È imprudente cercare di essere più intelligenti di San Paolo
di Pier Luigi Leoni
Saulo di Tarso, ebreo di cultura ellenistica, cittadino romano che aveva adottato, per assonanza, il nome greco-latino di Paolo, non aveva conosciuto personalmente Gesù, ma frequentava molti dei discepoli che gli erano stati a fianco. È inevitabile pensare che, da uomo colto e di eccezionale intelligenza, abbia saputo ottenere da quei rozzi amici di Gesù molte informazioni e le abbia sapute valutare.
Nel brano più famoso delle sue lettere, dettate in un greco molto complicato, ma a tratti bellissimo, eleva il celebre “inno all’amore” che comincia così: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’amore, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna”.
In un passo che segue nella stessa lettera ai Corinti, Paolo afferma: “Ora vediamo come in uno specchio, in maniera oscura, ma allora vedremo in modo chiaro, faccia a faccia; adesso conosco soltanto in modo imperfetto, allora invece conoscerò come sono conosciuto”. Va tenuto conto che gli specchi comunemente usati ai tempi di San Paolo erano opachi e deformanti. Ma la frase, genialmente illuminante, viene da sempre disattesa sia dai teologi e dai visionari religiosi, che straparlano dell’aldilà come se lo vedessero, sia da tutti coloro che ci descrivono con sicurezza il mondo com’è e ci spiegano come dovrebbe essere.
Così qualche giorno fa mi è capitato di leggere questo brano di Remo Bodei: “La stanchezza per il sangue versato [nelle cosiddette guerre di religione del Cinquecento e del Seicento] ha provocato un salutare passo indietro dei valori ultimi – assoluti, non negoziabili e, se è il caso, da imporre con la forza – ai valori penultimi, su cui fondare gli Stati. La democrazia è relativistica perché ammette più fedi e più verità e ha proprio il dubbio come sua specifica virtù, ma vi è in essa qualcosa che non è relativistico: è la compatibilità interna tra i valori, garanzia di convivenza di tutti in uno spazio pubblico e neutro, sempre minacciato da ritorni di fiamma di intolleranza e prepotenza”. Complimenti! Nello specchio opaco c’è uno spazio più nitido di un moderno cristallo spalmato di mercurio. Abbiamo scoperto il valore assoluto, vale a dire la compatibilità interna dei valori nella società democratica. Fino a quando qualche bomba messa qua e là da chi crede ciecamente nei propri valori “ultimi” non rompe lo specchio.
Commento di Franco Raimondo Barbabella
Pier Luigi ama cercare i punti deboli di chi argomenta le ragioni della democrazia e delle conquiste della modernità. Talvolta gli capita di coglierne qualcuno, anche perché, com’è noto, la democrazia non è un sistema perfetto ma solo il migliore tra quelli finora sperimentati. Non questa volta, però, come dirò di seguito. Dove sta la ragione di essere quello democratico il sistema migliore, ma solo il migliore, senza pretesa di perfezione? Sta nella sua riformabilità, ciò che è precluso ad esempio ai sistemi totalitari, che alla democrazia appunto radicalmente si contrappongono. E la sua riformabilità dipende proprio dall’essere per essa fondante la compatibilità interna dei valori in base al principio che le differenze fanno ricchezza.
È il frutto del faticoso cammino iniziato con l’articolazione della religione cristiana in prospettive diverse per la salvezza, tradottesi in feroci contese dottrinarie e in sanguinosi conflitti, e finalmente conclusesi poi con l’affermazione dell’idea di tolleranza e appunto di compatibilità delle idee e delle fedi diverse. Io penso che questa sia stata una delle più importanti conquiste, non solo dell’Europa e dell’Occidente, ma dell’intero mondo umano, una di quelle acquisizioni culturali senza le quali non sarebbe più possibile oggi immaginare società definibili come civili.
