La legge elettorale si farà, ma senza fretta
di Pier Luigi Leoni
Da giovane studente universitario mi appassionavano i sistemi elettorali e ne discutevo spesso col mio rimpianto amico Adriano Casasole, anch’egli appassionato al tema. Quello delle leggi elettorali nei Paesi democratici è uno studio molto più complesso di quanto può indurre a pensare l’odierno dibattito sulla legge elettorale italiana. Uno studio che coinvolge varie discipline come la storia, il diritto, la scienza della politica, l’antropologia culturale e la socio-psicologia. Uno studio che richiede grande equilibrio da parte dei legislatori, che si devono rassegnare a compromessi che possono favorire gli avversari politici, e devono essere consapevoli che colpi egoistici di maggioranza possono rompere il delicato equilibrio della democrazia rendendo impopolari le elezioni popolari. Ho la netta impressione che i parlamentari si rendano conto del pericolo.
Lo deduco dal coscienzioso rispetto per le decisioni della corte costituzionale che potrebbero essere contestate come una invasione di campo. Ma nessuno, o quasi, se la sente di rinunciare a quello che rappresenta un punto fermo. Quindi si dovrebbe arrivare a una legge elettorale che adatti il cosiddetto “italicum”, deviato nel cosiddetto “consultellum”, anche al senato della repubblica. Non c’è tempo e clima (nazionale e internazionale) per architettare novità di ingegneria istituzionale. Ma allora perché non si chiude la questione? La mia modesta opinione è che la nuova legge elettorale sarebbe mortifera per la legislatura in corso, e nessun partito o movimento, al di là della propaganda, ha interesse a un troppo rapido accorciamento di essa.
L’opinione di Barbabella
Scrivo mentre a Roma è in pieno svolgimento la ridicola battaglia della ramazza. Anche per questo la legge elettorale mi appare oggi come la cartina di tornasole forse più attendibile di come è messo il nostro amato Paese. Il susseguirsi di riforme, una peggiore dell’altra passando dal Mattarellum al Porcellum all’Italicum (indicativo anche l’uso sfrontato del latinorum), indica al di là di ogni altra considerazione lo stato confusionale cui si sono ridotte le forze politiche, che non riescono a trovare un equilibrio tra interessi di parte e interesse generale della nazione. Non c’è lo scatto d’orgoglio necessario, il senso di una missione da compiere, l’idea di una storia da scrivere. Si fa melina, si impegnano volontà e intelligenze in defatiganti tiritere tattiche. Si naviga a vista e il Paese langue e arretra. Basti considerare i dati concernenti i due aspetti fondamentali per valutare l’efficacia dell’azione di governo: l’economia e il funzionamento delle istituzioni.
Ecco alcuni dati dell’economia con pesanti ripercussioni sociali: diminuzione del Pil in termini reali dal 2008 al 2016 di 8 punti; l’Italia in Europa seconda solo alla Grecia per il maggior rapporto debito/Pil (però la Grecia negli ultimi 3 anni lo ha abbassato di 6 punti, mentre l’Italia lo ha aumentato di 4); l’avanzo primario rispetto alla punta record raggiunta all’epoca del governo Prodi è sceso di quasi 3 punti; gli investimenti pubblici si calcola siano diminuiti del 20%; la disoccupazione giovanile è ai livelli più alti, superata solo dalla Spagna; la crescita complessiva stimata per questo e per l’anno prossimo è ben sotto la media europea; la mobilità sociale ristagna, la forbice sociale si allarga e la povertà aumenta. Difficile immaginare a breve una ripresa dello sviluppo.
Ed ecco lo stato deprimente dell’assetto istituzionale: al posto di un coraggioso e coerente disegno di riforma si è scelta la strada dei segnali demagogici per ingraziarsi un’opinione pubblica esasperata (anche se non proprio innocente) da un’impressionante sequenza di fenomeni di malgoverno (reali, ma anche pompati dal sistema massmediatico); invece di puntare su una radicale riforma del regionalismo, con drastica riduzione degli enti, abolizione delle province, valorizzazione dei comuni e delle unioni territoriali, si è preferito definire una riforma del titolo V° e insieme un confuso passaggio dal bicameralismo al monocameralismo che hanno esasperato mezzo mondo ed hanno ottenuto il bel risultato che il Senato sta lì, le province non si sa che cosa sono, le regioni sono quelle di prima, con i metodi di prima; in compenso, sempre per l’unico coraggio che realmente si è manifestato, si è fatta passare l’idea che gli sperperi della politica sono risolti con la diminuzione del numero dei consiglieri comunali; però la giustizia funziona come sappiamo, la scuola pure, la legge sui partiti non c’è, quella in materia fallimentare nemmeno, e così via.
