Due amici che si vogliono bene, ma che hanno caratteri opposti: Renzi e Gentiloni
di Pier Luigi Leoni
La buffa vicenda della legge elettorale conferma, almeno finora, la mia impressione che si voterà, prima o poi, adattando al senato l’italicum castrato dalla Corte costituzionale. A conferma della invadenza della magistratura nel campo del potere legislativo, indebolito da un parlamento pletorico, complicato e inefficiente.
Comunque vada a finire, mi sconcerta, ma fino a un certo punto, la constatazione che Matteo Renzi, anche in questa vicenda, perda tutte le occasioni per stare zitto. L’uomo è coraggioso, appassionato e volonteroso, ma è precipitoso e incontenibilmente loquace. Si sbarazzò con una certa brutalità del floscio Enrico Letta.
Ma nel conte Paolo Gentiloni Silveri ho l’impressione che abbia trovato un osso più duro. Sarà anche per la prudenza cui è tenuto un infartato, ma Gentiloni si sta conquistando larghe simpatie con uno stile opposto a quello del suo amico Renzi. «Lo stile è la veste del pensiero; e un pensiero ben vestito, come un uomo ben vestito, si presenta migliore», ha detto Lord Chesterfield. Staremo a vedere.
L’opinione di Barbabella
Sappiamo bene, soprattutto in un’epoca come questa in cui tutto è ridotto a immagine, maschere friabili e cangianti (mai stata più attuale l’intuizione di Pirandello), che lo stile ha una sua funzione, senz’altro come elemento di identificazione personale e forse anche talvolta come garanzia di affidabilità nelle relazioni sociali. Dubito però che di per sé sia anche una garanzia per la qualità del pensiero, per lo spessore delle idee e delle azioni che le traducono in pratica nell’attività di governo. Insomma, almeno in politica l’abito non fa il monaco.
Ciò nonostante, non ho nemmeno io difficoltà a riconoscere che il modo di interpretare il ruolo di Presidente del Consiglio dei Ministri di Gentiloni sia più rispondente alle esigenze attuali di governo di quello di Renzi. Si tratta certo di personalità diverse, di stili personali diversi, di modi di pensare diversi, l’uno caratterizzato da spregiudicato arrivismo democristiano provinciale toscano, l’altro espressione della buona borghesia romana ed erede di esperienze laico-moderate d’alto bordo. Insomma niente di esaltante, ma non esattamente due variazioni sul tema, qualcosa di diverso in Gentiloni, qualcosa peraltro di più facile apprezzamento dopo la stagione di una mal riuscita rottamazione.
Ma siamo lontani dal vero coraggio di rappresentare in modo convincente quel cambiamento intelligente e lungimirante, improntato a solida modernizzazione, che può portar fuori l’Italia dalle secche in cui l’hanno portata i progenitori dei due personaggi. Strateghi paragonabili ad altri del passato e ad alcuni interpreti europei della stagione attuale sinceramente non se ne vedono.
Di prove ne possiamo portare quante ne vogliamo. L’ultima in ordine di tempo è proprio la vicenda della legge elettorale: piccoli strateghi delle proprie botteghe sono riusciti solo a fornire l’immagine plastica di ciò che effettivamente sono. Nessuno escluso, ma proprio nessuno, giocolieri insipienti e incoscienti. Non era in gioco la legge elettorale, lo era ben di più, e questo ben di più non è venuto a galla, non è stato elaborato come meritava e non è stato proposto agli italiani come era doveroso fare.
Siamo di fronte – questo è il punto – alla necessità di una scelta di fondo: ricostruire e come e con chi un paese allo sbando. Non vedo però l’idea portante, non vedo il contorno, non vedo il/i soggetto/i che se ne possono far carico. Può darsi che sia io a non avere gli occhiali giusti. Può darsi invece che non ci sia l’oggetto. Staremo a vedere, il futuro immediato e quello più lontano ci diranno. Personalmente, se la realtà lo richiederà, sono pronto a rivedere le mie posizioni, anzi, ognuno dovrebbe disporsi a questa eventualità. Credo ci sia bisogno di rendere disponibili tutte le energie di cui può disporre il nostro popolo ad ogni livello, molte delle quali oggi sono solo frustrate ed emarginate.
Da Tangentopoli in qua. La vicenda dell’architetto Renato Sarno dimostra quali danni possono derivare dal rovesciamento di ruoli tra politica e magistratura
di Franco Raimondo Barbabella
Alla luce di quanto è successo dal 1994 in qua credo che non sia esagerata la definizione che Giuliano Ferrara dà di quel cruciale passaggio di fase come “rivoluzione giustizialista”, alla quale è seguito il degrado della vita pubblica che conosciamo e che non finisce mai di stupirci per le occasioni frequenti che ci offre di misurarne la portata devastante.
A suo tempo ci era sembrato abnorme che Craxi si fosse convinto che era meglio morire in esilio volontario piuttosto che rischiare il carcere e il processo in Italia (gli erano evidentemente ben chiare sia la realtà delle carceri che quella della giustizia), così come ci era apparsa poco credibile l’accusa ad Andreotti di collusione mafiosa. Non ci sembravano cose normali.
Ci sbagliavamo, perché con Tangentopoli e l’indebolimento della politica si era man mano affermato il potere politico-giudiziario della magistratura. La cui conseguenza pratica si chiama giustizialismo, nome brutto di più brutta cosa, per parafrasare Salvemini. Di fatto, non ci si limitava a perseguire i reati più o meno presunti né a colpire, a ragione o a torto, personaggi di spicco, ma si smontava senza troppi complimenti l’assetto stesso della cosiddetta prima repubblica. Molti magistrati da allora hanno promosso inchieste alla prova dei fatti inconsistenti, ma che almeno in partenza hanno fatto clamore (si pensi ad esempio alle numerose iniziative giudiziarie contro Berlusconi) producendo da una parte visibilità mediatica per gli accusatori e disdoro e danni per gli accusati. I più noti in tal senso sono certamente Henry John Woodcock e Antonio Ingroia, ma la schiera degli “imitatori” è fitta, come fitti sono i loro flop.
