Riceviamo dal presidente dell’Associazione Il Ginepro, Massimo Luciani, e pubblichiamo.
Partiamo dall’alluvione del 2012, da quello che in molti considerano l’anno del risveglio, della riscoperta del fiume Paglia. Un fiume capace di tramutarsi da poco più che un rigagnolo ad un corso d’acqua pericoloso e impetuoso e dalle conseguenze micidiali. Partiamo da qui perché abbiamo il timore che al risveglio stia seguendo lo smarrimento, la divagazione, preludio ad un atteggiamento politico più insipiente, ottuso, di convenienza, di semplificazione, di opportunismo. Il riferimento è a tutte le considerazioni, le proposte, i progetti che sentiamo e vediamo fare e in generale ai modi con cui la politica approccia al problema.
Ma facciamo ordine. Cosa è accaduto dopo la piena di portata storica del Paglia?
Innanzitutto lo studio dell’Università di Perugia, già commissionato in seguito agli avvenimenti precedenti al 2012, in cui si dice che il Paglia è in deficit sedimentario, vale a dire è in una fase di intensa e forte erosione e di incisione del suo letto e delle sue sponde laterali.
Cosa bisognerebbe fare per limitare e ridurre il problema?
Escludere le estrazioni dei sedimenti, specialmente quelli all’interno dell’alveo, favorire una maggiore divagazione ed espansione laterale durante le piene eccezionali ridando spazio, terre, precedentemente estromesse al fiume, permettere al fiume di riacquisire maggiore sinosuità all’interno di un’alveo più o meno intrecciato e quindi evitare rettificazioni, interventi di modifica delle barre di meandro e di sedimentazione all’interno dell’alveo, il tutto sempre con un approccio interdisciplinare per comprendere ogni fattore condizionante.
Cosa si è fatto in tutta urgenza?
A monte, in località Barca Vecchia, tagliando il meandro, il fiume è stato di fatto rettificato, riducendo la lunghezza del suo percorso, grazie ad un intervento massiccio della Provincia che, con una barriera di massi, ha deviato il canale principale (naturale) su quello secondario, con risultati effimeri in quanto, a distanza di due anni, il fiume ha riaperto letteralmente la breccia. Viene permessa e concessa inoltre, nello stesso punto, l’estrazione di enormi quantità di detriti e sedimenti che per diversi giorni mettono in funzione a pieno regime gli impianti di inerti della zona.
In tutta fretta viene fatta tabula rasa della gran parte della vegetazione riparia presente lungo il fiume, specialmente all’altezza di Orvieto Scalo e Ciconia e senza curarsi di ciò che avviene a monte e sui versanti, come se la vera causa dell’alluvione fossero quelle piante e non l’immensa quantità d’acqua scesa nel ristretto bacino del fiume, che si è concentrata rapidamente, raggiungendo un picco di piena ingovernabile.
Comprendiamo le tensioni e le paure del momento ma è proprio con la politica della somma urgenza che si producono i danni più grandi.
Quell’approccio iniziale, sembra pure condizionare le attuali scelte, quelle che, non ci stancheremo di ripetere, dovrebbero essere prese coinvolgendo esperti dei vari settori (geologi, idrogeologi, geomorfologi, biologi e idrobiologi, botanici, zoologi, naturalisti oltre che architetti e ingegneri), proprio per la complessità del sistema fluviale e il conseguente approccio scientifico multidisciplinare che richiede per essere il più possibile compreso.
Inoltre, come tutti ormai sanno, senza che ciò si traduca però in azione concreta, per rendere efficaci queste scelte, bisognerebbe comprendere l’intero bacino e non parti di esso, ancor più per un territorio di modesta estensione come quello del Paglia-Chiani. Non dimentichiamo che l’approccio ideale al fiume deve essere di tipo integrale (approccio ecosistemico) considerando anche il suo stato chimico-fisico e biologico.
