Donald Trump e la democrazia recitativa, quella dei nostri tempi
di Franco Raimondo Barbabella
Secondo una delle versioni di un famoso mito greco, gli dei incaricarono Epimeteo, fratello del titano Prometeo, di distribuire agli animali le facoltà naturali necessarie alla loro sopravvivenza: a chi la velocità, a chi le ali, a chi la forza, ecc. Arrivato all’uomo, Epimeteo si accorse di non averne più, e così Prometeo, impietosito della condizione dell’essere che lui stesso aveva creato plasmandolo dal fango, un essere nudo, scalzo, impaurito, gli donò il fuoco rubandolo a Vulcano che lo custodiva gelosamente, e con esso le tecnologie. La vendetta di Giove fu terribile: Prometeo fu incatenato ad una roccia ai confini del mondo e sottoposto al supplizio giornaliero dell’aquila che ne squartava ogni giorno il ventre per mangiarne in carne viva il fegato. Metafora dei rischi che corre chi fa del bene sfidando il potere.
L’uomo ebbe dunque in dono “la sapienza tecnica necessaria per la vita ma non la sapienza civile e politica”. Una vera condanna a cercare di capire ogni volta chi è e a darsi risposte sempre provvisorie. Una condanna che, anch’essa emblematicamente, ha segnato la storia dell’umanità fino al tempo che viviamo, se è vero come è vero che, in difetto di sapienza politica e civile, mentre siamo sempre più capaci sul piano tecnico-scientifico, non riusciamo con tutta evidenza ad essere più umani. In altre parole, mentre miglioriamo continuamente in termini di conoscenza teorica e di abilità pratica, non riusciamo a farlo in termini di cambiamento interiore e di comportamenti conseguenti. Edoardo Boncinelli ne conclude che “per quanto riguarda i comportamenti, la storia insegna una sola cosa, e cioè che non insegna niente”.
È un’affermazione radicale, ma certo ci sono buone ragioni per pensarla così, tanta è la “creatività” del mondo, talché più spesso di quanto non si pensi o non si voglia accade proprio ciò che non era previsto potesse accadere. Lo dimostra da ultimo l’elezione di Donald Trump a 45.mo Presidente degli Stati Uniti d’America, elezione ritenuta improbabile se non impossibile, finché in effetti non è avvenuta, da quasi tutti coloro che per mestiere se ne sono occupati per mesi e mesi: analisti, sociologi, sondaggisti, giornalisti, quelli che per la loro ottusità sdraiata sul sistema di potere il regista Michael Moore ha definito semplicemente “tromboni”, “gente da licenziare subito”.
Eppure non è vero che la conoscenza della storia non conta per poter interpretare sensatamente la realtà che viviamo. Ce ne offre un esempio lampante Emilio Gentile, storico di fama mondiale, con il suo ultimo libro “Il capo e la folla”, la cui sintesi è riportata nella prima di copertina con il sottotitolo “La genesi della democrazia recitativa”, che è la forma di democrazia che si differenzia in modo radicale dalla democrazia rappresentativa, essendo questa “la migliore tra le peggiori” e quella “la peggiore tra le peggiori”. Essa infatti è “una raffinata forma di demagogia”, fondata sul protagonismo assoluto del capo, detentore del potere esclusivo, con il popolo ridotto a folla, “moltitudine votante, plaudente e perfino acclamante”.
L’esemplificazione di Gentile della trasformazione progressiva novecentesca della democrazia nella sua forma recitativa si ferma a De Gaulle e a Kennedy, ma noi possiamo vederci ben rispecchiata anche buona parte dei capi politici italiani, certamente Berlusconi e Renzi, con estensione fino a Grillo, Salvini e capi e capetti che fanno loro da contorno. Non c’è dubbio però che ora l’esempio più completo della democrazia recitativa, si potrebbe dire la sua icona perfetta, è Donald Trump, lui il capo indiscusso, il popolo che lo ha votato la folla acclamante.
È vera democrazia? È come la manzoniana “Fu vera gloria?”, per cui non possiamo che rispondere come si rispose Manzoni: “Ai posteri l’ardua sentenza”. In realtà è domanda mal posta, perché la democrazia non può mai essere vera, nel senso assoluto che è sotteso alla domanda. La democrazia può esprimersi solo in forme migliori o peggiori, non in forme perfette, e io sono d’accordo con Emilio Gentile che quella rappresentativa è la forma migliore proprio perché non ha la pretesa di essere la migliore in assoluto, cioè può andare avanti o indietro, mentre la democrazia recitativa va avanti per tornare sempre indietro. Vedremo che cosa farà Donald Trump ora che ha il controllo del potere senza bilanciamenti, cioè Presidenza e controllo di Camera e Senato, ma il modo in cui è avvenuta la sua elezione appartiene a pieno titolo, mi pare di potere dire, alle logiche della democrazia recitativa.
