Le ambasce di Orvieto e la lezione della storia
di Pier Luigi Leoni
Ho sempre pensato che la rupe orvietana, naturalmente munita, ma separata dal restante territorio e circoscritta, sia stata la benedizione e la maledizione della città. Benedizione, quando consentì alla città etrusca di fiorire proteggendo il santuario nazionale di quella civiltà. Maledizione, quando i Romani la individuarono come ostacolo alla loro espansione e la spopolarono.
Benedizione, quando vi si trovò rifugio dalle invasioni barbariche e si avviò il ripopolamento che culminò con lo splendore e la potenza del libero comune. Maledizione quando la peste nera del 1348 sterminò gli abitanti della rupe sovraffollata. Benedizione quando, città pontificia valorizzata dai Papi del Millecinquecento, fu in gran parte ricostruita secondo i canoni rinascimentali.
Adesso Orvieto, che, nonostante le lagne, è una città relativamente benestante, è in ambasce perché non riesce a sfruttare il grande patrimonio immobiliare di cui la storia l’ha dotata. Riesce a tenere bene il Duomo, con l’aiuto fondamentale e decisivo dello Stato. Riesce a sfruttare il Pozzo di San Patrizio, almeno fino a quando il continuo afflusso dei visitatori non l’avrà consumato. Ma lascia languire da un decennio l’ex caserma Piave e l’ex ospedale. Soprattutto non ha una strategia di ampio respiro, mentre sconfinate sono le sue ambizioni. Nella recente conferenza organizzata dall’associazione “Comunità in movimento”, in cui si discuteva di strategia per la città, è ancora emerso che Orvieto soffre di inadeguatezza della classe dirigente.
Classe dirigente in senso lato, che include i politici, i banchieri e gli imprenditori di ogni settore. La diagnosi è corretta, anzi scontata, ma la terapia è più difficile. Allora, se ho cominciato dalla storia, concludo con la storia per ricordare che le glorie di Orvieto si sono sempre fondate sulla valorizzazione delle intelligenti locali, ma con ampio e rispettoso ricorso alle intelligenze non orvietane. Per i forestieri, basta ricordarne alcuni come Lorenzo Maitani, Luca Signorelli e Antonio da Sangallo il Giovane. Per gli orvietani, basta ricordare Ermanno Monaldeschi, che pose fine alle contese che dilaniavano Orvieto nella fase finale del libero comune e realizzò un quantità impressionante di opere pubbliche, soprattutto stradali, e l’architetto, scultore e impresario Ippolito Scalza, che dette uno stile eccelso alla Orvieto rinascimentale. Credo che servirebbe un po’ di umiltà per dimostrarsi degni della rupe come benedizione. A vedersela solo tra orvietani si possono sfogare le frustrazioni con una specie di terapia di gruppo, ma non si va avanti.
Commento di Franco Raimondo Barbabella
Il particolarismo, pur essendo un male endemico diversamente declinato nelle differenti realtà italiane, non si è sempre e necessariamente tradotto in chiusura mentale e in sospetto o ostilità verso tutto ciò che è esterno. È accaduto anche ad Orvieto, come a tante altre città. Certo Orvieto è città rupestre “alta e strana”, e qui tutto si esaspera. Peraltro le lotte di fazione medievali hanno lasciato tracce così profonde che, volendo, se ne potrebbero leggere tracce anche nelle lotte politiche del secondo novecento. Dunque qui tutto si esaspera, ma nonostante ciò non sempre il carattere prevalente è stato la chiusura delle classi dirigenti verso la diversità.
L’orientamento riscontrabile è dipeso, com’è naturale, sia dalle contingenze storiche che dalla qualità dei gruppi di comando. Così anche nella storia recente, e non solo nel lontano passato, si può registrare la valorizzazione sia delle esperienze e delle intelligenze locali che di quelle esterne. Il fatto grave è che la scelta spesso è dipesa non tanto dal valore delle persone quanto dalla cerchia di appartenenza e dagli interessi in gioco. Non era affatto raro che così fosse anche nel passato, ma nella storia recente è accaduto ben più di una volta.
Quale è però il problema di oggi? È la contraddizione palese tra la necessità di stare nel mondo che si muove vorticosamente, che richiede il possesso di certe caratteristiche culturali e di personalità delle classi dirigenti, e la palese ostilità dei gruppi di comando nei confronti di chi, interno o esterno alla città, dimostri originalità di pensiero e di proposta e indipendenza di giudizio. Non se ne uscirà facilmente, ma è chiaro che oggi pensare di risolvere i problemi senza avvalersi delle competenze giuste dovunque si trovino è pura illusione. Bisogna rompere le chiusure, che sono un mix di povertà culturale e di interessi. Però per farlo ci vuole lucidità, coraggio, continuità d’azione, e però anche una bella quantità di persone che ci credono. Speriamo bene. “Comunità in movimento” con l’iniziativa sull’ex Caserma Piave ha dato il via ad una nuova possibilità.
Nutrire la speranza
di Franco Raimondo Barbabella
Concludevo il mio elzeviro della scorsa settimana dicendo che la reazione alla società del rumore fondata sull’etica del silenzio e sull’esercizio del pensiero critico sembra oggi solo una flebile speranza. E in effetti ogni giorno le notizie di ciò che accade tendono a rafforzare questa che da sensazione diventa sempre più certezza. Non starò qui a fare l’elenco di tali notizie, che esprimono lo stato di fatto in quasi tutti i campi della vita, pubblica e privata. Però su due di essi mi sembra opportuno soffermarsi per un attimo, quello dell’informazione e quello dell’educazione.
