Le tragiche conseguenze dell’accidia
di Pier Luigi Leoni
Non esiste il tempo cattivo, esistono solo vestiti inadeguati. Questa considerazione sembra banale e anche inutile di fronte al mare di sofferenza che l’umanità si procura, ma che anche si trova addosso per “iniquità del fato”. Basta pensare alle malattie genetiche, alla insufficiente alimentazione dei bambini che provoca morti e malattie, alle condizioni oggettive di miseria che non consentono una crescita e una vita degna dell’essere umano, nonché alle catastrofi naturali. Ora, se molte sofferenze sono dovute alla iniquità umana (sete di potere, egoismo, violenza, malvagità, sfruttamento) altre sembrano dovute alla sfortuna. Ma, a ben riflettere, non è proprio così. Malattie e catastrofi naturali sono in parte prevedibili ed evitabili coi mezzi che l’uomo ha scoperto finora. Perché allora tutte le malattie e tutte le catastrofi non potrebbero essere un domani previste ed evitate grazie al progresso della scienza? L’uomo ha fatto tanto per conoscere la natura, ma ha fatto tutto ciò che poteva e doveva fare? Tra i vizi capitali – oltre alla superbia, all’avarizia, alla lussuria, all’invidia, alla gola e all’ira – c’è l’accidia, cioè la pigrizia, l’indolenza, l’infingardaggine, la svogliatezza, l’abulia. Fino a qualche secolo fa la Chiesa cattolica includeva tra i vizi capitali la malinconia, cioè il non apprezzamento dei beni assegnati agli esseri umani dal Creatore, a cominciare dall’intelligenza e dalla libertà. Ecco, appunto, tutti i problemi si riducono al cattivo uso della libertà. Ma vi sarebbe libertà senza la possibilità del suo cattivo uso?
Ragionare di accidia da parte di tre anziani che da decenni si agitano per tentare di migliorare il loro mondo secondo le possibilità e le attitudini di ciascuno, spesso senza successo ma sempre con una gran voglia di esserci, è discutere comodamente del vizio di altri. È un’accusa di inutilità a quanti camminano nel mondo senza spostare neppure il sasso che hanno dinnanzi e che impedisce di procedere.
Fortunatamente l’umanità ha avuto e ha scienziati, artisti, lavoratori, operatori di bene che hanno cambiato l’umanità. Ogni anno di quelli che io ho vissuto si è sempre spostata più avanti la qualità della vita e domani sarà ancora migliore, le complessità troveranno soluzioni, gli uomini di oggi spianeranno la via agli uomini che verranno, con fasi alterne, ma sempre per il meglio.
La libertà di essere accidiosi è la garanzia per tutti, nelle diverse fasi della vita, di accettare questo straordinario dono di Dio e farne quello che si vuole o si può, anche niente.
L’accidioso è una delle macchiette che compongono l’allegra brigata di Fiorello nella sua trasmissione mattutina. Lo chiamano “ il depresso”, e alla domanda “come va” risponde “sopravvivo”. È l’accidioso, non è un malato di depressione, su cui non ci sarebbe da sorridere. È l’indifferente, che in quell’edicola, metafora della vita, sta sempre in un angolo. È coperto da una sciarpa che ne nasconde il volto, sopraffatto dalla musica, l’allegria, l’intelligenza delle battute, la vitalità. Come se non esistesse.
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
Non posso che essere d’accordo con Pier Luigi che i mali dell’umanità, non essendo tutti frutto dell’“iniquità del fato”, portano per una parte rilevante la responsabilità degli esseri umani. Infatti, se affermiamo, come peraltro è necessario, la necessaria libertà dell’uomo, allora non possiamo non ritenere con essa congiunta la responsabilità, sia personale che di destino comune. L’accidia è appunto la colpevole rinuncia all’esercizio delle responsabilità che necessariamente derivano dal dono o dalla conquista della libertà.
Che il godimento della libertà comporti dunque di per sé la possibilità di farne un cattivo uso è cosa evidente, altrimenti come potrebbe essere vera libertà? Insomma o c’è la libertà e con essa la responsabilità di esercitarla in un modo o in un altro ad esso anche opposto oppure si è nell’inerzia o nella pura necessità. Che senso avrebbe il nostro accapigliarci teorico e pratico se non sapessimo che ciò che facciamo o che non facciamo avendone la possibilità comporta benefici o malefici per noi stessi e per gli altri?
Però, detto questo, in realtà non abbiamo ancora detto molto, giacché tutto il problema della libertà e della connessa responsabilità è perché indirizziamo la nostra azione in un senso piuttosto che in un altro e perciò è anche sia fino a che punto siamo responsabili di quanto accade sia come possiamo essere sicuri di attribuire le responsabilità in modo giusto. Il che apre una congerie enorme di problemi che non possiamo evidentemente trattare qui. Tanto più se tiriamo in ballo le conquiste che storicamente hanno segnato l’esercizio dell’intelligenza umana, frutto il più delle volte di dure lotte contro consolidati interessi e pregiudizi.
Resta però il fatto che l’accidia, per chi ritiene che l’essere umano sia impensabile senza l’attributo della responsabilità, non a caso è stato considerato in ambito religioso un peccato e in ambito laico un comportamento che allontana dai doveri civici. Tanto più oggi che il mondo sembra gridarcelo come mai nella storia con possibilità per tutti o quasi di saperlo.
Il mio ragionare sul voto al referendum nato a fatica e già postumo
di Franco Raimondo Barbabella
Questo elzeviro sarà pubblicato quando l’esito del referendum istituzionale sarà già noto, ragion per cui risulterà solo una testimonianza di come ragionavo prima del voto senza che avessi alcun obiettivo se non quello di fare i conti con la mia coscienza.
