Sulla necessità di una rivoluzione democratica
di Franco Raimondo Barbabella
Non c’è dubbio che se per l’elezione del segretario va a votare solo il 59% degli iscritti al partito qualche problema si pone. E tuttavia, pur entro questo perimetro, Renzi ha vinto bene la prima fase della primarie PD. Non è strano dunque che ci sia chi si dà da fare per valutare la situazione e suggerire strategie. Uno dei più garbati mi è sembrato Claudio Cerasa, che su Il Foglio di martedi scorso si è spinto tuttavia a suggerire i termini di un programma essenziale perché l’ex premier possa presentarsi come nuovo pur non potendolo più essere come lo era il rottamatore dei gloriosi e brevi anni dell’ascesa. Una pretesa, certo, ma almeno una pretesa intelligente.
Ecco che cosa scrive ad un certo punto Cerasa: “La formula magica non esiste, ma la grande svolta passa dalla giusta combinazione tra alcuni fattori evidenti. Le migliori condizioni di accesso dei giovani al lavoro. Una campagna devastante di sburocratizzazione dell’Italia. Un grande patto per privatizzare la televisione pubblica. Una lotta agli sprechi declinata non attraverso la guerra alle auto blu ma attraverso la guerra agli sprechi strutturali della Pubblica amministrazione. Un piano reale e non virtuale della riduzione della spesa attraverso il quale finanziare una riduzione choc delle tasse sulla persona e un abbattimento del debito pubblico. La trasformazione dei sindacati in alleati possibili non per difendere l’esistente ma per imporre nel tessuto sociale italiano una svolta in termini di produttività. E a proposito di rivoluzione per una nuova generazione andrebbe ascoltato chi suggerisce da tempo, a Renzi e non solo, di vendere tutte le aziende pubbliche anche locali (valore stimato 100 miliardi) e investire tutto il ricavato nella scuola (nuovi edifici, training dei docenti, criteri di selezione del personale) a condizione che i sindacati accettino di rinunciare al loro potere di veto e trasformare così i presidi nei manager dell’istruzione italiana.”
Che roba, ragazzi!, ve l’immaginate voi un vero programma di rinnovamento organico, sistematico; una riorganizzazione per l’efficienza e la produttività del sistema, magari, guarda un po’!, anche con giustizia; e soprattutto un progetto per il futuro dei giovani fondato su una scuola che funzioni sul serio come servizio moderno, architrave di un paese nuovo. Insomma non un rinnovamento di facciata, quello demagogico della rottamazione o quello smaccatamente populista del montante grillismo o del leghismo salviniano, ma quello solido del riformismo democratico che affonda le sue radici nell’idea della società aperta e attinge alla fonte del migliore pensiero europeista.
Un progetto coraggioso, capace di sfidare con realismo i fabbricanti di illusioni, capace di parlare di verità e di rimotivare un paese stanco e sfiduciato. La riscoperta della cultura progettuale che sa capire il presente e guardare lontano. Una vera rivoluzione, con competenza e responsabilità, in nome della democrazia e per la democrazia. Qualcosa che riguarda tutti, a partire forse proprio dai governi regionali e locali, il cui cambiamento nella medesima direzione non è meno urgente di quello nazionale.
Una prospettiva possibile? Sì. Realistica? Forse, dipende. Difficile? Non ho dubbi. La interpreterà Renzi? Non so, ma se non lo farà lui qualcuno, anzi ben più di uno, se ne dovrà far carico. Comunque, come mostra la realtà, nessuno aspetta nessuno. Le scelte urgono. I demagoghi strillano e fanno proseliti, ma cresce per contrasto anche la voglia di ragionare con verità. Vedremo, ma la partita del futuro è più aperta che mai. Apertura contro chiusura, verità contro inganno, capacità contro incompetenza, bene di tutti contro bene di pochi, democrazia contro populismo. E avanti tutta!
Il bravo direttore del Foglio ha sintetizzato alcune riforme richieste dal buon senso. Ma, a parte il fatto che le riforme è troppo facile proporle per chi non deve farle, sarebbe bene tenere sempre presente un saggio detto di Ciriaco De Mita: «In politica non vi sono soluzioni ottimali, ma soltanto soluzioni possibili: quelle che ottengono il consenso». Matteo Renzi, seguìto spesso di controvoglia dalla maggioranza parlamentare, aveva fatto approvare alcune riforme costituzionali che riteneva indispensabili per sbloccare il nostro sistema democratico inceppato. In un momento di imprudente sincerità, aveva affermato solennemente che si sarebbe ritirato dalla politica se il corpo elettorale avesse bocciato le riforme. Nessuna persona che abbia un minimo di conoscenza della psiche degli uomini politici gli credette, ciò nonostante quell’affermazione gli viene insistentemente rinfacciata. Comunque, se la maggioranza degli iscritti e dei simpatizzanti gli perdona l’incoerenza è perché si tratta di gente che ha votato sì al referendum e spera che Renzi, una volta ripreso in mano il partito, riprenda la strada del riformismo costituzionale. Per tirare a campare con questa costituzione basta un Gentiloni qualsiasi.