Come si fa ad escludere l’alta Val di Paglia, quando molti dei problemi idrogeomorfologici o legati alla qualità e salubrità delle acque dipendono e si originano in questa area del bacino? Perché unire il programma sulle aree interne con il contratto di fiume, avendo essi anche obiettivi diversi se non addirittura, per certi aspetti, diametralmente opposti (l’uno punta su una maggiore infrastrutturazione, l’altro su una maggiore resilienza del sistema antropico-naturale), se questo deve compromettere e limitare l’aspetto forse più importante per un contratto di fiume, il territorio del bacino? Si devono trovare i punti di contatto tra i diversi programmi, ma non si può fare di tutta l’erba un fascio.
Anche su questo si misura la capacità politica ma purtroppo al momento l’atteggiamento prevalente sembra andare in altra direzione, complicando non poco il quadro, col rischio di vanificare gli sforzi fatti a vario titolo da tutti i soggetti finora coinvolti, lasciando spazio ad iniziative singole ed affatto integrate. Quando il Contratto di Fiume diventerà operativo (meglio tardi che mai), infatti, avremo già approvato e saremo in procinto di realizzare consistenti opere che nulla o poco hanno a che vedere con tutto quanto detto.
A partire dal Parco Urbano del Paglia che ha pure tutta la nostra simpatia e comprensione, considerando un pezzo di città, quella tra Orvieto Scalo e Ciconia, alla ricerca spasmodica di una struttura, una dimensione organica, ritrovandosi squarciata dal fascio infrastrutturale (ferrovia e autostrada), amplificato dalla complanare in via di ultimazione e che spinge infine a cercare nella nuova dimensione rivierasca quel trade d’union, quella cerniera, quel collante ancora mancante. Tuttavia, tale opera, per molti aspetti, non si comprende. Si mostra di non aver compreso che il Paglia in quel punto, lì dove si vorrebbe fare e disfare, è estremamente pericoloso, è il territorio incontrastato della piena TR200 che non significa propriamente che arriva ogni 200 anni, dato che potrebbe arrivare anche dopo domani. A che pro spendere tutti questi soldi se il Paglia prima o poi dovrà prenderseli e portarli via? Non sarebbe stato meglio investirli in altre importanti e necessarie opere di riqualificazione e valorizzazione più importanti, anziché in un’area di esondazione bella e buona, che lo sarà ancora di più dopo che saranno ostruiti tutti i sottopassi di ferrovia e autostrada?
Parliamo degli interventi della Provincia, che ha deciso di avviare un piano di assestamento forestale lungo il corso del fiume, non si sa bene a quale scopo, data la totale inutilità in termini di riduzione del rischio idraulico nel caso specifico del Paglia. Parliamo di un fiume che con le portate e i volumi d’acqua come quelli visti nel 2012, è in grado di spostare all’interno della corrente massi di decine di tonnellate (ne siamo testimoni oculari), di spostare e intaccare ponti più che consolidati (Ponte di Piancastagnaio, Ponte Gregoriano) o addirittura abbatterli e trascinarli per chilometri (Ponte Cahen).
Un fiume così, a malapena si accorge dei pioppi, dei salici e degli ontani che sono cresciuti sulle sponde, sulle isole o sulle barre di sedimentazione più o meno stabilizzati. Possono sicuramente fare eccezione mirati e puntuali interventi manutentivi, come nei lumi delle arcate dei vari ponti, ma per tali misure non è necessario fare piani di assestamento forestale e dare in appalto ventennale la ceduazione, anche perché, occorre ricordarlo, si insiste in aree che hanno importantissime funzioni ecosistemiche.
Basterà qui ricordare alcuni dei ruoli della vegetazione riparia, che dovrebbero spingere piuttosto a fare piani di riforestazione, come quello di corridoio ecologico, rifugio per la fauna, habitat ad elevata diversità naturale, serbatoio di diffusione delle specie, fascia tampone e di filtro idrico e per gli inquinanti, regolatore della temperatura dell’acqua, elemento di laminazione delle piene ed altro ancora.