La conseguenza più grave di questa situazione è lo scollamento tra sistema democratico-istituzionale e opinione pubblica, la delegittimazione della classe dirigente eletta e l’avanzare di forti pulsioni insieme demagogiche e nichiliste tali da far pensare ad un futuro di ingovernabilità e di forti tensioni. La reazione di forze e individui dotati di senso dello stato dovrebbe consistere innanzitutto nell’abbandono della fasulla contrapposizione della governabilità alla rappresentatività e nel recupero deciso della credibilità democratica dicendo basta a tutti i trucchi che allontanano il popolo dalle istituzioni: niente tentazioni tipo legge truffa (soglia per il premio di maggioranza sotto il 40%), niente liste bloccate, basta con l’idiosincrasia per il pluralismo espressione della libera scelta popolare dei propri rappresentanti (ad es. mediante piccoli collegi), basta con tutto ciò che esalti la corsa a trasformare i partiti e i movimenti in strumenti al servizio di un capo.
A me non sembra che sia questa la direzione che emerge dal confuso confronto, tutto tatticismi, sulla riforma elettorale. Si continua a cercare la formula magica: proporzionale puro, maggioritario secco, maggioritario misto, legalicum (riecco il latinorum), qualunque legge purché si voti. Io non so, nessuno sa, quale sarà l’esito finale, ma allo stato le due soluzioni più probabili appaiono essere: o un qualche aggiustamento della legge per la Camera uscita dalla sentenza della Corte costituzionale (il Consultellum, sic!) al fine di armonizzarla in qualche modo con quella del Senato; o nemmeno questo, per cui si andrà al voto con ciò che c’è oggi, cioè due sistemi diversi per Camera e Senato. Il dato di fatto è che una legge comunque c’è e se non se ne farà un’altra quella che c’è consentirà al popolo di esercitare il suo diritto di voto al termine della legislatura nel 2018.
In questo caso nessuno avrà la maggioranza per governare e chi vorrà assumersi l’onere di provarci dovrà acconciarsi ad accordarsi con altri. Non sarà un dramma, solo che si dovrà tentare di costruire coalizioni che abbiano una sufficiente base di coerenza programmatica e di idem sentire, e nell’impossibilità dovrà esserci il coraggio di indire nuove elezioni finché non ci si sarà decisi a selezionare una classe dirigente all’altezza della nostra storia e del nostro diritto al futuro. Ci sarà da faticare e tremare. Ma meglio questo che l’alternativa tra monocolori, renziano o lepenista o populista che sia. E comunque ci si renderà conto che qualunque sia la legge elettorale e qualunque sia la formula si governo ciò che conta davvero è la maturità di un popolo e la qualità della classe dirigente che vuole ed è in grado di scegliere.
Il caso Zuccaro, metafora dell’Italia com’è e di come potrebbe diventare (anche peggio)
di Franco Raimondo Barbabella
Come cittadini, di fronte agli accadimenti che ci sovrastano, il più delle volte non possiamo fare granché o siamo del tutto disarmati. Nessuno però può impedirci di maturare orientamenti ponderati come frutto di un documentato esercizio critico del pensiero. Recentemente mi sono occupato del caso Alitalia, considerandolo alla stregua di una metafora dello stato attuale del nostro Paese. Ora mi sembra importante richiamare l’attenzione sul caso del procuratore di Messina Carmelo Zuccaro, tanto mi appare anch’esso parlare dell’Italia con la forza sintetica di una metafora. Qui però c’è qualcosa di più: non solo la descrizione di uno stato di fatto, ma anche l’indicazione di un possibile e certo non auspicabile futuro istituzionale del Paese.