La democrazia non è dunque il regno della santità, è invece il regno delle idee diverse, degli interessi contrapposti e del conflitto, ma ha le regole perché non si giunga mai alla disgregazione. Siamo dunque nel mondo del relativo, che permette solo di ricercare il meglio. L’assoluto non abita qui. Ed ecco allora la differenza tra la dimensione religiosa e quella civile della democrazia: la prima guarda ai valori ultimi, la seconda ai valori penultimi, quelli che fondano le istituzioni civili, che mutano ed evolvono essendo soggetti alla dinamica delle idee, delle passioni e degli interessi. È il mondo umano, che non è assoluto, per definizione.
Il fatto che da qualche parte del mondo, all’interno di fedi religiose, ci sia chi vuole imporre il proprio credo con le bombe, non fa altro che avvalorare la convinzione che lo stato laico è una conquista e che la separazione dei valori ultimi da quelli penultimi è un grande vantaggio per l’umanità. Con la conseguenza che tale conquista va difesa: come ha detto Popper, con gli intolleranti è necessario essere intolleranti. Se poi si vuole un’immagine brutalmente esemplificativa di che cosa succede ancora oggi quando i valori ultimi non sono distinti da quelli penultimi e valgono perciò come dettami assoluti, si getti uno sguardo in giro e non sarà difficile incontrare la Siria.
Ma tutto questo Pier Luigi lo sa. Penso che sia stato tentato più che dal gusto di dare addosso a Remo Bodei, valente storico delle idee, e indirettamente a me, semplice stimolatore di riflessioni, dalla conoscenza dei testi di San Paolo e dall’amore per il suo apporto dottrinario.
Commento di Dante Freddi
La fede di san Paolo nel mondo che verrà, in cui tutto sarà chiaro, e di contro il dubbio sulla visione del mondo terreno, opaco come uno specchio, ci dovrebbero aiutare a togliere dal nostro vocabolario quei continui refrain con cui molti intercalano l’espressione dei loro pensieri, come assoluto e assolutamente, che segnalano Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’amore, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna una forma mentis in cui non c’è spazio davvero per la convinzione che è il dubbio che ci porta alla conoscenza. L’idea che il relativismo sia annullato dalla “compatibilità interna dei valori” e si riaffermi un principio assoluto che garantisce la convivenza è bislacca e si scontra con la tragicità della lotta quotidiana tra gli uomini. “”. Soltanto la caritas, l’amore, in veritate, nella grazia della fede in Dio, possono permetterci di affrontare il difficile rapporto con gli altri che abitano questo mondo e rendere possibile condividere valori e modelli di comportamento che consentano la vita insieme.
Scuola 2. La scuola così com’è non funziona. È tempo di una riforma generale, non solo di impalcatura istituzionale ma intellettuale ed etica.
di Franco Raimondo Barbabella
Continuo la riflessione sul futuro della scuola. Avevo iniziato la settimana scorsa agganciando due dibattiti paralleli ma convergenti sulla necessità di battere il pessimismo culturale originato dalla svalutazione delle conquiste ideali e pratiche della modernità. E vedevo nella centralità del pensiero critico la scelta da compiere per dotare le nuove generazioni degli strumenti intellettuali e delle capacità relazionali per vivere responsabilmente nella società globalizzata e competitiva.
Il pensiero non detto, e che ora appunto rendo esplicito, era che nella scuola italiana sono più evidenti che in altri ambiti le conseguenze del pessimismo culturale, in particolare la principale, lo spirito rinunciatario che segna da tempo il clima italiano, vieppiù aggravatosi con l’avanzare delle spinte di innovazione che accompagnano i processi di globalizzazione e fanno emergere nuovi soggetti con cui competere.
La scuola annaspa sotto la spinta spesso confusa di domande di prestazioni alle quali non sa e non può rispondere perché le innovazioni non solo non sono vere, coerenti e sistematiche, ma si vorrebbe farle transitare in modo indolore in un corpo anchilosato da problemi strutturali sul piano della gestione del personale come su quello del curricolo e su quello dell’organizzazione, ciò che indica l’assenza sia di una visione adeguata all’oggi della missione istituzionale che di una politica coerente che la attui. Naturalmente ci sono le eccezioni, che però sono individuali e territorialmente puntiformi, ciò che sottolinea, più che i meriti particolari, l’assenza di una cultura di sistema.
