E’ un tema delicato e quanto mai (giustamente) sentito dai cittadini quanto dalle istituzioni quello dell’eccessiva presenza di mercurio nelle acque del fiume Paglia. Tra i vari Enti che, in qualche modo e secondo le varie competenze, hanno partecipato fino ad oggi a studi approfonditi sull’origine del fenomeno, figura anche il Cnr che, sotto il coordinamento del Comune di Orvieto e insieme alle Agenzie per la protezione ambientale di Toscana, Umbria e Lazio, le aziende sanitarie locali, il dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze sarà impegnato a produrre (entro fine settembre) un documento da sottoporre al Ministero dell’Ambiente per inquadrare meglio il problema.
Abbiamo chiesto al dottor Angelo Massacci, direttore dell’Istituto di Biologia Agro – ambientale e Forestale del CNR di Porano, un approfondimento scientifico della problematica avanzando possibili soluzioni al problema.
FITOSTABILIZZAZIONE – Se si pensa alle elevatissime concentrazioni di mercurio presenti all’interno dei sedimenti del fiume Paglia, l’idea di una possibile estrazione del metallo si rivela irrealizzabile. Considerando poi gli ingenti volumi dei sedimenti contaminati, anche l’alternativa di una possibile mobilitazione del materiale per un trattamento o una semplice messa in sicurezza ex situ cade.
La fitostabilizzazione si pone invece come unica alternativa, sostenibile sia dal punto di vista ambientale che economico. Si sa che le forme di mercurio non tossiche e meno mobili sono i composti mercurici e mercurosi, formati rispettivamente da ioni Hg2+e Hg22+; questi si formano in condizioni ossidanti (dove vi è ossigeno).
Tali ioni sono soggetti all’adsorbimento su particelle minerali caricate negativamente come minerali argillosi e materiale organico che tende ad aumentare il pH del suolo e quindi aumenta ulteriormente la stabilità di tali forme. In assenza di ossigeno invece, il mercurio viene trasformato nella forma ionica [CH₃Hg]⁺ (metil-mercurio) ad opera di batteri anaerobi metanogeni. Questa forma è altamente tossica, mobile e soggetta a bioaccumulo e biomagnificazione all’interno degli esseri viventi.
IMPEDIRE CHE IL MERCURIO DIVENTI TOSSICO – Da quanto detto si deduce che, siccome non sarebbe pensabile eliminare il mercurio dai sedimenti, l’obbiettivo dell’intervento dovrà piuttosto essere garantire che il mercurio presente non venga convertito nelle forme tossiche ma rimanga allo stato di mercurio inorganico. Per far questo bisogna garantire l’ossigenazione dei sedimenti (generalmente anossici a causa della sommersione), ricorrendo a piante capaci di trasferire l’ossigeno dall’atmosfera all’ambiente radicale (rizosfera).
CREAZIONE DI AREE UMIDE – Solitamente le piante adattate ad ambienti sommersi sono provviste di un tessuto lacunoso (aerenchima), che ospita numerose cavità riempite di aria; l’ossigeno può dunque passare da cavità a cavità, fino alle radici per diffusione passiva. Infine, alcune di queste piante come le cannucce di palude possono ossigenare i sedimenti in cui crescono grazie ai fusti cavi che, una vota secchi, funzionano come tubi soggetti all’effetto venturi che spinge l’aria all’interno degli organi ipogei. Quest’ultimo processo garantisce l’afflusso di ossigeno nei sedimenti anche nei periodi non vegetativi (in inverno, quando la pianta è secca e l’attività biologica è meno intensa).
INCREMENTO DELLA BIODIVERSITA’ – Si ritiene dunque che la creazione di aree umide colonizzate con tali specie come ad esempio quella di Fusina creata per ridurre i carichi di inquinanti nella laguna di Venezia, possa garantire adeguata ossigenazione ai sedimenti contaminati da mercurio impedendo la trasformazione di tale metallo nella forma tossica e bioaccumulabile. L’impatto dell’intervento sull’ambiente circostante potrà essere addirittura positivo poiché la presenza di vegetazione delle aree umide favorirà l’incremento della biodiversità e quindi la stabilità e il valore dell’intero ecosistema