Lezioni sull’oggi (per chi le vuole) dai grandi del passato
di Franco Raimondo Barbabella
I grandi del passato a saperli leggere possono essere fonte di ispirazione per capire l’oggi e la direzione del futuro molto più di tanti trattatisti contemporanei imbrigliati nelle loro spesso troppo piccole ambizioni e traditi dalla voglia di apparire per forza originali. Questa l’impressione che si ha ad esempio scorrendo passi più o meno noti di Machiavelli e Guicciardini, due delle nostre più brillanti intelligenze di un passato più vicino di quanto non sembri. È pur vero che la storia non si ripete e che non necessariamente, come invece pensavano gli antichi, è “magistra vitae”, ma gli insegnamenti sono sempre possibili e li cerca chi li vuole trovare.
Prendiamo questo passo di Machiavelli, scritto alla vigilia della discesa del re di Francia Carlo VIII (1494), che diede inizio alla lotta per la conquista dell’Italia da parte delle appena nate monarchie nazionali europee: “Credevano i nostri principi italiani … che a uno principe bastasse negli scrittoi pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne’ detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude (inganno), ornarsi di gemme e d’oro, dormire e mangiare con maggiore splendore che gli altri, tenere assai lascivie intorno, governarsi co’ sudditi avaramente e superbamente, marcirsi nell’ozio, dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare se alcuno avesse dimostrato alcuna lodevole via, volere che le parole loro fussero responso di oraculi; né si accorgevano i meschini che si preparavano ad esser preda di qualunque gli assaltava” (Dell’arte della guerra, VII, 7). Non vi pare che questa situazione di allegra irresponsabilità somigli a quella che ha accompagnato la cosiddetta seconda repubblica e che, permanendo tale in molti, rischia di spianare la strada a poco piacevoli avventure forse ancor più irresponsabili?
Prendiamo anche quest’altro passo, questa volta di Guicciardini, che nella Storia d’Italia (Einaudi, 1971, vol. I) ad un certo punto descrive il “tradimento” del celeberrimo letterato napoletano Giovanni Pontano, il suo repentino passaggio dall’essere al servizio totale della corte aragonese alla più plateale “vituperazione” di questa per ingraziarsi il nuovo conquistatore Carlo VIII insediatosi sul trono di Napoli: parve allora “che, o per servare le parti proprie degli oratori o per farsi più grato a’ franzesi si distendesse troppo nella vituperazione di quegli re, da’ quali era sì grandemente stato esaltato: tanto è qualche volta difficile osservare in se stesso quella moderazione e quegli precetti co’ quali egli … aveva ammaestrato tutti gli uomini”.
Spietata ed emblematica denunzia dell’atteggiamento di servaggio nei confronti del potente di turno di chi esercita attività intellettuali, denunzia che Francesco De Sanctis riprenderà e rilancerà da par suo essendo quello anche ai suoi occhi il tipico rapporto degli intellettuali italiani con il potere, ed essendo egli convinto che nel vuoto morale delle élites e della cultura stia l’origine prima del problema storico italiano. E oggi? Non vi sembra che questo sia di nuovo il comportamento di non pochi che si ritengono maestri di pensiero e che si spostano di campo fiutando un più vantaggioso ricollocamento? Giovanni Pontano si sbagliò perché gli aragonesi tornarono sul trono e lui per poco non ci rimise la testa. A quelli di oggi andrà meglio? Chissà!, forse sì, essendo oggi emarginati soprattutto coloro che hanno il senso della propria indipendenza di pensiero.
Infine, un altro passo di Machiavelli, questa volta tratto dai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (Machiavelli, Tutte le opere, Mondadori, 1949, vol. I) a proposito della stabilità delle “repubbliche” (per repubblica egli intendeva tutti i regimi non dispotici, cioè quelli in cui in qualche modo conta la volontà del popolo): “Una repubblica ha maggior vita ed ha più lungamente buona fortuna che uno principato, perché la può meglio accomodarsi alla diversità de’ temporali (tempi) per la diversità de’ cittadini che sono in quella, che non può uno principe”. Parole sagge che, attualizzandole, si possono tradurre così: le democrazie rappresentative sono migliori e più stabili proprio perché garantiscono una adattabilità ai mutamenti storici in ragione del loro pluralismo, al contrario delle forme istituzionali che si fondano sul potere di pochi o di uno solo. Sono i regimi a cosiddetta democrazia diretta, in cui il capo comanda e la folla obbedisce e in cui non a caso si fa un uso spregiudicato del referendum, quasi sempre trasformato nell’applauso ad un capo. C’è bisogno di citare esempi?
