negli organismi europei. Il fenomeno Macron ha tutta l’aria di un tentativo del popolo francese di scardinare dal di dentro le barocche istituzioni europee. Intanto l’Italia sta pasticciando, in parte illusa dagli algoritmi della Casaleggio Associati, e comunque tutta angosciata dagli sbarchi inarrestabili di gente dalla pelle nera che poi bivacca, a spese di un popolo in crisi, perfino in piccoli e allarmatissimi paeselli. Poveri neri! Sfavoriti dal colore della pelle, come non lo furono le decine di migliaia di albanesi che già sbarcavano conoscendo la nostra lingua. Poveri neri! Portati più all’umiliazione dell’accattonaggio che all’infamia della malavita.
Poveri neri! Sfruttati come schiavi da agricoltori italiani per abbassare il prezzo dei pomodori e fare concorrenza alla produzione estera basata su altre forme di schiavismo. Le democrazie europee non s’erano accorte che centinaia di milioni di africani morivano di fame? Che non poteva durare a lungo il foraggiamento di un aguzzino arabo come Gheddafi per chiudere l’accesso dei senegalesi e dei nigeriani al Mediterraneo? Allora le democrazie europee si decidano a guardare la carta geografica e a rendersi conto che il loro problema è l’Africa. Se non si decidono ad andarla ad aiutare sul posto, si rassegnino a soccombere all’invasione. Se crediamo che la democrazia sia un valore, abbiamo un’ottima occasione per dimostrarlo.
Il mistero degli autovelox
di Pier Luigi Leoni
Tutti i giorni, o quasi, mi capita di percorrere in macchina la strada che dal Paglia sale alla Colonnetta di Prodo. Soprattutto nei sabati e nelle domeniche, in quella strada, che ospita annualmente la Cronoscalata della Castellana, s’incrociano frotte di motociclette che salgono e scendono a velocità eccessive. E tutti i giorni, o quasi, leggo che ogni anno in Italia muoiono, sulle strade normali, alcune centinaia di motociclisti. E pare che il tragico dato sia in crescita. Il problema sembra dovuto a una serie cause: la oggettiva pericolosità di un mezzo a due ruote dotato di un potente motore; la inadeguatezza per condizioni psicofisiche di molti motociclisti; la compresenza sulle strade di auto e motocarri condotti da persone anziane lente di riflessi; la carenza di piste riservate al motociclismo; la grave carenza di autovelox. La mia esperienza m’induce a dare particolare importanza agli autovelox. Mi sono sempre meravigliato che ad essi ricorrano soprattutto i Comuni per fare cassa. Tra l’altro sempre più boicottati dallo Stato (che si appropria di una buona fetta degli incassi) nonché dai prefetti e dai giudici di pace. Così assistiamo ad autovelox installati proditoriamente dai Comuni dove transitano soprattutto forestieri e dove sono molto meno utili che in altri luoghi. Non riesco a capire perché Polizia, Carabinieri, Finanzieri e persino agenti forestali, tutti abilitati a fare polizia stradale, non siano largamente dotati di autovelox. Sarebbe una manna per la casse dello Stato e sarebbe un toccasana per la disciplina e la sicurezza degli automobilisti e dei motociclisti. Senza dimenticare i ciclisti, che tornano anch’essi prematuramente al Creatore con troppa frequenza.
L’opinione di Barbabella
Il problema che solleva Pier Luigi è di quelli seri. Poiché mi trovo d’accordo con le sue argomentazioni, poco posso aggiungere. Aggiungo però per esempio che i comportamenti diffusi sulle nostre strade, con protagonisti di tutte le categorie, sembrano improntati ad un’idea che forse è da considerare tra le poche capaci di unire noi italiani: noi siamo i più furbi e onnipotenti, per cui a noi di sicuro non ci capita quello che capita ad altri.
E così se un automobilista vede davanti un gruppo di ciclisti li sorpassa senza avvisare e senza rallentare; se un gruppo di ciclisti fa la passeggiata domenicale sulle nostre strade a due corsie, è facile che questa diventi un’occasione di gara e comunque che la conversazione di gruppo renda insensibili alla necessità di rispettare le minime regole della prudenza e quelle del codice (in fila indiana? Ma quando mai!); se per caso incappi in un raduno di motociclisti, meglio che ti fermi finché la falange macedone non è passata, sempre che ti sia concesso di metterti da parte. Non parliamo di ciò che ormai succede nelle città di certe dimensioni, dove le regole sono completamente out: auto in doppia e tripla fila, moto che transitano tra i pertugi delle file di auto, ciclisti che sembrano esploratori spaesati.
Si, gli autovelox possono essere una soluzione. Su questo punto mi permetto solo di osservare che in altri Paesi (Olanda, Germania, Austria) esiste una politica del trasporto, pubblico e privato. Se si incentiva l’uso della bici, si fanno le piste riservate. Se si vogliono rendere vivibili le città non si permette il parcheggio selvaggio, si programmano e si realizzano i servizi diretti e di supporto, e non ci si limita ai divieti. Non si usano mezzucci per guadagnare sulla dabbenaggine e la vocazione suicida degli utenti. Soprattutto, non si lasciano deperire le strade, già inadeguate, riducendole a groviere di asfalto (quando va bene) o a fossi sbrecciati quando piove. Da ultimo, nessun Paese consapevole non solo di chiamarsi ma di dover essere tale avrebbe abolito a metà le Province, togliendo i soldi per le manutenzioni e però mantenendo le competenze, per cui alla fine nessuno fa nulla e tutto degrada. Che cosa dire come sintesi? Naturalmente viva l’Italia!