Casa, dolce casa, quanti guai mi dai
di Pier Luigi Leoni
Lo stato sociale italiano, caratterizzato abbastanza positivamente dal servizio sanitario nazionale e negativamente da un sistema pensionistico sballato e dalle assunzioni di massa nel settore pubblico, è stato costruito indebitando enormemente lo Stato. Mentre il popolo è stato tassato poco e male. Enorme evasione fiscale, imposte pesanti cui non possono sfuggire solo i contribuenti a reddito fisso e gli appaltatori di opere e servizi della pubblica amministrazione. Non poteva durare. Allo Stato pieno di debiti e ridotto in povertà fa riscontro la grande disponibilità di case d’abitazione, seconde e terze case di proprietà privata e la mole del risparmio privato.
Segno evidente che una parte eccessiva della ricchezza che lo Stato avrebbe dovuto raccogliere e redistribuire in servizi pubblici, è finita nelle case dei cittadini e nelle casse delle banche. È quindi inevitabile che i fabbricati, che non possono essere nascosti o portati all’estero, siano nel mirino della finanza pubblica e che l’esenzione dall’IMU sulla prima casa ce la dovremo scordare. Ce lo sta ricordando l’Europa. L’abitudine tutta italiana di risparmiare per costruire muri è già costata cara ai proprietari di case che hanno visto enormemente deprezzati i loro patrimoni, e costerà sempre più cara.
L’opinione di Barbabella
Il tema è parecchio importante e Pier dice cose certo condivisibili. Sono intervenuto su questo altre volte manifestando preoccupazione per il fatto che per una lunga fase lo stato ha incentivato l’espansione edilizia come motore dell’economia trasformando la casa da bene d’uso a bene rifugio e poi progressivamente ha applicato una tassazione che, senza la revisione del catasto, ha colpito con il criterio del “tutto uguale”, per cui niente uguale. L’abolizione della tassa sulla prima casa è avvenuta egualmente con il criterio del “tutto uguale”, per cui ancora una volta niente uguale, ha alleviato qualche difficoltà di molti ma non ha considerato che c’era ben più di uno che non ne aveva proprio bisogno. La verità è che le cose sbrigative non hanno nulla a che vedere con le cose razionali e soprattutto con le cose giuste. Naturalmente ieri come oggi tutti ben contenti del cosiddetto vincolo esterno, i richiami dell’Europa, per cui al momento che si deciderà, con catasto riformato o meno, di reintrodurre la tassa anche sulla prima casa, ci si appellerà al vincolo esterno e tutti salvi.
Così pensa ed agisce una classe dirigente superficiale nient’affatto preoccupata di capire come stanno realmente le cose e di agire perché le persone (se qualcuno se ne fosse dimenticato e credo che sia esattamente così, sappia che i proprietari di case sono persone) possano far fronte al loro dovere di esistere con dignità. Credo che non ci si renda conto appunto di come stanno realmente le cose per la maggioranza di chi, oltre ai sacrifici per farsi la propria casa, ha investito i propri legittimi guadagni in immobili, o ha ereditato delle proprietà immobiliari. Da anni la logica degli affitti ha assunto caratteristiche direi penose e le manutenzioni sono diventate estremamente pesanti in un quadro di difficoltà economiche, non solo dei ceti meno abbienti ma anche e in particolare dei ceti medi, difficoltà a tutti note ma di cui non pare che qualcuno senta il dovere di occuparsi. In realtà la vita dei ceti medi, che sono da sempre il nerbo strutturale delle nazioni moderne, è vista da certo tipo di cultura ideologica a tendenza pauperistica come vita di privilegiati da colpire ogni volta che è possibile, e la loro proprietà come un furto di cui rendere in qualche modo ragione. Ed ecco come siamo ridotti.
Penso che ci si dovrà render conto prima o poi che la politica della tassazione sulla casa deve essere inquadrata in una politica complessiva della casa, che non solo differenzi la tassazione tra ricchi e poveri (sarà anche da stabilire con sensatezza quale è il livello accettabile al di sopra del quale si è definibili come ricchi e al di sotto come poveri) ma consideri anche quanti sono, dove sono, come sono, in quale stato sono, gli immobili. Al momento vedo solo le difficoltà in cui si dibattono, solo per mantenere almeno intatta la loro proprietà, coloro che hanno creduto che investire sugli immobili fosse una cosa saggia per se e per i propri figli, giacché se non ce la fanno non possono nemmeno vendere se non svendendo, e spesso non ci sono neanche le condizioni per svendere. Di tutto questo bisognerà che ci si renda conto.