Il caso è ormai più che noto. Dopo un’audizione di fronte al “Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione dell’Accordo di Schengen” avvenuta lo scorso 22 marzo, il dott. Zuccaro va in tv (la trasmissione Agorà di Rai3) e dichiara: “A mio avviso alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti e so di contatti. Un traffico che oggi sta fruttando quanto quello della droga”. Poi ai microfoni di Tgr Rai Sicilia precisa: “C’è un’indagine conoscitiva sulle Ong che è ancora in corso. Di prove si può parlare soltanto a fronte di conoscenze che possano essere utilizzate processualmente e queste al momento mancano”. Dunque pure ipotesi, accuse senza prove, e però dichiarazioni pubbliche preoccupanti: una luce sinistra sul ruolo delle navi delle organizzazioni di volontariato che sono lì a salvare vite di migranti. Si scatena il putiferio: da una parte esponenti governativi e delle forze di maggioranza che accusano il procuratore di uscire dal seminato e lo invitano a fare il suo mestiere che è quello di parlare con le sentenze, dall’altra il centro destra, che lo sostiene a spada tratta con Salvini in prima linea: “A me risulta che ci sia un dossier dei servizi segreti italiani che certificano i contatti tra trafficanti, malavita, scafisti e alcune associazioni”. Da parte sua Di Maio con la consueta eleganza definisce le Ong “taxi del Mediterraneo”.
Per diverse ragioni questa vicenda è, come quella di Alitalia e come altre, una metafora dell’Italia. Ecco la prima: il magistrato esce dal suo ambito e si pone come soggetto politico. La controprova sono le dichiarazioni rilasciate all’ANSA con cui spiega di “avere denunciato un fenomeno, e non singole persone,” perché se “si aspetta troppo tempo si rischia di produrre elementi deleteri non più controllabili” e che “l’Italia non può ospitare tutti i migranti economici”. Non è la prima volta che un magistrato fa dichiarazioni politiche e si presume che non sarà l’ultima. C’è però un’attenuante, nel presupposto di buona fede: è probabile che questo accada perché la politica, debole e troppo spesso inerte, fa sentire la magistratura in dovere di fare ciò che essa non fa. E la magistratura lo fa volentieri. Ma è del tutto sbagliato, un indizio importante di un sistema malato.
Ed ecco la seconda. In questa vicenda, come purtroppo in altre, i campi politici si invertono: chi fino a ieri aveva accusato i magistrati di debordare, invitandoli di conseguenza a fare le indagini e a parlare con le sentenze, prende questa volta le difese di Carmelo Zuccaro che fa quello che ieri loro deprecavano; chi al contrario fino a ieri aveva utilizzato o lasciato correre volentieri gli scantonamenti giustizialisti della magistratura, perché così vedeva indeboliti o colpiti gli avversari (il preferito era ovviamente Berlusconi, che peraltro ci metteva del suo), ora si indigna e protesta come se si trovasse di fronte a strani e imprevedibili accadimenti. Lo scandalo ovviamente non sta tanto nel fatto che la politica coltivi le convenienze, quanto nel fatto che l’abbandono di ogni remora di incoerenza produce, insieme a irriconoscibilità ideale e illogicità programmatica, insicurezza e sbandamento. Ciò che non è il massimo per la saldezza e la credibilità della democrazia.
Ecco anche una terza ragione, che è anche la più grave, perché fa intravedere quel futuro nient’affatto auspicabile di cui facevo cenno all’inizio. È il congiungimento che si realizza, qui come in molti altri casi, tra giustizialismo e moralismo. Sono anni ormai che da vari ambienti viene portato un attacco feroce al mondo politico, in parte giustificato per un malcostume autolesionista dei suoi esponenti fatto di errori, incapacità, ignoranza, ruberie e balordaggini, ma in parte coltivato dai detrattori per interessi diversi non proprio nobili (potere, privilegi, vantaggi vari) e forse per qualcosa di più corposo. Il risultato infatti è una crisi che da politica sta sempre più diventando istituzionale e rischia di prefigurare alla fine quella “repubblica dei magistrati”, “la repubblica fondata sull’avviso di garanzia”, che il direttore del Foglio Claudio Cerasa vede potenzialmente incarnata nella figura di Pier Camillo Davigo, per il quale vale il principio che “non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti” (Cerasa), il contrario di quello in vigore nello stato di diritto: “tutti sono innocenti fino a prova del contrario”.
A contrastare posizioni come queste basterebbero le seguenti parole di Benedetto Croce: “Un’altra manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa della onestà nella vita politica. L’ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli e prende forma nelle non cantate prose delle loro invettive e declamazioni e utopie, è quello di una sorta di areopago, composto di onest’uomini, ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del proprio paese. … L’onestà politica non è altro che la capacità politica: come l’onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo …” (B. Croce, Etica e Politica, a cura di G. Galasso, 1994, Adelphi, Milano).
Ma so che non bastano e perciò voglio concludere con qualche altra schematica considerazione.