Certo, è bene ripeterlo, ciò che è stato scritto nel passato in circostanze del tutto diverse da quelle di oggi di per sé non garantisce nulla circa la capacità interpretativa di ciò che accade oggi in funzione di scelte per l’azione. Ma conoscerlo può sempre aiutare a non commettere gli stessi errori, che in quei testi sono chiaramente enunciati. Comunque è ovvio che non sono quei grandi ad avere bisogno di noi ma noi di loro.
Insisto, la saggezza è cosa rara, soprattutto nelle élites, e soprattutto in quelle di oggi, particolarmente irrequiete per l’aumentata difficoltà ad avere successo e a godere di prebende, ma non può far male ricordare anche a loro come gira il mondo. Poi chi vuole e può da ciò prenderà spunto o di ciò farà tesoro, mentre gli altri seguiranno l’onda. Chi sarà più felice? A priori non sappiamo, perciò ci accontentiamo di poter dire. In fondo c’è sempre un problema di dignità, ma questa non è roba che si insegna.
C’è un aforisma di incerta attribuzione, secondo il quale tutte le cose intelligenti sono state già dette e si tratterebbe solo di dirle di nuovo. Quindi la conoscenza rispettosa dei saggi del passato, vale a dire la cultura accompagnata dall’umiltà, ci aiuterebbe a non dire e a non fare tante sciocchezze. Ma temo che l’umiltà sia una virtù rara e che l’applicazione agli studi sia troppo faticosa per chi è immerso nella politica. Ci riuscirono in pochi. Cito l’imperatore romano Marco Aurelio, che dovrebbe essere il santo protettore di tutti coloro che vogliono esercitare con saggezza un potere assoluto; e cito Niccolò Machiavelli, il “segretario fiorentino” che ha fondato la scienza politica cercando di spiegare come si salvano le repubbliche. Certo, la nostra attuale classe politica non brilla per saggezza. Ma purtroppo è il popolo che mi sembra diventato poco esigente. Un quarto degli italiani simpatizzano per Beppe Grillo, del quale ho letto una lunga intervista sul quotidiano cattolico Avvenire, dal contenuto così contorto e superficiale che non sarebbe tollerato nel tema di un liceale. E il suo collaboratore Davide Casaleggio ha infilato una serie di assolute banalità in una trasmissione televisiva preannunciata come un avvenimento storico. Un altro quarto degli italiani confidano in un partito democratico che si è impelagato in un referendum assolutamente intempestivo, dimostrando di non avere il minimo senso degli umori popolari. Un altro quarto arranca appresso ai vari capi del centro e della destra che si azzuffano come i polli di Renzo. Un altro quarto si estrania dal prendere posizione politica per i motivi più svariati, ma tutti poco rispettabili. Insomma un bel quadretto che darebbe filo da torcere a Machiavelli e a Guicciardini, i quali, se tornassero redivivi, non caverebbero un ragno dal buco, come del resto non lo cavarono ai loro tempi. Non sarà il caso di fare un pensierino sulla Provvidenza? «Proviamo anche con Dio, non si sa mai» cantava Ornella Vanoni.