Da molto tempo mi sono orientato ad usare la ragione critica per fare scelte consapevoli rispetto alle diverse opzioni, e lo farò anche stavolta. Usare la ragione critica significa anzitutto non accontentarsi di ciò che appare. In secondo luogo significa arrivare agli appuntamenti cercando di capire il senso e la portata delle scelte da compiere, evitando orientamenti pregiudiziali.
Ma la ragione critica non è un calcolo freddo, senza cuore e senz’anima. D’altronde il pensiero razionale che connota la filosofia fin dalle sue origini nasce dal thauma, parola greca che non indica solo ‘meraviglia’ ma anche ‘turbamento’, per cui è impossibile fare esercizio di ragione critica senza che entri in gioco il pathos, la passione.
Ed ecco allora il punto: la fredda ragione mi dice che la revisione costituzionale, su cui siamo chiamati a decidere con un si o con un no (una semplificazione solo apparentemente inevitabile), per qualche aspetto è da considerare necessaria e però per diversi altri deve essere giudicata o insufficiente o sbagliata; ancora, la fredda ragione mi dice che il modo in cui siamo stati portati all’appuntamento per responsabilità quasi di tutti è quanto di più lontano dal modello di un sano e produttivo confronto tra posizioni diverse sì ma tutte tese a generare processi di miglioramento; la fredda ragione mi dice anche che il clima da rissa rionale durato mesi e poi cresciuto fino a diventare un tormento (anche questo indice del fatto che il merito del referendum è diventato strumentale e che il senso vero è una spietata lotta per il potere frutto del leaderismo esasperato che si è ormai affermato nei partiti e nei gruppi particolari) ha sparso dappertutto una tale dose di veleni che sarà arduo per tutti smaltirli per governare con regole condivise.
Ed ecco però anche l’altro punto: la passione, che è comunque mista al pensiero razionale, mi fa reagire nella stessa maniera allo stillicidio delle esagerazioni e delle evidenti bugie delle due parti in campo (anche se hanno tonalità e portata diverse), che così nel mio animo si neutralizzano; nel contempo, e per logica conseguenza, sono sempre più diventati per me parametri di orientamento quelli di ordine più generale, che sono riassumibili con i termini ‘apertura’ e ‘chiusura’, per cui hanno un peso decisivo nello spingere il piatto della bilancia verso il basso tutte le posizioni che rappresentano esplicitamente o surrettiziamente il rinserrarsi delle menti e delle relazioni umane dentro i recinti delle false certezze (le piccole patrie, il culto pagano identitario, fino all’anti-scienza e al rifiuto della convivenza dei diversi).
Non deciderò dunque né in base ad appartenenze di schieramento (non saprei ritrovarmici se non in modo del tutto parziale, ciò che appunto nega una scelta di schieramento), né però per adesione a qualcuna delle ragioni particolari addotte dagli uni o dagli altri e neanche in base alla reazione istintiva di fastidio per affermazioni che abbiamo dovuto ascoltare e per atteggiamenti che abbiamo dovuto vedere in questo lungo periodo.
Deciderò, dopo aver letto e dopo aver ascoltato e gli uni e gli altri ma soprattutto me stesso. Deciderò alla Socrate, cioè “sceglierò il discorso che dopo un lungo
esame critico mi sia apparso il migliore”, ciò che, come ho detto, alla fine è una scelta tra ciò che tende ad aprire possibilità e ciò che al contrario le ferma e le chiude.
Oggi è giornata delicata per parlare di referendum, perché si conoscono i risultati e quindi siamo in pieno spargimento di rancori e improperi, da una parte e dall’altra. Io ho votato esattamente con il criterio socratico e ho scelto “il discorso che dopo un lungo esame critico mi sia apparso il migliore”, e alla fine è stata “una scelta tra ciò che tende ad aprire possibilità e ciò che al contrario le ferma e le chiude”.
Se anche tu hai fatto così non puoi che essere arrivato alla conclusione di votare SÍ, come me. Spero.
Se non fosse stato così, penserò che il metodo socratico lo hai utilizzato, ma le informazioni che hai utilizzato nel ragionamento o erano diverse dalle mie o ti hanno prodotto una conclusione sballata, tale che non tendono “ ad aprire possibilità” ma “al contrario le ferma e le chiude”.
Ma tant’è, gli anni e il carattere non mi permettono ormai di esagerare negli entusiasmi, né quando si vince né quando si perde, anzi, mi rimane sempre più facile trovare del buono anche in chi sbaglia.
L’opinione di Pier Luigi Leoni
Per quanto mi riguarda, se avrà vinto il NO, vorrà dire che mi troverò nella parte perdente. Tale pensiero non mi sconvolge perché sono abituato a rispettare tutte le opinioni, sia le mie sia quelle degli altri. Vorrà dire che la maggioranza degli Italiani si è affezionata a quella costituzione alla quale non sono mai riuscito ad affezionarmi. Un po’ perché sono di fede monarchica e sono convinto che le monarchie moderne (Regno Unito, Spagna, Belgio, Olanda, Danimarca, Svezia, Norvegia e Giappone) abbiano un quid che rifletta meglio la natura politica degli esseri umani. Un po’ perché la nostra costituzione repubblicana nasce da un compromesso ambiguo tra clericali, marxisti e massoni che costituisce da settant’anni la palla al piede del nostro Stato. Però sono vissuto e sopravvissuto per sei mesi nella Repubblica Sociale Italiana, per due anni nel Regno d’Italia e per settant’anni nella Repubblica Italiana. Il futuro non mi spaventa, sia che vinca il SÌ, sia che vinca il NO. Ormai devo pensare ad altro.