Il sistema dell’informazione, si sa, è l’anima della democrazia, ed è inutile sottovalutare la sua importanza per l’orientamento dell’opinione pubblica. Ciò che colpisce oggi anche un osservatore poco attento è la propensione a sparare la notizia, a far colpo, senza preoccuparsi troppo né della realtà né delle conseguenze. Inoltre la parola d’ordine è “sdoganare”, dal turpiloquio al disgustoso all’orrido. Va tutto bene purché sia esagerato, iperbolico, e sufficientemente irrazionale. Analisi critica? Per carità, troppo noiosa. Si dice: poiché l’informazione è merce, si dà quello che richiede il mercato; il pubblico vuole questo perché questo fa vendere, e dunque questo si dà. Poi gli stessi si lamentano quando gli capita quello stesso qualcosa che hanno denunciato da qualche parte.
Il sistema scolastico non so se si può dire che è al collasso, ma certamente è un puffetto sulla guancia dire che è in crisi. E in questa occasione non mi riferisco all’incredibile situazione di inizio di questo nuovo anno scolastico, per cui alla fine di ottobre non c’è ancora un organico stabile e intere classi non fanno lezione regolarmente. Mi riferisco piuttosto al fatto che nessuno sa quale sia la politica culturale/educativa della nazione. Si, politica culturale/educativa, perché un popolo non può essere tale e non può avere fiducia in se stesso se le sue coordinate culturali ed educative non sono riconoscibili. La domanda è: che tipo di cittadino stiamo formando? Se tu fai questa domanda ognuno ti risponderà a modo suo. Anche e soprattutto la gente di scuola. Perciò tutto è possibile, cosicché accanto a persone in gamba come dappertutto puoi trovare dirigenti che non sanno che cosa vuol dire questo termine o docenti che sembrano piombati giù da un altro mondo e perfino una docente di inglese che di pomeriggio-sera sui social spara scemenze violente ultrarazziste e di mattina va in classe ad educare “i suoi ragazzi”.
Due ambiti dunque fondamentali per la tenuta e la vitalità del sistema democratico della nazione che però sembrano orientati essenzialmente alla loro propria sopravvivenza senza alcun riguardo al futuro della collettività. Anzi, sembra uscito dall’orizzonte proprio il concetto di collettività, che è fatta di individui responsabili di sé e degli altri, e dunque bisognosi di percepire tutti i giorni che ognuno da solo è semplicemente tutto ma anche niente. Ma appunto la direzione sembra quella opposta.
Pier Luigi nel suo commento mi diceva che ci si salva con l’amore e non con il pensiero critico, che non risolve né il problema della sofferenza né quello della morte. Ricordo a Pier Luigi che il pensiero critico è una forma, credo tra le più alte, di amore per il prossimo, perché è in radicale opposizione alla società del rumore, spinge al ragionamento documentato, al senso di responsabilità personale e al rispetto della dignità altrui. La vittoria sulla sofferenza e sulla morte avviene solo nel passaggio ad altra vita, per chi ha il dono della fede. Nella vita che è data agli esseri umani conta molto attenuare le sofferenze e i timori che si trasformano in tremore. Educare è fondamentale. La sicurezza nasce dalla fiducia e dunque dalla speranza. Ma la speranza va nutrita, anche se i segnali di fiducia sono deboli. Ci vuole preparazione, animo forte, senso di responsabilità. Non sono regali, si richiede sforzo, amore, dignità. Io credo che questo sia il compito di tutti coloro che hanno, pur nelle condizioni di oggi, anzi a maggior ragione proprio per le condizioni di oggi, il senso della cittadinanza.
Commento di Pier Luigi Leoni
«La vittoria sulla sofferenza e sulla morte avviene solo nel passaggio ad altra vita, per chi ha il dono della fede. Nella vita che è data agli esseri umani conta molto attenuare le sofferenze e i timori che si trasformano in tremore». Nelle parole di Franco sento l’eco dell’utilitarismo filosofico (J. Bentham: “il bene è la maggior felicità del maggior numero”) e della teologia agostiniana (Dio arbitrariamente destina pochi esseri umani alla beatitudine eterna). Ma la fede come dono da parte di un Dio insensibile al dolore del mondo, con buona pace del pur buono e geniale Sant’Agostino, non è quella di cui parla Gesù nei Vangeli. Sul concetto di “dono” si è elaborata una teologia ambigua e poco evangelica.
Il Dio di Gesù, che è Padre amorevole, non può non aver destinato tutti gli esseri umani alla beatitudine. E la beatitudine è iscritta nel cuore (diciamo pure l’inconscio) dell’essere umano e affiora nei momenti di felicità, o più chiaramente nelle estasi dei mistici di tutte le religioni. È desiderata particolarmente quando muore qualcuno che ci è molto caro, quando siamo gravemente ammalati e quando sentiamo che il nostro corpo s’avvia a concludere la sua vita biologica.
Uso le parole di Edhit Stein: «Gioia senza fine, amore senza confini, vita intensissima senza stanchezza, azione piena di energia che è, nello stesso tempo, quiete perfetta e rilassamento da ogni tensione: questo è l’eterna beatitudine; questo è l’essere cui aspira l’uomo nella sua esistenza». Aggiungerei che alla beatitudine è funzionale la sofferenza, ma questo è un discorso che non so riassumere in poche righe. L’insensibilità a questa vocazione, la negazione di questo destino, mi sembra alla base dell’edonismo dilagante. Certo, è preferibile l’attuale decadenza a ciò che hanno combinato i grandi ateisti del cosiddetto secolo breve: in primis Hitler, Stalin, Mao Zedong, Pol Pot e Mussolini. Ma penso che non se ne esca con la sola forza della volontà, ma valorizzando quell’amore per il prossimo che in fondo sentono anche gli atei quando riconoscono il valore della fraternità umana, sebbene avulso da una comune Paternità.