Avanza a grandi passi la “democrazia recitativa”
di Franco Raimondo Barbabella
Negli anni trenta dell’Ottocento, poco meno di due secoli fa, Giuseppe Gioachino Belli iniziava il sonetto “Li soprani der monno vecchio” con questi versi: C’era una vorta un Re cche ddar palazzo/ Mannò ffora a li popoli st’editto:/ “Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo,/ Sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto”.
Sono versi che potrebbero essere anche l’introduzione del libro “Il capo e le folla”, il libro in cui ai tempi nostri Emilio Gentile, uno dei massimi storici italiani contemporanei, descrive “la genesi della democrazia recitativa”, qualcosa che si sta svolgendo sotto i nostri occhi e di cui bisognerebbe chiedersi se è giusto chiamarla ancora democrazia.
Oggi come ieri sembra che il rapporto tra chi comanda e chi no sia lo stesso: il capo comanda e il popolo come folla apatica obbedisce. Una lontananza crescente dal discorso con cui Abramo Lincoln il 19 novembre 1863 indicava, con la guerra di secessione ancora in atto, il futuro della nazione americana, e in cui definiva la sua idea di democrazia. Egli terminava così il suo discorso (Gettysburg Address): “che l’idea di un governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non abbia a perire dalla terra”.
Non credo che si possa sostenere che la democrazia come “governo del popolo, dal popolo, per il popolo” sia un’idea morta o che sia anche solo una prassi morta, ma certo l’avanzare di questa forma che Emilio Gentile chiama opportunamente “democrazia recitativa” dovrebbe preoccupare non poco coloro che della democrazia mantengono una concezione sostanziale, come crescita della coscienza civile, partecipazione popolare consapevole ed esercizio diffuso delle responsabilità, base insomma per l’affermazione costantemente aggiornata delle idee di libertà, giustizia e solidarietà.
Non vale nemmeno la pena di soffermarsi sui mille esempi che ogni giorno testimoniano di quello che io ritengo sia un pericoloso scivolamento verso il nulla per molti e il tantissimo per pochi, molto più di oggi, in termini non solo di ricchezza, ma di ruolo sociale e opportunità di vita, con tutto ciò che ne deriva sul piano della quotidiana lotta per l’esistenza. Esempi che vengono dai cambiamenti di quadro a livello internazionale, dall’America alla Russia e all’Europa, e assumono connotati particolari proprio nel nostro Paese in quanto vengono in modo sì confuso ma anche prepotente dai settori che contano, mondo politico e giudiziario, potere economico, giornalistico e mediatico.
Semmai c’è da chiedersi se a dare senso a questo tipo di rapporto tra capi e folla, che riproduce in forme aggiornate i rapporti tradizionali di subordinazione, possono ancora essere i versi conclusivi del sonetto di Belli citato all’inizio e che così recitano: Co st’editto annò er boja pe ccuriero,/ Interroganno tutti in zur tenore;/ E arisposeno tutti: È vvero, è vvero.
Troppi segnali indicano che le cose stanno proprio così. E se, nonostante l’evidenza, nessun fatto rilevante e chiarificatore sembra scuotere molte coscienze dalle tendenze gregarie, gli altri che a quelle tendenze si oppongono in nome dei valori fondanti la democrazia moderna, invece di mettersi l’anima in pace, dovranno moltiplicare gli sforzi di contrasto sia sul piano culturale che su quello politico e istituzionale.
Per fortuna (io direi per grazia di Dio) gli uomini nascono con esigenze fondamentali che sono l’aspirazione alla felicità, alla giustizia, al bene e alla verità. Queste esigenze fondamentali le accettiamo nel momento in cui decidiamo che è meglio vivere che morire, cioè accettiamo una esistenza che non ci siamo dati da noi: prima per istinto, poi per consiglio e comando e poi per libera scelta. È per questo che possiamo convivere e comunicare coi nostri contemporanei, ma anche commuoverci davanti a testimonianze distanti da noi migliaia di chilometri o migliaia di anni. Per il problema sollevato questa settimana da Franco, mi viene spontaneo di invitare alla meditazione sul discorso di Pericle agli Ateniesi, del 461 a.C. Credo che in quel testo vi sia la chiave per orientarsi in questo momento in cui la democrazia sta perdendo la coscienza di se stessa.
«Qui ad Atene noi facciamo così. Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia. Qui ad Atene noi facciamo così. Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento. Qui ad Atene noi facciamo così. La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private. Qui ad Atene noi facciamo così. Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso. Qui ad Atene noi facciamo così. Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore. Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero. Qui ad Atene noi facciamo così.»