Un accenno molto puntuale ai mali storici della scuola italiana, che pesano sull’oggi come macigni e rendono scettici sulla reale volontà politica di farla diventare una “buona scuola”, lo ha fatto Rosario Drago nel seminario estivo di ADi (Associazione Docenti e Dirigenti italiani) tenutosi a Catania alla fine dello scorso mese di agosto. Drago parte dalla constatazione che “la scuola è stata diretta, ma non governata e guidata”, con la conseguenza che non è un’istituzione efficace, cioè non garantisce i diritti di cittadinanza e non genera fiducia.
Lo dimostrano in particolare alcune evidenze, che a torto vengono ignorate: l’anno scolastico non inizia mai regolarmente; non ci si cura molto del benessere degli studenti (niente pausa tra le lezioni, niente armadietti personali, niente docce, niente attività in autonomia, niente spazi di socializzazione) e la maggioranza non va a scuola volentieri, come dimostrano i dati OCSE; l’educazione politica è del tutto assente (gli studenti hanno il diritto di assemblea ma non sanno esercitarlo; si impara proprio a scuola a violare le regole, ad esempio imparando a copiare; non viene esercitata la responsabilità di cura dell’ambiente scolastico); non ci si occupa del senso di appartenenza.
Conclusione: “La scuola è cambiata ma non si è riformata. Non è stata in grado di gestire i suoi cambiamenti e di immaginare un’organizzazione nuova, regole più efficaci e adatte alla natura dei problemi da affrontare. Tutti gli appelli alla buona volontà e alla disponibilità e i provvedimenti frenetici hanno generato un profondo sentimento di crisi, perché è il modello istituzionale che è profondamente ammalato”.
In queste condizioni discutere del liceo classico come se da lì passasse la storia del mondo e lì si trovasse la pozione magica dell’iniziazione al successo universale mi sembra non tanto deviante quanto indice di inconsapevolezza di come stanno le cose, sia in generale che nelle situazioni specifiche. Io credo che il problema della scuola italiana sia molto serio e che è giunto il tempo di andare alle ragioni fondamentali della sua inadeguatezza per diffondere l’idea di una riforma radicale che finalmente la renda un sistema funzionante secondo obiettivi chiari e regole certe.
Io sono partito dalla scelta strategica del pensiero critico con l’idea che le differenze fanno ricchezza perché qui sta il sale di una pietanza che nutre il cervello e il cuore. Qui c’è tutto il portato della società moderna, ci sono le nostre radici e c’è il movimento della nostra identità. Qui c’è l’esercizio del dubbio come alimento della ricerca, e l’errore come occasione di miglioramento, la consapevolezza e il rispetto dell’alterità, la responsabilità delle scelte e il coraggio dell’azione. Si tratta di una visione positiva della storia che si contrappone al pessimismo culturale. Lo ripeto, le idee non sono tutte uguali: nella vita sociale, come nella biologia, non c’è la piattezza del sempre uguale e del tutto omogeneo. Si tratta di scegliere, di prendere posizione e di fare quello che è necessario nelle condizioni che ci è dato di vivere.
Commento di Pier Luigi Leoni
L’elzeviro dell’amico Franco Raimondo non fa una piega. Egli è uomo di scuola e ha dimostrato per quattro decenni sul campo le sue capacità teoriche e pratiche. La sua prosa nitida e nello stesso tempo appassionata esprime quanto c’è di meglio nelle speranze dei riformisti contemporanei. Io non sono un uomo di scuola, se non come utente fino alla fine dell’università, e devo confessare che i periodi scolastici che più mi hanno reso felice sono quelli in cui non sono a andato a scuola. Infatti ho aggirato la media inferiore e il ginnasio grazie alla qualità dei miei genitori e di qualche loro bravo amico.