Infine parliamo degli interventi del Consorzio, che per quanto a prima vista sembrerebbero inevitabili, mostrano a ben vedere tutti i limiti di una programmazione settoriale e monodisciplinare. E’ infatti è un pullulare di difese passive, che da un lato riducono il rischio di inondazione delle aree urbane, dall’altro non sappiamo bene (a parte i risultati dello studio idraulico) quali reali effetti determineranno di fronte alla temuta piena TR200. Per quanto riguarda la zona di Allerona e Castel Viscardo, sappiamo già la sorte che spetterà all’area viticola posta oltre la barriera già esistente lungo la strada Provinciale, ossia l’inesorabile allagamento e sappiamo che per reggere la difesa passiva dovrà essere rialzata di circa 150 cm, oltre l’attuale coronamento: in altre parole sarà realizzato un muro in cemento armato per circa 500m che oltre al costo economico, avrà un costo sociale e un impatto paesaggistico notevole. Siamo sicuri che sia l’unica soluzione possibile? La comunità potrà partecipare a questa scelta? Quali compensazioni e come si intende ridurre l’impatto di questa opera, in particolare dal lato stradale? Perché non pensiamo a qualche delocalizzazione e permettiamo al fiume di espandersi naturalmente, senza produrre danni a colture ed edifici, in aree storicamente e naturalmente predisposte all’alluvionamento, riducendo i rischi di esondazione a valle? Quanto può costare la delocalizzazione di un edificio o di un piccolo complesso urbano?
Le stesse domande l’abbiamo poste in sede di Conferenza dei Servizi il 12 Gennaio a Perugia. Le risposte che abbiamo ricevuto non sono state esaustive. Non basta sapere che dal punto di vista idraulico nei pressi del De Martino non si ravvede la necessità di una delocalizzazione, occorre sapere se il costo della delocalizzazione è paragonabile a quello della realizzazione delle opere di difesa anche in una prospettiva di lungo periodo, considerando i necessari costi di manutenzione, senza contare i vantaggi a livello paesaggistico, ambientale e fruitivo, determinati dall’ampliamento dell’area fluviale. Analoga osservazione si potrebbe fare nella zona di Barca Vecchia ad Allerona, dove con più lungimiranza, si potrebbe ristabilire l’area di espansione naturale e l’antico corso del fiume fin sotto il Pod. Poggio Barile, programmando con opportune sovvenzioni e compensazioni, la delocalizzazione o la conversione delle aziende vitivinicole che insistono su quella parte di territorio.
Concludiamo sul ruolo delle associazioni ambientali e/o socio-culturali. L’Associazione Il Ginepro, ha quasi 15 anni di vita, si è occupata da sempre del Paglia, denunciando i continui e ripetuti episodi di inquinamento, asportando tonnellate di rifiuti dalle sue sponde, valorizzando con lo sviluppo di sentieri il contesto naturalistico ambientale, lavorando con le scuole e per la diffusione della conoscenza del patrimonio naturale di cui disponiamo, monitorando lo stato delle acque, le sponde, la vegetazione, i luoghi di pregio e ce ne sono molti, per fortuna ancora. Come Il Ginepro altre realtà associative si sono impegnate con obiettivi simili dall’Amiata fino ad Orvieto e non vediamo per quale motivo dovrebbero essere esclusi da un percorso partecipativo come quello del Contratto di Fiume. Non abbiamo aspirazioni di controllo, di gestione, ma crediamo che se un soggetto associativo debba far parte della cosiddetta Cabina di Regia, questa debba essere espressione di tutte le realtà presenti sul territorio del bacino. Riteniamo pertanto che si debba costituire un Coordinamento delle associazioni che esprimano un loro rappresentante di riconosciuta capacità, conoscenza ed indipendenza. Questa è la nostra proposta che allarghiamo a tutte le associazioni che ritengano di essere coinvolte in questo percorso e sarà la proposta che porteremo in occasione dell’assemblea di Bacino in programma per il 19 Febbraio.