Egli ha saputo infatti interpretare bisogni reali e dare voce a sentimenti e tendenze di vasti strati della popolazione, soprattutto al risentimento contro il sistema di potere dei ceti medi declassati, impoveriti, sfiduciati e impauriti da un futuro del tutto incerto. Perciò tutto normale, con garanzie di libertà e secondo le regole stabilite, compreso il fatto che il ricco e potente che da solo sfida tutti sia stato il modello vincente e che il popolo si sia adattato al ruolo di folla acclamante e votante.
Ma attenzione, una cosa è vincere le elezioni, peraltro con un sistema che filtra il voto popolare attraverso grandi elettori stato per stato, altra cosa è governare. Vale in America e vale in Italia. Il popolo che si fa folla fa presto ad acclamare, ma fa anche presto a fischiare e a liquidare senza pietà. Le intermediazioni sono saltate e i capi si beano del successo. Ma il successo può durare lo spazio di un’elezione, mentre l’impoverimento dei ceti medi e l’irrequietudine dei giovani restano e senza risposte bruciano. Non abbiamo la palla di vetro, non possiamo che aspettare gli sviluppi. Però il pensiero andrebbe sempre esercitato e, ammettendo anche che la storia non insegna, la realtà andrebbe presa comunque sul serio.
Un miliardario può anche permettersi di giocarsi ottocento milioni di dollari per togliersi la soddisfazione di essere non più il marito di Ivana Trump e dispensatore di colossali fuoriuscite in occasione di divorzi, non più un miliardario in un paese di miliardari, ma il presidente degli USA. Non avrei acquistato da Trump la classica auto usata, come la maggioranza degli americani, ma non credo che un personaggio del tutto inesperto di amministrazione pubblica, in una democrazia solida e articolata, possa realizzare tutte le assurdità che ha raccontato in campagna elettorale. La maggioranza di deputati e senatori repubblicani non sono un’accolita di misogeni e razzisti, non sono tutti del KKK, e il potere di fare è nelle loro mani. D’altra parte noi abbiamo avuto vent’anni di Berlusconi e non possiamo fare tanto gli schifiltosi perché gli USA hanno eletto uno come Trump, uno che promette ai poveri che toglierà loro l’assistenza sanitaria e che lo votano comunque, un Paperone che interpreta le istanze degli operai incavolati e degli anziani mediamente benestanti delusi e impauriti. Anche Bossi gridava alla secessione ed era alleato dei nazionalisti italiani di AN.
È la democrazia, bambola! Talmente bella che può reggere anche contraddizioni simili e ancora di più.
Ma non bisogna esagerare.
L’opinione di Pier Luigi Leoni Leoni
I miti greci fanno ancora comodo per impostare un ragionamento sui problemi che ancora attanagliano gli esseri umani. Del resto, come ha detto qualcuno, il mito è più vero della storia, perché la storia racconta ciò che è accaduto una volta, invece il mito racconta ciò che accade ogni giorno. Ma il mito di Prometeo, richiamato da Franco, mi ha fatto venire in mente i saggi versi che Giovanni Prati ha messo in bocca a Igea, la dea greca della salute e dell’igiene, figlia di Asclepio: «Salvate, oimè! le membra / dal tarlo del pensiero! / a voi daccanto è il vero / più che talor non sembra. / L’uom che lo chiese altrove / dannato è sul macigno, / e lo sparvier maligno / fa le vendette a Giove. / In voi, terrestri, mesce / vario vigor Natura; / ma chi non tien misura, / alla gran madre incresce. / Destrier che l’ira invade, / fatto demente al corso, / sui piè barcolla, il morso / bagna di sangue… e cade. / Perché affrettar l’arrivo / della giornata negra? / Ne’ baci miei t’allegra, / o brevemente vivo! / Progenie impoverita, / che cerchi un ben lontano, / nella mia rosea mano, / è il nappo della vita.» Il “Canto d’Igea”, capolavoro di Giovanni Prati, credo ci sia utile per non preoccuparci troppo della elezione di Donald Trump. Lasciamo il tarlo del pensiero ai sondaggisti americani che non riusciranno mai a capire perché hanno sbagliato i sondaggi. E permettetemi, visto che siamo in confidenza, di citare una vignetta di Walter Leoni, che mi sembra abbastanza sintetica, nella quale un tizio esclama: «Prima la brexit… Ora la vittoria di Trump! …Le democrazie occidentali hanno fallito: la gente ha preso a votare come cacchio le pare!»