Alla radice del problema dell’integrazione dei mussulmani
di Pier Luigi Leoni
Giornali e televisioni pubblicano con grande evidenza le notizie di ragazze, appartenenti a famiglie mussulmane immigrate in Italia, che vengono osteggiate dai genitori e severamente punite per i loro tentativi di uniformarsi all’abbigliamento e alle abitudini delle amiche italiane. L’interesse dei giornalisti è motivato dallo scandalo che fatti del genere provocano nel pubblico italiano, ma anche nell’animo degli stessi giornalisti. L’attaccamento dei mussulmani alla loro religione, pur non essendo sempre assoluto, è molto più tenace di quello dei cristiani. Forse perché la religione mussulmana impartisce regole precise e perentorie, che si presumono dettate direttamente da Dio e che soddisfano il forte bisogno degli esseri umani di avere prescrizioni autorevoli e concrete per orientarsi e non perdersi nel mare magnum di quel mistero che è il mondo: regole per vivere e per morire secondo il volere divino in una situazione di orgogliosa superiorità nei confronti degli “infedeli”. Quindi si tratta di una religione “facile”, di fronte alla quale la fede cristiana, che è fiducia in un uomo che ha detto di essere “la via, la verità e la vita” è molto difficile nella sua essenza, nonostante la fortuna che ha avuto dando vita a una chiesa molto ben organizzata. Una fortuna che però è sempre più in crisi, tanto da dare drammatica attualità a certe affermazioni un po’ accantonate dei vangeli, come l’amaro detto di Gesù: «Quando il Figlio dell’uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla terra?» (Lc 18, 8). La presenza sempre più massiccia di mussulmani nella nostra società blandamente cristiana costituisce quindi un problema che non può essere affrontato contando sull’efficacia attrattiva del libertinismo e dell’edonismo più o meno giovanile. Ma tenendo fermi quei princìpi di dignità di tutti gli esseri umani che, lo si voglia o no ammettere, deriva dal martellamento bimillenario della predicazione evangelica sui duri cervelli di popoli riottosi e immemori.
Veramente i principi di dignità di tutti gli esseri umani ci è voluto un bel po’ ad affermarli teoricamente ed effettualmente proprio per l’ostilità di classi dirigenti esclusiviste, gelose dei proprio privilegi, e nel contempo convinte, con l’appoggio del potere ecclesiastico, di essere gli interpreti autentici del messaggio cristiano. Si deve a persone coraggiose e a movimenti sia religiosi che laici se nei secoli della modernità si è infine giunti ad affermare l’idea di diritti umani inviolabili fino alla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Difficile non è la religione cristiana in quanto tale, lo è piuttosto la sua interpretazione dottrinaria e soprattutto il modo di viverla individualmente e come comunità dei fedeli. In fondo, come sostiene il prof. Steven Nadler a proposito del pensiero di Spinoza nei confronti della religione in generale, la “vera religione” non ha “a che vedere con la teologia, le cerimonie liturgiche o i dogmi settari”, ma è “costituita unicamente da una semplice regola morale, quella che si riassume in ‘ama il prossimo tuo’”. Furono pensieri come questi, che li si voglia apprezzare o no, che, dice sempre Nadler, “incoraggiarono la comparsa di movimenti contrari ad una concezione settaria della religione che avrebbero cambiato la storia dell’umanità”.
Per quanto concerne poi il fatto che la religione islamica sarebbe da ritenere “facile”, seppure tra virgolette, io ne ho seri dubbi sia sul piano dottrinario che su quello del modo pratico, individuale, culturale e politico, di viverla. La realtà della diversità anche radicale delle interpretazioni da parte della madrasse e dei capi politico-religiosi, le azioni che ne seguono, i comportamenti che si osservano o che vengono rivelati, lo testimoniano mi pare con evidenza.
Le imposizioni di costumi tradizionali quando non di vere e proprie violenze alle donne, in particolare alle ragazze che vorrebbero adeguarsi ai costumi occidentali, sono la conseguenza non di semplici prescrizioni di sicurezza ma di un mix di interpretazioni dottrinarie e di permanenza di costumi tradizionali derivati dalle società di origine e mantenute intatte con “volontà di potenza” nelle società di inserimento, a testimonianza anche di quanto sia difficile l’integrazione.
Io credo che temi come questi debbano attendere ancora di essere compresi per quello che sono e che non basti fare riferimento solo al confronto tra religioni, ma sia necessario fare uno sforzo di pensiero ben più largo e soprattutto una paziente e lungimirante azione culturale e politica, condotta con fermezza e insieme con disponibilità al dialogo. Cose di lungo periodo.