Caro amico, questa settimana ti scrivo …
Franco Raimondo Barbabella
Caro amico, così ti rispondo …
Pier Luigi Leoni
Il Parco civico del Paglia. Un’idea bella e importante. Sarà vissuta per questo come un pericoloso atto di sovversione?
“Nei periodi di magra o di normale portata del fiume, cioè per la gran parte dell’anno!, la pianura e l’alveo del Paglia, nel tratto di fiume compreso almeno tra Pian dei Poveri e l’Acquafredda (Basso corso del fiume Paglia), costituiscono una superficie verde considerevole. Riconoscere questo e, attraverso l’istituzione di un parco civico, rendere la zona effettivamente di interesse e fruizione pubblici avrebbe una serie di effetti positivi sul ripristino territoriale, sulla riqualificazione urbana, sulla messa in sicurezza degli abitati, sulla ripresa economica, sulla qualità della vita e la salute dei residenti. Tutti questi concetti sono strettamente intrecciati tra loro ed è illusorio pensare di ottenerne uno senza gli altri. Per lo stato attuale delle conoscenze scientifiche e delle capacità tecniche di intervento, il parco civico, che pensiamo molto semplicemente come un intreccio di sentieri e un insieme di realizzazioni effimere che utilizzano i vari differenziali di livello presenti in alveo è il solo modo di rimettere in sintonia il fiume e gli insediamenti antropici. Oltre a ciò il parco civico ha la forza per darsi come idea guida per la definizione dei criteri di progettazione e realizzazione di prossime opere pubbliche (o di rettifica, funzionale ed estetica, di quelle in costruzione) e per la rivisitazione dei criteri di urbanizzazione almeno delle aree golenali. Infine costituisce continue e importanti sollecitazioni per la costruzione dell’identità culturale e per la coesione sociale della comunità”. (Enrico Petrangeli, presidente “Val di Paglia Bene Comune”. OrvietoSi 11 giugno 2013)
F. Quella che ho riprodotto qui è la parte centrale di un interessante documento che è stato pubblicato lo scorso 11 giugno sui quotidiani on line a firma Enrico Petrangeli, presidente “Val di Paglia Bene Comune”, con il titolo “Le ragioni del Parco civico del Paglia”. Le ragioni del suo interesse sono molte, ma per me la principale è che esso rappresenta la ripresa dopo qualche decennio di quella cultura della progettualità che caratterizzò la politica orvietana negli anni ottanta del secolo scorso e che poi fu abbandonata con danni certi per motivi che qui non è possibile nemmeno accennare. Non a caso il documento si apre con un paragrafo in cui si paragona la vicenda del Paglia con quella della rupe: “Le attenzioni di cui sono stati oggetto la rupe e il centro storico hanno consentito di trasformare l’emergenza rappresentata dalle numerose frane in un intervento organico sulle fragilità e sulle instabilità della rupe e hanno consentito di recuperare parte considerevole del patrimonio storico artistico e monumentale della città antica. … È ragionevole pensare che dopo l’emergenza segnalata drammaticamente dalla sua esondazione anche l’alveo e la pianura del Paglia possano essere oggetto di attenzioni paragonabili. La disciplinatura delle acque e la messa in ragionevole sicurezza degli abitati devono essere orientate e valutate in base a un’idea precisa su come conciliare le peculiarità ambientali e le esigenze antropiche e in relazione alla riscoperta e valorizzazione di forme economiche e sociali compatibili con l’ambiente locale”.
L’idea è semplice, e in fondo per questo è bella e forte: è comprensibile da tutti, è una indicazione generale di lavoro, richiede di agire su progetti che abbiano una logica, che siano organici, che rispondano cioè all’esigenza di connettere tra loro i diversi aspetti che entrano in gioco: il fiume, l’ambiente circostante, il costruito e gli spazi liberi, la sicurezza e la valorizzazione, l’uso e il non-uso, in una parola un ambiente non da subire né da abusare ma semplicemente da vivere. E poi riprende l’idea di considerare area urbana la città vecchia insieme alla città nuova (la “città unita”), anche questa insipientemente abbandonata a favore di un’urbanistica a spizzico in tutte le direzioni.
Avere i soldi per portare in sicurezza il fiume è indispensabile, ma non basta. I soldi per interventi a scala territoriale (è questo il caso) possono anche essere spesi male, come dimostrano tanti, infiniti casi, se non c’è un’idea portante alla quale vengono ricondotti tutti gli interventi, da quelli di urgenza a quelli della definitiva sistemazione e se non c’è un controllo costante. Fu il caso della rupe. Può essere il caso del Paglia.