1. Il procuratore Zuccaro non dice stupidaggini perché non si può escludere (come tra l’altro dimostrano le inchieste già partite) che nella gestione degli enormi flussi di migranti, e con essi di straordinarie quantità di denaro, possano esserci interessi e traffici illeciti mascherati da buone intenzioni; ma se ci sono elementi di conoscenza che prefigurano ipotesi di reato si facciano le indagini necessarie, le più rapide e rigorose, si scoprano e si puniscano i colpevoli, cioè si facciano parlare i fatti; basta con le dichiarazioni che sollevano polveroni politici e inquinano ogni possibile giudizio. C’è bisogno di ricondurre tutti al più rigoroso rispetto delle funzioni dello stato di diritto.
2. Questa vicenda fa comunque emergere sia l’ambiguità che le difficoltà oggettive di governare, controllandolo, il flusso dei migranti, un fenomeno dalle mille facce; è chiaro però che se i trafficanti di uomini sanno che al limite delle acque territoriali libiche sono pronte ad intervenire le navi delle Ong, sono oggettivamente incentivati a moltiplicare e sovraccaricare le carrette, cioè a potenziare i flussi; dunque, senza un’inversione di logica e quindi senza interventi che vadano alla radice del fenomeno non solo italiani ma europei e internazionali, il sistema complessivamente si traduce in un aiuto oggettivo al traffico illegale di esseri umani e le buone intenzioni diventano, nelle conseguenze, atti di malvagità.
3. L’Italia degli onesti non esiste. Qui c’è da ricostruire un Paese, altro che storie! Qui c’è bisogno di politica vera! Il giustizialismo è un inganno: basti il detto latino “summum ius, summa iniuria”. Il moralismo è la perversione dell’etica: trasforma i principi in predica e la politica da regno delle cose possibili in campo di battaglia per la liberazione del mondo dalle tentazioni diaboliche; tutti corrotti o vocati alla corruzione, dunque tutti colpevoli e perciò nessun colpevole; poi normalmente si scopre che gli autocandidati alla santità hanno sporche di realtà non solo le mani ma anche le anime. L’onestà è cosa seria, un requisito necessario per fare ogni cosa, non solo per governare le cose pubbliche. E non consiste solo nel non rubare, ma nel dire ai cittadini come stanno le cose, nel non ingannarli con false promesse, nel non promettere panacee inesistenti. L’onestà, come dice Benedetto Croce, è la capacità di fare bene il proprio mestiere, cosa che riguarda anche il cittadino che sceglie i governanti, perché lo impegna a conoscere e a decidere per il meglio e non per ciò che gli conviene sperando in qualche favore. Altro non c’è, il resto è fuffa.
L’opinione di Leoni
Tutto si può dire dell’Italia, meno che sia un Paese noioso. Facciamo di tutto per non annoiarci. L’unico che non fa niente per non annoiarsi e per non essere noioso, è il Presidente della Repubblica. Questa faccenda delle ONG è quel che ci mancava per tenere viva l’agitazione della parte più agitata delle opposizioni. Un’agitazione stimolata da un procuratore della repubblica che ha perso un’ottima occasione per stare zitto e lavorare. Il problema delle migrazioni dall’Africa è grosso, ma la nostra guardia costiera e le ONG fanno quello che possono per salvare vite umane. Glielo impone la dose di etica che c’è, per fortuna, nelle leggi del mare e lo slancio umanitario che c’è, per fortuna, nel mondo del volontariato.
Certo, se la guardia costiera ordinasse alle sue imbarcazioni di andare a spasso lontano dalle coste libiche e se le navi delle ONG andassero a far del bene in altre parti del mondo, il flusso dei migranti dall’Africa si arresterebbe dopo qualche migliaio di uomini, donne e bambini dalla pelle nera finiti in pasto ai pesci. Ma non è così che funziona, per fortuna, in un mondo in cui, pur fra tante atrocità, sopravvivono la coscienza morale e la pietà. Certo, gli uomini di colore che bighellonano nei pressi dei centri di accoglienza e quelli che accattonano per le strade destano timori di aumento della delinquenza, che già abbonda, e dell’insicurezza; e anche rancore per le risorse che vengono sottratte ai servizi pubblici sociali e sanitari. Ma la miseria dell’Africa, che ci sembrava lontana, e ineluttabile come una legge fisica, ci sta piombando addosso e non saranno i procuratori ciarlieri a regolare questo colossale problema, ma solo la politica, la diplomazia e la collaborazione coi Paesi poveri. Ci vuole pazienza, ragionevolezza, generosità e fortuna. Come nelle piccole cose della nostra piccola vita di ogni giorno.