Franco Raimondo Barbabella e Pier Luigi Leoni esordirono coi 100 numeri di “A destra e a manca”, continuarono coi 50 numeri di “Ping pong”, hanno insistito coi 50 numeri di “Diciamocelo”. Dopo quasi quattro anni provano con “Tu che ne dici?”. Un modo analogo e diverso di coltivare la loro amicizia e di cercare l’amicizia dei Lettori.
Tu che ne dici?
26 agosto 2013 n. 2
Dal locale ….
Droga a Orvieto: il solito Chaos
Chaos, Non warning, Fiesta e ora Joint. Cambiano i nomi delle indagini, ma la realtà di fondo, pur con sfumature diverse, resta la stessa. Ad Orvieto si registra costantemente un vasto traffico di sostanze stupefacenti che coinvolge trasversalmente varie generazioni o che la città tende, per comodità o per superficialità, ad ignorare o a cercare di nascondere. L’ultima operazione antidroga risale soltanto ai primi mesi del 2012. Nella cosiddetta “Fiesta” – sempre condotta dai carabinieri della compagnia di Orvieto – figuravano 11 arresti, 61 indagati e 145 consumatori abituali. Numeri da capogiro per una piccola realtà come Orvieto che a distanza di un anno assiste a una nuova ondata di manette e che dovrebbe cominciare a interrogarsi seriamente su questa “piaga”. (Il Giornale dell’Umbria, 20 agosto 2013). Segnalato da P.L. Leoni a F.R. Barbabella.
Commento di F.R. Barbabella
Non c’è dubbio che le forze dell’ordine e la magistratura fanno il loro dovere, e non da oggi. I risultati quantitativi ci sono: in termini di arresti, denunce, rottura di rami importanti del sistema di spaccio, emersione della consistenza del fenomeno droga nella città e nel territorio. Eppure Il Giornale dell’Umbria rileva, a mio avviso opportunamente, che “Cambiano i nomi delle indagini, ma la realtà di fondo, pur con sfumature diverse, resta la stessa”. Che cosa vuol dire? Vuol dire che il fenomeno nel tempo magari cambia la forma del manifestarsi ma non la consistenza e le motivazioni, che anzi piuttosto si consolidano e si diffondono? Credo di sì, naturalmente in attesa di dati attendibili che possano fondatamente confermare o smentire. Significa anche che, come si sostiene nell’articolo, la società orvietana collettivamente intesa tende a sottovalutare o addirittura a ignorare e nascondere il fenomeno? Anche su questo credo che la risposta allo stato delle cose non può che essere positiva. Ma se la cose stanno così (ossia: il fenomeno c’è e si aggrava; la città lo ignora e di fatto non sembra curarsene), la domanda conseguente non può che essere la seguente: siamo di fronte al consueto atteggiamento di sottovalutazione, una delle persistenze culturali che contribuiscono a definire quella che alcuni amano chiamare orvietanità, o stiamo arrivando rapidamente all’abbandono della necessaria capacità reattiva di fronte ai fenomeni di arrivismo sociale congiunti a quelli di impoverimento culturale ed etico? Propendo decisamente per questa seconda ipotesi. È da tempo che mi sto progressivamente convincendo che la sottovalutazione di fenomeni negativi non è caratteriale ma politica, culturale e di costume delle classi dirigenti, che esprimono un modo di essere e di valutare assolutamente inadeguato a fronteggiare i fenomeni della società contemporanea. Orvieto sta in questo mondo, ma la sua classe dirigente sembra stare in un altro e vivere un’altra epoca, preoccupata com’è di salvaguardare questa o quella posizione e di non esporsi troppo, essendo convinta che sia meglio aspettare che passino le diverse buriane piuttosto che agire per tempo e prevenire, ed essendo impegnata a fare cordate forse anche senza sapere per quale obiettivo. Il mondo gli brucia sotto i piedi ma essa non sente nemmeno la puzza di bruciato. Ci vorrebbe dunque uno scatto di reni. Ma non attraverso la riunione di organi o comitati formali. Invece mediante una bella, forte, spregiudicata, lavata nel bagno della realtà, che non separi i giovani dagli adulti, i lavoratori dai disoccupati, i colti dai non acculturati, i benestanti dai bisognosi, ma veda con gli occhi della scienza e della coscienza le interrelazioni, i bisogni, le carenze e le opportunità. In sostanza, l’abbandono dell’acquiescenza al degrado e lo sviluppo di una nuova cultura della speranza fatta di ideali e concretezze, visione e senso di realtà. Mi rendo conto che con ogni probabilità sto sognando. Infatti, chi comincerà? E se qualcuno oserà cominciare, chi lo sosterrà? Anzi, ammettiamo per pura ipotesi che qualcuno abbia cominciato da tempo. Qualcun altro per caso se n’è accorto? E se se n’è accorto, è disposto a dirlo e ad affiancarsi a lui nel tentativo di invertire questa rotta? Sveglia ragazzi, tra un po’ non ci sarà più tempo e modo nemmeno di riflettere!