Quindi, a proposito delle elezioni americane, consiglierei “calma e gesso”, secondo l’uso dei giocatori di biliardo che indugiano nel fregare il gessetto sulla punta della stecca, per prendere tempo e riflettere sul prossimo tiro.
Quanto alla democrazia recitativa, m’inchino davanti al brillante saggio di Emilio Gentile, che, in sostanza, ci fa riflettere come anche il potere democratico sia sensibile al demone della recitazione. Come lo era quello dei faraoni, che passavano la vita a farsi costruire tombe sontuose, quello degli imperatori romani, che facevano finta di essere divini e così via fino alle adunate dei dittatori moderni. Ma non prevedo la fine della democrazia rappresentativa. La saggezza popolare non verrà mai meno, per il semplice fatto che non c’è mai stata.
Il piano B della sinistra che dovrebbe riparare i guasti del neoliberismo
di Pier Luigi Leoni
È convinzione generale che l’intera umanità stia attraversando una crisi epocale determinata dall’inadeguatezza delle dottrine economiche ad affrontare e gestire la cosiddetta globalizzazione. L’interdipendenza crescente tra le culture umane e i sistemi economici di tutto il pianeta genera problemi enormi. Il cosiddetto turbocapitalismo è responsabile di scenari inquietanti e giustamente schifato sia dalla destra che dalla sinistra. La destra, quella non appiattita sul neo-liberalismo, si trastulla col localismo, i valori identitari e romanticherie del genere che fanno poca presa su popolazioni stressate dalla stagnazione economica e costrette a sperare in una ripresa dello sviluppo. Quanto alla sinistra, mi sono rassegnato a non capire ciò che vuole; e il mio sconforto (faccio per dire, perché la crisi della sinistra non rappresenta il massimo dei miei problemi) è stato aggravato da un articolo di Stefano Fassina sul Huffington Post intitolato “Trump è per il neo-liberalismo quel che la caduta del Muro fu per il socialismo reale”. Invito a leggere quell’articolo nel quale si afferma che il neo-liberalismo è in crisi (ma questo l’avevamo capito da un pezzo) e che le sinistre europee devono smetterla di accodarsi ai neo-liberalisti e approntare un “piano B”. Che cosa sia questo piano B non l’ho capito, anche perché ancora non c’è. Non mi resta che consolarmi con la lettura dei libri di Adriano Olivetti, la cui morte prematura è stata una grande disgrazia per l’Italia, per l’Europa e per il mondo. Olivetti sapeva ciò che diceva e ciò che scriveva, ma soprattutto sapeva ciò che faceva. Con lui se ne andò la speranza della terza via comunitaria e siamo rimasti in balia di una destra e di una sinistra con le idee confuse e, da qualche tempo, di un movimento che eccita un italiano su tre e fa paura agli altri due, che finiranno col coalizzarsi per non soccombere.
Intelligente e dissacrante l’opinione di Leoni sul neo-liberalismo e sulla confusione di una sinistra che lo combatte e che vorrebbe essere sinistra, ma non sa bene con quali contenuti riempire questo ritornello. Bella la figura di Olivetti imprenditore intelligente e visionario, un riferimento politico, economico, etico trascurato da tutti. Io non trovo più riferimenti politici che interpretino la mia sensibilità e allora ho costruito un sistema facile per darmi pensieri che siano rispondenti alla mia coscienza e alla mia intelligenza: pongo da una parte quanto “grida” papa Francesco ogni giorno e sosterrò chi si accosta di più ai suoi quotidiani accorati appelli ai potenti del mondo e agli uomini di buona volontà.
Papa Francesco, altro che Fassina o Salvini o Toti, Trump o Clinton.
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
Ho svoto con diligenza il compito assegnatomi da Pier Luigi e ho letto da cima a fondo l’articolo di Stefano Fassina sull’Huffington Post. Non è male, anzi, dice con coraggio delle verità, amare, sui limiti della sinistra, europea e mondiale, e in particolare di quella italiana di cui lui notoriamente ha fatto e fa parte.