di Pier Luigi Leoni
Anche i filosofi, se vogliono cavarsela nella vita quotidiana, devono essere ragionevoli, cioè devono tener conto della realtà anche per quegli aspetti che non vanno loro a genio perché contrastano con le loro teorie. Se devono essere realisti i filosofi, tanto più lo dobbiamo essere noi semplici cittadini. Se vogliamo fare delle previsioni ragionevoli sulla legge elettorale che il parlamento dovrà prima o poi partorire, non dobbiamo farci condizionare dalle disquisizioni sul sistema maggioritario e su quello proporzionale, sui sacri principi della governabilità e della rappresentanza. L’Italia non è la Gran Bretagna e nemmeno gli Stati uniti d’America. Diverse le storie, diverse le culture, diverse le indoli dei popoli. Col sistema elettorale proporzionale andò in frantumi la pallida liberal-democrazia prefascista. Col sistema proporzionale, l’Italia dell’ultimo dopoguerra si agganciò al carro delle più ricche democrazie del mondo. Col sistema parzialmente maggioritario, abbiamo avuto una serie di governi deboli nonostante l’emergere di figure scaltre, ambiziose e spregiudicate come Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Due figure che, nonostante i rovesci, hanno ancora una forte voce in capitolo. La ragionevolezza induce a prevedere che la nuova legge elettorale sarà proporzionale sia per la Camera che per il Senato, con l’inutile correttivo del premio in seggi alla lista che avrà ottenuto almeno l’impossibile 40 per cento dei voti validi e il modesto quorum richiesto ai partiti minori per accedere al parlamento. In pratica, l’estensione al Senato di ciò che è venuto fuori dall’opinione della Corte Costituzionale. Una opinione che conta più della legge democraticamente approvata. Nemmeno il Movimento 5 Stelle, cui la moda dei populismi gonfia le vele, può ragionevolmente sperare di avvicinarsi al 40 per cento. I grillini che lo sperano, ammesso che lo sperino, dovranno rassegnarsi a una lunga, ripetitiva e tediosa opposizione o a compromessi che li smonteranno di fronte a quei milioni di italiani che essi stanno infervorando. Chi vivrà vedrà.
I filosofi non possono fare a meno di ragionare con riferimento a principi. Se si ragiona di legge elettorale, i principi di riferimento sono quelli dei sistemi istituzionali in cui fare le elezioni ha il significato di far esprimere il popolo secondo la sua autentica volontà. Volontà che si sarà formata attraverso vie complesse e che ad un certo punto dovrà necessariamente manifestarsi assumendo infine la forma che la legge avrà reso possibile.
La forma storicamente migliore di esercizio della libera volontà popolare, da prendere a riferimento per i principi cui si ispira, è la democrazia rappresentativa, integrata magari con forme specifiche di democrazia diretta ma senza cedimenti alle pressioni che ne derivano, essendo lì annidati i germi distruttivi del sistema stesso.
E la legge elettorale che permette al popolo sovrano di esprimere al meglio i propri orientamenti in una compiuta democrazia rappresentativa non può non essere quella che si ispira al modello di sistema proporzionale puro. Tutti i correttivi, tutte le limitazioni, tutti gli sbarramenti, pure legittimi, sono da considerare oggettivi ostacoli alla libertà di espressione della volontà popolare in omaggio a criteri di garanzia artificiale delle posizioni di comando.
Detto ed acquisito ciò, non esiste, né può esistere, come dimostra l’esperienza, un sistema elettorale perfetto, compreso il proporzionale puro. Esistono sistemi elettorali che si adattano meglio o peggio alla storia e alle condizioni specifiche dei singoli paesi, fermo restando che trarre insegnamento dalla storia e dalle esperienze di altri è sempre segno di intelligenza. In Italia si è dimostrato senza possibilità di smentita che qualunque sistema si adotti non si potrà realizzare quello che per alcuni è stato e resta il sogno dell’assoluta stabilità.
In realtà è connessa all’esercizio stesso del potere la tendenza a fare da soli (uomo solo al comando, partito a vocazione maggioritaria, movimento senza alleanze del 40%, ecc. ecc.), ma si tratta di pie illusioni, deviazioni da una sana concezione e da un sano esercizio della democrazia, in specie in un Paese come l’Italia la cui identità (si legga ad esempio Walter Barberis, Il bisogno di patria) è proprio la diversità di tradizioni, di orientamenti politici ed esperienze, di uomini e culture.
Il che non vuol dire affatto rinuncia a cercare punti di convergenza e perseguire obiettivi comuni. Significa invece che a chi esercita funzioni pubbliche si richiede una forte preparazione, un rispetto profondo e una capacità di comprensione delle altrui posizioni. Insomma, una lungimiranza che sappia trasformare le mediazioni in passi o salti in avanti e non sia invece un esercizio di pure convenienze.
Una bella sfida anche per il popolo, che dovrà scegliere per il meglio, in idee e persone, organizzandosi con intelligenza a tal fine, e non delegare in modo pigro ad altri ciò che gli spetta. In buona sostanza, una legge elettorale rispondente ai canoni che ho appena delineato può esaltare l’esistenza del principio di responsabilità proprio nel popolo, senza il quale la democrazia muore.
In fondo, ciò che va sempre tenuto presente è che la qualità delle classi dirigenti è il rispecchiamento della qualità del popolo che le sceglie, ciò che vale anche quando non ci siano al momento le condizioni per scegliere in modo ottimale. Anche perché il modo ottimale non c’è, dipendendo il concetto di modo ottimale dagli orientamenti di chi difende i propri interessi e le proprie connesse convinzioni. La cosa importante è saperlo e operare comunque e sempre con spirito realmente democratico, che è questione di formazione e di etica, e non di costrizione in qualche gabbia.