Approdato al liceo classico di Orvieto ho impiegato qualche mese a capire che i professori si offendevano se li ascoltavo distrattamente, poiché ero abituato a cavarmela in solitudine studiando sui libri che mi piacevano, spesso diversi da quelli di testo, e che la mia famiglia generosamente mi finanziava. Imparai a elevare la mia soglia di attenzione a scuola un po’ per quieto vivere e un po’ per affetto verso quelle brave persone che di solito erano gli insegnanti, ma dovetti pagare pegno e ci misi tre anni a superare quei due o tre secchioni che prendevano voti più alti dei miei. La mia forza non era una intelligenza eccezionale, ma il fatto che ero sempre pronto ad affrontare le interrogazioni. Abitudine acquisita nei vari anni in cui, insieme al mio fratello quasi coetaneo, non eravamo ammessi alla cena se non avevamo bene risposto alle domande di nostro padre sugli argomenti di studio assegnatici per quella giornata.
Ricordi che mi hanno addolcito la pena di stare seduto per ore in un’aula surriscaldata e inumidita dai fiati di venticinque compagni in gran parte svogliati. Racconto queste mie esperienze per motivare la mia profonda convinzione che quando la famiglia può e vuole deve essere incoraggiata a evitare ai propri pargoli di scaldare le sedie delle scuole pubbliche. Se poi si togliesse di mezzo il valore legale dei titoli di studio, illiberale e fuorviante, sarebbe ancora meglio.
Tuttavia (comodo questo avverbio!) capisco che una scuola pubblica efficiente è necessaria per andare incontro alle famiglie che non sono in grado economicamente, intellettualmente o moralmente di provvedere all’istruzione dei figli. Anche se comincio a essere stufo delle riforme e delle discussioni sulle riforme della scuola pubblica. Poco portato al discorso astratto, mi ha colpito la riforma della scuola secondaria che si sta affermando in Gran Bretagna, articolata in Academies, e che dovrebbe essere completata entro il 2020. Riporto da internet: «Le Academies sono scuole finanziate con fondi pubblici ma gestite da organi di governo locali, nei quali i genitori, gli enti locali, e spesso aziende e altri soggetti (Chiese, Fondazioni), hanno potere decisionale in materia di scelta del personale, a partire dal Capo di istituto, e di sviluppo dell’offerta formativa sul territorio». Se la Gran Bretagna ci è maestra di democrazia e di come si vincono le guerre, perché non prestare un po’ d’attenzione al suo sistema scolastico?
Commento di Dante Freddi
Ho vissuto la scuola come studente e come insegnante e la conclusione del preside Barbabella che “La scuola è cambiata ma non si è riformata” non mi è nuova, perché lo constato nei rapporti quotidiani e rilevo che l’insoddisfazione è generalizzata e non è sufficiente regolarizzare migliaia di insegnanti per garantire la cosiddetta “buona scuola”. Ancora oggi, come vent’anni fa, la scuola produce risultati educativi positivi grazie esclusivamente all’impegno personale dei docenti che realmente vogliono “riformare” e degli studenti che, per motivi personali più vari (insegnante, ambiente amicale, famiglia) vogliono apprendere e sono ricettori dei valori che la scuola dovrebbe trasmettere a tutti.
La certificazione di un tecnico competente e appassionato della scuola che certifica l’inadeguatezza dell’istituzione a fornire “l’esercizio del dubbio come alimento della ricerca, e l’errore come occasione di miglioramento, la consapevolezza e il rispetto dell’alterità, la responsabilità delle scelte e il coraggio dell’azione”, pone in uno stato di costernazione e di sfiducia nella possibilità che insegnanti mal pagati e sottovalutati, scuole decadenti e inadeguate ad una ospitalità dignitosa, l’assenza di movimenti intellettuali e politici che conquistino l’adesione popolare produrranno un futuro vicino in cui sia possibile “di scegliere, di prendere posizione e di fare quello che è necessario nelle condizioni che ci è dato di vivere”.