… al globale
“Si continua a citare la rapidità con la quale il Conclave dei cardinali cattolici ha eletto papa Francesco il 13 marzo scorso come un esempio invidiabile e inimitabile. È stata una sorprendente prova da parte di una Chiesa additata come lenta, in profonda crisi di identità e reduce da torbidi conflitti vaticani: una situazione così grave da avere indotto Benedetto XVI alle dimissioni, primo caso dopo oltre sei secoli. L’ammirazione è giustificata. Ma il rimpianto per l’incapacità della classe politica italiana di fare altrettanto forse non basta; né è sufficiente constatare che in Occidente molti personaggi di rilievo che guidano le loro nazioni hanno un’immagine appannata, quando non di impotenza.
D’altronde, con una crisi economica che dura da oltre un quinquennio (e in Italia, di fatto, da molto più tempo), sarebbe strano se le classi dirigenti non fossero logorate: soprattutto perché non offrono visioni nuove. L’insuccesso percepito ormai dall’opinione pubblica è associato ad alcune figure di vertice. Ma sta diventando sempre più chiaro che il problema non sono solo le persone, quanto il sistema di valori e il modello che esprimono. Senza una modifica del terreno di gioco, delle regole, dei punti di riferimento, il falò delle leadership presenti e future sarà inevitabile: o saranno distrutte o si autodistruggeranno.
Non solo: non esiste più un’«accademia» che forgi le leadership politiche. Da circa vent’anni, con rare eccezioni, l’Italia le ha prese in prestito da altri mondi di competenza, si trattasse di industria, università o magistratura. L’atteggiamento di rifiuto verso un malinteso professionismo della politica ha creato e radicato una nomenklatura di dilettanti, percepiti alla fine come professionisti solo in senso deteriore. Il risultato è sconfortante. La lezione è quella del fallimento di una democrazia e di un potere verticali e personalizzati. L’idea che una figura solitaria potesse da sola, o con pochi docili esecutori, risolvere i problemi si è rivelata un’illusione amara. Invece di ricostruire una classe dirigente, ne ha creato una caricatura, ricorrendo di volta in volta a «invenzioni» e scorciatoie che, alla fine, ne hanno impoverito il livello, e ritardato qualunque ipotesi di ripresa. Senza un progetto condiviso da una maggioranza che si fa fatica a identificare soltanto con quella elettorale o di uno schieramento, qualunque «capo», declinato al maschile o al femminile, è destinato a scontrarsi con resistenze e abitudini radicate e alla fine vincenti. Sembra difficile ripartire senza prendere atto che una stagione è finita, e che perpetuarla significa arretrare; ed eludendo una selezione dei futuri leader pensata in maniera radicalmente diversa dal passato.
Da questo punto di vista, il caso di Jorge Mario Bergoglio è molto istruttivo. Il Papa argentino è figlio di una Chiesa cattolica che si è sentita pericolosamente vicina al collasso. E rappresenta la risposta radicale, sebbene non ancora la soluzione, a questa deriva. È dunque il prodotto di una sorta di trauma salutare, di successione-choc preparata e ottenuta da quanti hanno capito che era necessario un rivolgimento totale, perché i paradigmi del passato stavano affossando il governo vaticano. Senza questa acuta consapevolezza di dover rompere col passato, non si registrerebbero l’interesse e le attese provocati dal Pontefice.