L’ultimissimo di cui si è avuta notizia in questi giorni, oltre alla conclusione “per non aver commesso il fatto”, dopo nove anni di supplizio, dell’incredibile vicenda giudiziaria del generale Mori, è quello del cosiddetto “Sistema Sesto”. Dopo che già nel dicembre del 2015 era stato assolto Filippo Penati, ex presidente della Provincia di Milano ed ex sindaco di Sesto San Giovanni, oltre che ex braccio destro di Pier Luigi Bersani, con la formula “il fatto non sussiste”, ora è stato prosciolto anche l’architetto Renato Sarno, indagato per cinque anni con l’accusa di “concussione per induzione”. Secondo la Procura di Monza il tecnico avrebbe intascato nel 2009 dal costruttore Edoardo Caltagirone, interessato ad ottenere una variante edilizia dal Comune di Sesto, una tangente di oltre 326mila euro a fronte di prestazioni professionali inesistenti. Accusa ora dichiarata inconsistente dalla Procura milanese. Dunque: Penati assolto, Sarno prosciolto, il “Sistema Sesto” inesistente. Allora non è successo niente? Al contrario, è successo molto. Come per il generale Mori.
Leggere (la si trova su tutti i giornali) la storia di questa vicenda fa male, perché sostanzialmente riassume tante altre storie analoghe di una giustizia ingiusta, fondata su costruzioni preordinate, caratterizzata da incertezza e arbitrio nelle diverse fasi del procedimento, con l’effetto finale di danni alla persona, alla professione e alla famiglia. Una sola certezza: nessuno pagherà per aver agito in un modo così contrario non solo ai principi di una giustizia giusta ma anche a semplici criteri di buonsenso.
Per l’essenziale è la storia di un professionista affermato che, dopo aver conosciuto il carcere (in condizioni di inciviltà) e diverse umiliazioni durate anni, alla fine ne esce distrutto. Il suo studio di architettura prima di questa vicenda aveva 22 dipendenti e incassava circa tre milioni e mezzo di euro all’anno in ragione di un’attività proiettata ad alti livelli anche internazionali (ad es. nel 2001 aggiudicazione di una commessa di 1,2 miliardi di dollari per la ristrutturazione dell’intero complesso delle Nazioni Unite a New York) e dunque della considerazione che si era guadagnato sul campo (era tra i migliori 10 studi di architettura italiani secondo la classifica del Sole 24 Ore). Dopo questa vicenda il tracollo: nello studio sono rimasti in tre, con un incasso annuo di circa 200mila euro.
L’impressione che si trae da questa storia è che i pm dovevano trovare il modo di dimostrare che lo studio dell’architetto Sarno era un punto di smistamento di tangenti a favore di Penati. “Ai pm non è venuto in mente – dice Sarno – che il mio studio potesse essere scelto per le sue competenze professionali e non per oscure ragioni”. Credo che sia sufficiente così. A me pare che siamo di fronte alla logica, emblematica, conseguenza del rovesciamento di realtà operato nel periodo di Tangentopoli, quando la politica abdicò alle sue funzioni e la magistratura incominciò a surrogarne i compiti.
Questa situazione continua a tutt’oggi ed è una delle ragioni della lunga e declinante crisi italiana. Le vicende di questi giorni ne sono la drammatica conferma: piccoli personaggi che si agitano dando a se stessi e agli italiani la sensazione di avere in mano le redini del comando e invece di fatto si sentono e sono messi continuamente sotto scacco dal primo che vuole gettare discredito su qualcuno o da qualche intercettazione “trafugata” da un giornale o dal primo pm che decide di farsi notare. Un Paese può reggere così? La vicenda della legge elettorale a ben vedere rientra perfettamente in questo sconfortante quadro.
L’opinione di Leoni
L’esempio più luminoso di fedeltà alla propria funzione di magistrato è Giovanni Falcone (gli sia lieve la terra che lo ricopre) che fu umiliato e sospettato perché si rifiutava di imbastire processi sulla base di teoremi politici e giornalistici, senza prima aver acquisito le prove. Ma purtroppo la divisione dei poteri, che sta alla base degli stati moderni, è un lusso per l’Italia. Tempo fa, partecipavo a un pranzo in occasione di una importante ricorrenza. Per uno scherzo del destino, nonostante che altri sgomitassero per sederglisi accanto, mi trovai a fianco di un noto magistrato. Mi venne in mente di domandargli, non senza una punta di malizia, come mai la gente, nonostante il dilagare della delinquenza impunita, organizzata e non organizzata, avesse tanta paura dei magistrati. Mi rispose che i magistrati hanno il vantaggio di detenere le chiavi delle manette. E le manette, dato lo sfacelo della giustizia e delle carceri, terrorizzano le persone abituate a una vita decorosa. Per contenere il disgusto di vivere in una società così indecente, mi sono sempre attenuto al confronto con Paesi più disgraziati del nostro. E purtroppo ce ne sono tanti. Anche se la buffonata dell’accordo sulla legge elettorale ci fa precipitare ancora più in basso nella graduatoria del funzionamento della democrazia parlamentare, quasi al livello per cui ci meritiamo una scoraggiante posizione nelle graduatorie della corruzione e del funzionamento della giustizia.