Altra spia di una società malata: l’ipocrisia di usare la gogna mediatica per poi piangerci sopra senza pentirsi e senza riparare i danni
di Franco Raimondo Barbabella
C’è un filo che lega da decenni una lunga sequenza di fatti tragici: il ripetersi di errori giudiziari o costruzioni di accuse fasulle che danno luogo a una gogna mediatica, fino a costituire un vero e proprio sistema che opera indisturbato. Un sistema che dura nel tempo e la cui esistenza alla fine legittima comportamenti ipocriti che danno un tono sinistro ad una classe dirigente che si definisce tale senza riuscire, pur con le dovute eccezioni, ad esserlo davvero. Quando invece i tempi che viviamo lo richiederebbero con una forza ed un’urgenza inusitate. Vediamone il dipanarsi nei suoi tratti essenziali.
La questione dell’uso strumentale delle intercettazioni è tornata al centro dello scontro politico dopo che è stata pubblicata dal “Fatto Quotidiano” la conversazione tra Renzi padre e Renzi figlio sull’Affaire Consip. Appena Renzi figlio ha dato il là accorgendosi (ohibò!) che “Qualcuno sta violando la legge”, Matteo Orfini ha dato fuoco alle polveri: “L’unico obiettivo è colpire il principale partito del Paese. … Un attacco alla democrazia”. Dopo tutti i precedenti, una evidente provocazione e, ovvio, apriti cielo!
Roberto Speranza, ex Pd: “Il Pd ormai usa gli stessi argomenti che usava Berlusconi qualche anno fa”. Danilo Toninelli e Vito Crimi, M5s: (l’uno) “Da Orfini parole eversive contro i pm che indagano su Consip e non tanto velate minacce a giornalisti d’inchiesta. Di cosa hanno paura?”; (l’altro) “L’unico vero complotto è quello messo in atto dalla banda renziana (Boschi, Lotti, padri, figli, ecc.)…”. Maurizio Gasparri e Deborah Bergamini, FI: (l’uno) “Però questi ipocriti che hanno fatto un uso politico della giustizia dovrebbero avere il buon gusto di tacere”; (l’altra) “Avremmo voluto sentire lo stesso quando il bersaglio era il leader di Forza Italia”. Già!
Di fronte a tanta universale faccia tosta l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha sentito il dovere di intervenire e non ci è andato di scartina: “Tutti adesso gridano contro l’abuso delle intercettazioni e l’abuso della pubblicazione. È un’ipocrisia paurosa perché è una questione aperta da anni e anni con sollecitazioni frequenti e molto forti da parte delle alte istituzioni. … Quella dell’abuso delle intercettazioni è una vicenda che si trascina in modo intollerabile”. Appunto!
Sono parole di verità in un Paese che molto raramente ne apprezza il significato, preferendo largamente ad esse l’ipocrisia. Scrivo proprio nel giorno della celebrazione del 25.mo anniversario delle stragi mafiose di Capaci e di via D’Amelio, quasi la metafora della vocazione generale italiana all’ipocrisia. Quello che oggi appare come il magistrato più amato d’Italia, Giovanni Falcone, quasi il santino da esibire come simbolo della parte buona della nazione, ebbe come “nemici principali proprio i suoi amici magistrati” (lo ha detto la sorella Maria), fu denigrato volentieri da esponenti della grande stampa, fu attaccato e ostacolato da parti consistenti del mondo politico e sostenuto da pochi (Claudio Martelli, Emanuele Macaluso, pochi altri). Oggi che Falcone e Borsellino sono morti, i nemici e i denigratori negano di esserlo stati e tutti in coro possono pontificare indisturbati sull’eroismo di questi due straordinari servitori dello stato.
Vengono in mente episodi precedenti e più lontani, come il caso Montesi (1953), il primo delitto mediatico della storia della Repubblica, che sconvolse la DC e che ad oggi resta senza colpevoli. Ma soprattutto vengono in mente quelli del commissario Calabresi e di Enzo Tortora, due altri esempi di come funziona da tempo in Italia la giustizia in connessione con il sistema massmediatico.
