Dal locale ….
La politica dello sguardo corto non è compatibile con le esigenze di Orvieto
Caro Franco,
riporto alcuni stralci del verbale della seduta del consiglio comunale di Orvieto del 26 maggio 1978. Si discute di iniziative e proposte per la rapida attuazione della legge nazionale per il consolidamento della Rupe di Orvieto e la salvaguardia del Centro Storico.
Ci vuoi gratificare di tuo commento?
Pier
“Luigi Livolsi, capogruppo del PSI rivolge un caloroso grazie ai parlamentari umbri firmatari della proposta di legge, primo fra tutti il senatore Maravalle che ha interpretato le esigenze di Orvieto facendosi promotore della richiesta dei fondi necessari…Il capogruppo del PCI Italo Torroni, dopo aver ringraziato tutti coloro che con la propria azione hanno contribuito al successo della legge, rileva che tutto questo è dovuto all’azione unitaria di tutte le forze politiche a vario livello, affermando anche che si è avuta la dimostrazione pratica che quando c’è collaborazione politica è possibile risolvere nel nostro Paese i vari problemi a livello nazionale e locale. Torroni afferma che, secondo i comunisti, non po’ essere lodato l’uno o l’altro parlamentare, bensì tutti coloro che unitariamente hanno cercato di dare una soluzione al problema di Orvieto…”
Io c’ero, lo dico con orgoglio. Quello fu uno dei momenti esaltanti della politica orvietana, che seppe mettere da parte le contrapposizioni di partito e di schieramento per affermare la priorità del bene comune, che allora si sapeva bene consistere nella salvezza della città. Non si trattò di un regalo. C’erano state due importanti frane nella zona di Cannicella nel 1977 e la stampa ne aveva parlato creando il giusto clima perché le istituzioni si muovessero bene e in fretta. C’erano poi i precedenti delle leggi speciali per Venezia, Siena e Matera. Per Orvieto si poteva fare dunque la stessa cosa. Lo capì per primo il senatore Luigi Anderlini (uno dei politici di razza a cui gli orvietani dovrebbero essere più riconoscenti e che invece è tra i più dimenticati), poi tutti gli altri si convinsero che quella era la strada giusta. Ma a Todi c’erano problemi analoghi e in Regione si pensò che fosse bene elaborare una proposta di legge speciale unitaria appunto di iniziativa regionale, unitaria di tutti i partiti e unitaria per le due città.
Come fu possibile quell’unità in un’epoca il cui clima era di scontro spesso estremo e il più delle volte pregiudiziale? A mio parere per due motivi: perché il senso di appartenenza alla comunità prevaleva sugli interessi di parte e perché la politica era vissuta come occasione per dimostrare di essere persone capaci (peraltro lasciando agli altri il diritto di essere giudicate tali per aver svolto bene il proprio compito) e non come puro strumento per carriere e vantaggi personali. Perciò, al di là dello scontro politico, si poteva dialogare su ciò che era importante per tutti. Va anche aggiunto, e non è aspetto irrilevante, che era comunque presente, magari inconsapevolmente, l’idea che si dovesse amministrare per trasmettere alle generazioni future i beni ereditati dai padri, dunque una città ben conservata e se possibile migliorata.
Quella di cui tu stimoli il ricordo è la legge 230/’78, una legge speciale di emergenza che stanziava fondi parziali. Seguì una lunga e difficile iniziativa per ottenere una legge organica, che arrivò nel 1987 con la 545. Risultato straordinario, con alle spalle quello stesso spirito unitario del 1978 e un grande lavoro di convincente progettualità che partendo da quell’unicum rappresentato dal centro storico, la rupe e le pendici, guardava al ruolo della città nel territorio e si poneva come modello in Europa di salvaguardia e valorizzazione del patrimonio storico-artistico-ambientale. Ciò che in effetti avvenne con il riconoscimento ufficiale del Consiglio d’Europa, viatico importante per l’approvazione della legge 545 da parte del Parlamento italiano.
Chissà perché c’è sempre qualcuno, innamorato della politica dello sguardo corto, che è disposto a sostenere senza pudore che si trattò di una specie di regalìa statalista e non invece del rovesciamento di un possibile dramma in un’occasione di crescita sana mediante la valorizzazione di un patrimonio culturale altrimenti destinato al degrado.