La sua elezione è stata possibile grazie a una scuola di leadership a rete, globale, non improvvisata ma forgiata nelle realtà e nell’esperienza degli episcopati locali, che hanno permesso di «pescare» il nuovo capo della Chiesa in un lembo periferico e remoto del cattolicesimo. L’ansia involontaria con la quale gli elementi più retrivi della Curia tendono a minimizzare la portata della novità fa riflettere. Conferma che la cesura è così vistosa da indurli a suggerire e quasi invocare minacciosamente una frenata, per evitare che crolli tutto. Ma la leadership di Francesco funziona e fa breccia solo se mette in discussione il sistema precedente e prosciuga le sacche dell’immobilismo; se accoglie il segnale disperato dato da Benedetto XVI con la propria rinuncia al papato … ”. (Massimo Franco, Corriere della sera, La lettura 18.08.2013 – Segnalato da F.R. Barbabella a P.L. Leoni)
Commento di P.L. Leoni
L’articolo di Massimo Franco mi mette veramente in subbuglio, perché mi torna alla memoria la grande tentazione di Papa Pio IX di non ritornare più a Roma dopo l’esilio a Gaeta, cui l’avevano costretto i patrioti massoni, repubblicani e anticlericali. La Spagna gli offriva le Baleari per il trasferimento della Santa Sede, gli Inglesi gli offrivano Malta. Le Baleari non gli piacevano perché gli ricordavano un doloroso mal di pancia sofferto durante un viaggio in Cile. Malta gli piaceva di più, ma non gli sembrava opportuno accettare un favore da una nazione anglicana. Però era molto tentato, non solo a causa del ricordo della umiliante fuga da Roma in abiti borghesi nel novembre del 1848, ma soprattutto perché si rendeva conto che lo Stato Pontificio non avrebbe potuto reggere a lungo e temeva per l’indipendenza della Chiesa. Ci volle l’intervento di don Giovanni Bosco, per il quale il papa nutriva una profonda venerazione. Don Bosco gli ricordò la fuga di San Pietro da Roma, il suo pentimento e quel suo rientro che lo portò a subire il martirio. La leggenda narra che San Pietro, quando già era uscito dalla città, incontrò il Signore che camminava verso Roma. E San Pietro, consapevole del significato di quella visione, avrebbe pronunciato la celebre domanda retorica: «Quo vadis, Domine?» Dove vai, Signore?
Pio IX avrebbe potuto obiettare che erano passati 18 secoli, che Roma non era più la Roma di allora e che l’impero romano, che poteva sembrare ai tempi di San Pietro universale ed eterno, aveva fatto una brutta fine. Ma dette retta a don Bosco, per fortuna (o per sfortuna, a detta di molti) di Roma e dell’Italia. Questo per dire che il legame tra il Papa e Roma può tornare precario se lo Stato italiano continua a spappolarsi per effetto dell’odio profondo, indegno di una nazione moderna, che divide il popolo. La classe politica, rissosa e inefficiente, esprime la rissosità e l’inefficienza di un popolo intero. Un popolo che si fa abbindolare da avventurieri, da buffoni, da mafiosi, da personaggi immarcescibili che non hanno mai combinato niente di buono. Un popolo che sta scivolando verso l’Africa.
E siamo già al terzo papa straniero. Lo vogliamo capire che la Chiesa è stufa dell’Italia, compresa la Chiesa italiana?
È vero che la maggioranza degli Italiani non hanno alcuna simpatia per la Chiesa cattolica, ma è vero che anche coloro che si dicono cattolici partecipano, sull’uno e sull’altro fronte, alla baraonda. Se anche i cattolici, oltre a non ascoltare le loro coscienze, snobbano la Chiesa, questa volta chi ci salverà?