Che la globalizzazione sia entrata in una fase di crisi i cui sbocchi non sono prevedibili è ormai luogo comune, seppure permanga un’alea di fitta ambiguità intorno a questo termine, che tutti usano ma senza mai precisare la faccia o le facce a cui si riferiscono quando ne parlano. Perché è semplicemente lapalissiano che per globalizzazione si intende un fenomeno molto complesso fatto di aspetti diversi, alcuni dei quali mostrano limiti e contraddizioni mentre altri non sembrano in analoga sofferenza.
Di questa crisi, riferita appunto agli aspetti economici, ha trattato in modo approfondito nei giorni scorsi il rapporto della Commissione europea sulle previsioni dell’andamento dell’Eurozona nei prossimi due anni. Rapporto interessante, che mostra come siano ormai molteplici le spinte contro la globalizzazione che riducono sia il commercio internazionale che la dinamica economica complessiva mondiale. Spinte che derivano sia dalla preoccupazione della perdita di sovranità dovuta agli accordi internazionali, sia agli effetti che la globalizzazione ha avuto in termini di disuguaglianze, a loro volta dovuti principalmente a tre fattori che tutti insieme hanno provocato un abbassamento dei salari delle occupazioni meno qualificate e dei redditi dei ceti medi: l’innovazione tecnologica, lo spostamento di molte produzioni e attività all’estero da parte della multinazionali, l’immigrazione.
Fassina dunque non dice una scemenza quando afferma che “la famiglia socialista europea è stata orgogliosamente responsabile del ‘mercato interno’ senza standard sociali e ambientali e poi della moneta unica senza Stato: errori politici di portata storica, fattori di sistematica svalutazione del lavoro, accentuati dal disinvolto ‘allargamento’ a 28 dell’Unione”, e che “i popoli delle periferie economiche, sociali, culturali, working class e classi medie, attribuiscono, giustamente, alla sinistra storica la corresponsabilità del loro declino e impoverimento”.
Quando però poi passa ad invocare “un ‘piano B’ per superare, in via cooperativa e governata, senza uscite unilaterali, l’ordine istituzionale, economico e monetario vigente nell’eurozona” è vero che nella sostanza non chiarisce che cosa vuol dire, ma alcune cose le fa capire, perché se ne esce con le seguenti affermazioni come al solito apodittiche: “Superare l’euro per rivitalizzare, nella misura possibile, la sovranità democratica a scala nazionale. Così, rilegittimare lo Stato come strumento di difesa del lavoro e rilanciare l’Unione europea come cooperazione tra Stati”. Come si vede è la negazione di sempre dell’idea federalista, rispunta l’antica ostilità comunista verso l’Unione europea e torna a galla la cultura della trincea, la difesa di ciò che resta di Fort Apache. Ancora una volta mancanza di coraggio intellettuale e visione perdente.
Rifulge al confronto, sono d’accordo, la figura di Adriano Olivetti: la sua mente aperta, il suo coraggio di innovatore (in cui ha posto tra l’altro la sua passione per l’architettura razionalista, per la sociologia e la psicologia e in generale per l’innovazione scientifica e tecnologica), la sua visione internazionale, la sua idea di impresa come unione di solidarietà e profitto, la sua concezione della società come comunità in cui si realizzano insieme le idee socialiste e quelle liberali (era questa l’idea che ispirava “Movimento Comunità”). Niente di più lontano dunque dalla cultura e dalla mentalità di Stefano Fassina, e non solo perché quelli di Adriano Olivetti erano altri tempi. Non c’è da meravigliarsene se si pensa sia alla sua personalità che agli ambienti che frequentava. Un esempio per tutti: la vicinanza ai circoli intellettuali milanesi e a Giustizia e Libertà, e la partecipazione a importanti azioni partigiane (fu lui che guidò l’auto usata per la fuga di Filippo Turati e Sandro Pertini verso la Francia).
Ci mancano oggi esempi di uomini così lucidi e così capaci di tradurre le idee lungimiranti in azioni. Noi, caro Pier, comunque uno sforzo per non farlo dimenticare lo abbiamo fatto ispirandoci a lui con la fondazione di CoM, appunto “Comunità in Movimento”. Forse però sarebbe il caso di onorarne la memoria in modo più esplicito con un convegno a lui dedicato. Ci sono almeno due ricorrenze che ce ne possono dare occasione: tra poco più di un anno correranno settant’anni (1948) dalla fondazione di “Movimento Comunità” e sessant’anni (1958) dall’elezione di Adriano Olivetti alla Camera dei deputati in rappresentanza di “Comunità”.