In realtà non c’è da stupirsi di questo, se allora il successo fu immediatamente contrastato per non correre il pericolo di perdere il controllo sulle cose e sulle persone, e se oggi, invece di riprendere quell’atteggiamento coraggioso di collaborazione tra diversi in nome di un interesse generale senza colore politico, si è arrivati a ritenere normale la lotta distruttiva di tutti contro tutti, rischiando così di distruggere ciò che le generazioni precedenti sono riuscite a trasmettere al futuro con tanti sacrifici. Speriamo solo che ci si fermi prima e che ci si renda finalmente conto che la politica dello sguardo corto non è compatibile con le caratteristiche né di Orvieto né di questa fase storica.
… al globale
Meglio il leader forte o “l’armata dei notabili”? O peggio entrambi?
Caro Pier,
ti propongo di commentare questa parte di un articolo pubblicato nei giorni scorsi da Antonio Campati su “Istitutodipolitica” con il titolo “La sinistra contro i(l) leader”. A me la sua proposta di interpretazione dello sconfittismo del PD sembra interessante. Come vedi, al centro c’è il tema della personalizzazione della politica. Mi pare che la questione generale, a parte la condizione della sinistra, si possa riassumere così: “Meglio il leader forte o ‘l’armata dei notabili’”? Io azzardo: “Peggio entrambi”! E dico anche: possibile che in questo nostro Paese non si riesca ad uscire dalle gabbie delle estremizzazioni? Insomma, o il meglio del meglio o il peggio del peggio? Tu che ne pensi?
Franco
“… l’ascesa di Matteo Renzi alla guida del Pd ha amplificato in ampi settori del suo elettorato (e della sua base militante) la paura che una sorta di ‘purezza’ venisse cancellata una volta per tutte. Che, in altre parole, venisse annacquata una storia politica e, con essa, una tradizione di partito-comunità ancora indispensabile, basata su una «ideologia collettivista» in grado di rappresentare un efficace argine all’uomo solo al comando, nocivo per la democrazia rappresentativa. … Ad ogni modo, se si vuole analizzare il problema allargando l’orizzonte oltre la contingenza (e, forse, per capirla meglio), occorre chiarire quale sia l’effettivo rapporto che la sinistra riserva al tema della personalizzazione della politica. Sì, perché di questo (ancora) si tratta. Recentemente, Mauro Calise (Fuorigioco. La sinistra contro i suoi leader, Laterza, 2013, pp. 156) si è soffermato sulla ‘paura’ che proprio la sinistra italiana prova nei confronti delle leadership. Nello specifico, Calise rimprovera al Pd di essersi arroccato sulla difensiva rispetto all’ascesa di leader forti, senza rendersi conto che, oggi, senza di essi non è possibile condurre una campagna elettorale vincente. E, così facendo, il partito erede della tradizione comunista non si è accorto che la vera «mutazione genetica» si stava consumando al suo interno, provocando la trasformazione dell’antica oligarchia del comando e del centralismo democratico in un’«armata di micronotabili». In questo modo, l’attività frenetica di quest’ultima unita all’originario rifiuto di legittimare leader al suo vertice hanno condotto il Pd per due volte in «fuorigioco».”
Commento di P.L. Leoni
Credo che non si debba mai dimenticare che gli uomini politici, compresi quelli italiani e quelli del PD, tengono sempre ben presenti gli umori dell’elettorato, o meglio il concetto che essi hanno degli umori dell’elettorato. Non per amore sperticato della democrazia rappresentativa, ma perché sono consapevoli che il contesto internazionale e l’esplosione planetaria dell’informazione hanno consolidato e reso inevitabili le forche caudine delle consultazioni elettorali. La paura che una leadership forte, spregiudicata e avventurosa come quella di Matteo Renzi abbia a disgustare i postcomunisti bigotti e a vederli ampiamente sostituiti dagli elettori temporaneamente delusi dalla destra mi sembra più che giustificata. Di fronte a questa evenienza i postcomunisti preferiscono un’altra sconfitta elettorale. Anche perché nella crisi del capitalismo (che, come ogni sistema inventato dall’uomo, ha le sue criticità) preferiscono che rimanga invischiata la destra. Come puoi immaginare, i tormenti della sinistra non mi angosciano. Invece mi preoccupa seriamente che la destra sia ancora prevalentemente stregata dal capitalismo e non ne percepisca gli aspetti più disumani. I grandi banchieri, i grandi finanzieri, i grandi imprenditori e i grandi economisti non sono dei superuomini, anche quando sono di livello europeo. Sono semplicemente dei paraculi da tenere sotto schiaffo; anche e soprattutto con quella bella trovata che è il suffragio universale. Le elezioni europee sono più vicine di quelle politiche: buon divertimento!