Lo strano piacere della lettura e della scrittura.
di Pier Luigi Leoni
Forse perché ho sempre impiegato molto del mio tempo a leggere e a scrivere, mi ha emozionato un’affermazione della teologa battista Lidia Maggi: «Ogni volta che leggiamo, è come se venissimo letti dal libro che abbiamo scelto. Questo ci porta a riconsiderare il modo in cui abitiamo la vita e a ridisegnare il percorso che nella vita stiamo tracciando.» Ma poi ho riflettuto che la vita offre ogni giorno anche a chi non legge occasioni per riconsiderare l’intima filosofia che ci convince a vivere una vita che non abbiamo chiesto e che dovremo abbandonare, probabilmente con una certa riluttanza, senza averne compreso il senso o, nel migliore dei casi, col dubbio che il senso che le abbiamo attribuito sia solo un’illusione. Il mondo è pieno di filosofi analfabeti. Uno celebre è il pastore errante dell’Asia cantato da Giacomo Leopardi, quello che dice: «E quando miro in cielo arder le stelle; / dico fra me pensando: / a che tante facelle? / Che fa l’aria infinita, e quel profondo / infinito seren? Che vuol dir questa / solitudine immensa? Ed io che sono?» Il poeta non ha fatto altro che mettere in versi, con somma abilità, ciò che tutti pensiamo debba pensare un pastore analfabeta. E poi vi sono dei versi che non solo non aggiungono nulla a ciò che si sa, ma che fanno anche perdere tempo per scoprire un senso che non hanno; come quella poesiola che piaceva tanto a Jorge Luis Borges, un uomo vissuto in biblioteca come un topo nel granaio: «Pellegrina colomba immaginaria / che accendi nel cuore gli ultimi amori, / anima della musica e dei fiori, / pellegrina colomba immaginaria.» Tutto questo per dire che non c’è bisogno di leggere per essere intelligenti… e che leggere può fare anche male. Ma continuerò a leggere fino a quando potrò, perché il caso non mi ha dato un gregge da badare. E continuerò a scrivere solo per comunicare con qualche membro della tribù che stranamente preferisca la lettura alla caccia e alla pesca.
Un buon proponimento, quello di continuare a leggere e a scrivere direi in ogni caso, con o senza gente che preferisce la lettura alla caccia, alla pesca o ai social. Perché leggere è confrontarsi con se stessi attraverso scoperte e riscoperte degli altri, spesso lontani nel tempo e nello spazio, o anche nelle idee e nelle sensibilità. Perché scrivere è cercare di mettere ordine nei propri pensieri o esprimere se stessi, mettere a nudo il proprio animo e consegnarsi al giudizio degli altri, magari anche con il rischio di essere apprezzati e di generare perfino qualche aspettativa.
Stiamo parlando del piacere di leggere e scrivere, non dell’obbligo di farlo per professione, in cui entrano altri aspetti non sempre necessariamente piacevoli. In entrambi i casi la dotazione naturale di intelligenza resterà senz’altro la stessa, ma le funzioni di essa che dipendono dall’esercizio, dal confronto e dalla comunicazione, cambieranno per forza la stessa dotazione naturale. Cambia perciò la complessiva dotazione intellettuale, quel patrimonio di conoscenze e competenze che magari non renderà più felici, ché anzi è più facile il contrario, ma che senz’altro può rendere più pronta e acuta la capacità di interpretare il reale, più fervida e generosa la fantasia e anche forse generare o rafforzare la voglia di rendere migliore la vita per sé e per gli altri. Può, ma non è detto che avvenga.
Quanto alla filosofia, si può certo dire che chiunque è in grado di filosofare, se ci riferiamo alle domande spontanee sul senso del mondo e della vita, ma questo non aggiunge né toglie nulla sia a noi stessi che agli altri. Il pastore di Leopardi evidentemente è Leopardi stesso, e da qui la profondità abissale di quei versi. Mentre “la colomba immaginaria” che piaceva a Borges è come “la bamba” che piace a Mogol, versi senza pretese che piacciono proprio perché non aggiungono niente a quanto è già noto e scorrono via lasciando solo sensazioni.
Spesso il sapere non rende migliori e non poche volte la cultura è un gran guaio perché magari costringe alla coerenza o al minimo stimola il bisogno di autoriconoscimento. Ed è anche vero che abbondano gli esempi di persone che si sono fatte da sole senza preoccuparsi troppo di leggere e tanto meno di scrivere. Ci sono anche persone crassamente ignoranti che hanno successo negli affari come in politica. Chi vuole segua pure qualcuno di questi esempi. Noi continueremo a leggere e a scrivere finché ce ne sarà data la possibilità. Per il puro piacere di farlo o per l’illusione di trasmettere qualcosa agli altri ed essere in qualche modo utili.