Luigi Calabresi, accusato ingiustamente della morte di Giuseppe Pinelli (15 dicembre 1969), divenne anche lui oggetto di una campagna denigratoria e gravemente minacciosa della sinistra estremista, in particolare di Lotta Continua, e sostenuta da un massiccio schieramento di intellettuali e giornalisti con a capo Camilla Cederna (e poi Petri, Risi, Scalfari, Fo, ecc.). Nel clima così creato Calabresi fu assassinato (17 maggio 1972). Lotta Continua aveva scritto: “Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara…”. l’Espresso aveva pubblicato un appello, che sarà firmato da numerosi intellettuali, in cui Calabresi era definito “un commissario torturatore”. Il giudice D’Ambrosio nella sentenza a conclusione delle indagini sulla morte di Pinelli (1975) scrisse: “L’istruttoria lascia tranquillamente ritenere che il commissario Calabresi non era nel suo ufficio al momento della morte di Pinelli”. Dunque Calabresi era innocente. Nonostante ciò pochi hanno chiesto scusa. Adriano Sofri ha riconosciuto le sue responsabilità solo nel 2009.
Tortora, esempio di un innocente che viene condannato ingiustamente, subì la gogna giornalistica e televisiva (pochi andarono controcorrente, ad es. Enzo Biagi e i radicali), alla fine venne riconosciuto estraneo ai fatti imputatigli ingiustamente ma si ammalò e morì, mentre i giudici responsabili di un tale errore giudiziario, forse addirittura consapevole, hanno fanno carriera. Pochi (un pentito e un giudice) hanno chiesto scusa anche in questo caso.
Dunque è da parecchio tempo che è in azione la gogna nei confronti di persone perbene e di servitori dello Stato, cosicché ci sarebbe materia abbondante, se ce ne fosse la volontà e la capacità, per riflettere e correggersi. Ma la questione dell’uso strumentale delle intercettazioni dimostra esattamente il contrario. Non credo che ci sia qualcuno che ormai osi negare il rapporto stretto tra certe procure e certi giornali rispettivamente nel diffondere e nel pubblicare intercettazioni che non hanno nulla a che vedere con l’oggetto delle indagini e sono manciate di fango gettate addosso a qualcuno mai a caso. Il fatto è chiaramente illegale e andrebbe perseguito, ma la loro diffusione serve, da una parte a farsi la guerra tra gruppi di interesse e di potere, e dall’altra a soddisfare nel contempo i pruriti di un tipo non proprio raro di opinione pubblica.
Il prof. Sabino Cassese, giudice emerito della Corte costituzionale, ha definito la funzione delle intercettazioni “oppio del popolo”, una sorta di arma di distrazione di massa dai veri e seri problemi del paese. Io penso, con amara ironia, che si potrebbe anche aggiungere che esse assolvono inoltre sia ad un compito sociale che ad uno economico: permettono a tanta gente di sfogarsi con i casi altrui e a tanta altra gente di lavorare e guadagnarsi da vivere. Forse, dunque, dovremmo farla finita di vedere in tutto ciò un malcostume ed apprezzare invece il fatto che, nonostante tutte le dichiarazioni di circostanza, i nostri bravi responsabili delle vita pubblica, preoccupati del benessere dei cittadini, non cambiano le cose perché non intendono privare la nazione di questa fonte importante di sfogo e di guadagno.
E che Giorgio Napolitano la smetta allora di dare lezioni ad una classe dirigente così responsabile! E che la smetta anche Ilaria Capua di spiegare che cos’è la dignità personale e di sostenere che essa è un bene primario che si ha il dovere di rispettare!
L’opinione di Leoni
Sante parole, quelle di Franco. Un bell’excursus sull’Italia ipocrita e pasticciona del dopoguerra. Non per stima della persona, ma per dovere di monarchico, aggiungo il caso di Vittorio Emanuele di Savoia, figlio dell’ultimo Re d’Italia, che fu ingiustamente ingabbiato dal magistrato Woodcock, tuttora in discutibile e regolare servizio. Non si può pretendere che la magistratura sia perfetta, ma un po’ più di accortezza nelle assunzioni sarebbe indispensabile. Quando vinsi il concorso da segretario comunale, mi fu richiesto un banale certificato di sana e robusta costituzione fisica. Lo stesso certificato che è richiesto a chi vince un concorso da magistrato. Se fossi stato un nevrotico, avrei dato per un po’ filo da torcere a sindaci e dipendenti comunali, ma sarei stato messo presto in condizione di non nuocere. Lascio immaginare che cosa, invece, può combinare impunemente un magistrato nevrotico. Quanto alla incivile commedia del segreto istruttorio, che segreto non è perché i giornalisti ricevono soffiate illecite senza che nessuno sia mai punito, basterebbe, per farlo diventare una cosa seria, mettere in gattabuia il giornalista per il tempo strettamente necessario a fargli sputare il nome dell’autore della soffiata. Soluzione semplicistica? E allora andiamo avanti così.