È un’occasione, non certo per utilizzare i soldi in modo improprio, ma esattamente per il contrario: se si ha un’idea generale e si agisce con logica progettuale, tutte le opere, qualunque sia il soggetto che le propone e le realizza e qualunque sia la natura e lo scopo dei finanziamenti in gioco (questi dell’alluvione, quelli dei privati, quelli per opere pubbliche di diverso tipo e scopo) saranno giustificate e controllate, si eviteranno le scempiaggini, si chiuderà la fase in cui si è pensato e deciso di costruire dappertutto scaricando poi su Pantalone i costi delle emergenze.
Per andare in questa direzione è necessario che tutti i soggetti che entrano in gioco in questa fase delicatissima in cui si tratta di stabilire obiettivi, procedure, metodi, priorità, percorsi progettuali e di realizzazione, agiscano in sintonia, siano coordinati. Ottima dunque la proposta di un Osservatorio che garantisca appunto della necessità di seguire una linea d’azione coerente e il massimo di trasparenza. Segnalo però da subito un pericolo, ancora in analogia con la vicenda della rupe. Io fui costretto alle dimissioni da sindaco non solo perché mi opposi alla realizzazione del centro commerciale del Borgo (la sua storia dice chi aveva ragione) e condussi in porto la battaglia durissima del taglio delle lottizzazioni de La Svolta perché in zona esondabile (appunto quella esondata il 12 novembre), ma ritengo soprattutto perché proposi in tutte le sedi la costituzione di un nucleo di coordinamento interistituzionale degli interventi composto dai comuni di Orvieto e Todi, dalla Regione dell’Umbria e dalle due Soprintendenze, il cui significato era ed è del tutto intuitivo.
Non voglio nemmeno pensare che anche oggi vi sia un’ostilità preconcetta per chi vuole che i soldi pubblici vengano spesi bene. Né voglio pensare che la cultura politica orvietana voglia rinunciare a dimostrare a tutti che sul proprio territorio le cose bisogna farle bene. Sono convinto che la Regione agirà nella direzione auspicata in quanto modello di normalità. Non vorrei invece che, come allora, i nemici della normalità fossero dove meno te lo aspetteresti. Io credo in definitiva che questa vicenda sia una vera cartina di tornasole per chi voglia proporsi come degno di fiducia per governare la città con il suo territorio, complesso sí ma anche ricco di potenzialità, che una politica straordinariamente miope si è preoccupata di non utilizzare con lungimirante intelligenza. Perdonami, sono stato un po’ lungo, ma l’argomento è di quelli veramente importanti. Quale è la tua opinione?
P. Non posso non condividere ogni sforzo di razionalizzazione e di immaginazione, entrambe indispensabili per tentare la costruzione di un futuro migliore. Il problema è se quel che è rimasto della classe politica orvietana sia pronta a recepire le idee di un certo spessore o sia piuttosto interessata a boicottarle. Tu fai bene a ricordare e a difendere la capacità progettuale pubblica degli anni Ottanta della quale fosti protagonista. È un tuo sacrosanto diritto, anzi un tuo preciso dovere. Ma bisognerà pure riflettere bene sui motivi per cui quella stagione entrò (anzi, fu mandata) in crisi e tenere presente che la stirpe orvietana non dimostra di essersi particolarmente evoluta. Da parte mia potrei rivendicare di aver collaborato con un ruolo non secondario alla rivalorizzazione del significato della Tuscia e, soprattutto, all’approfondimento del concetto di sistema urbano. Partivo dall’assunto che una cittadina può essere molto orgogliosa di sé, ma se non ha un vasto territorio di riferimento, una adeguata pluralità di comunità che gravitino su di essa, non ha il “rango” di città; e l’orgoglio non basta. Sostenevo pure – e sostengo – che la regione Umbria è una disgrazia per l’Italia, ma soprattutto per Orvieto, non potendone consentire, per mille ragioni, la riappropriazione del rango di città. Quindi, a mio parere, le idee razionali, brillanti e costruttive sono indispensabili, ma per camminare sulle gambe degli uomini ci devono essere gli uomini con le gambe. E, poiché sappiamo che l’ “uomo solo al comando” è una battuta adatta al ciclismo, ma non alla politica, non si può pescare un’adeguata classe dirigente in una cittadina orgogliosa, ma che non si preoccupa abbastanza di ridiventare una città. Da qui la necessità della massima attenzione (che solo il COVIP può vantare) alla riorganizzazione istituzionale del comprensorio e all’apertura alla Tuscia viterbese, alla quale, tanto per cominciare, dovremmo contendere più efficacemente studenti per le nostre scuole, ammalati per il nostro ospedale, spettatori per il nostro teatro e clienti per i nostri negozi.
I proclami di Grillo e le espulsioni da M5S. Fine di un incantesimo?
“Contro tutti, adesso anche contro se stesso. Beppe Grillo è ormai un incendiario in servizio permanente effettivo. Ogni giorno una invettiva senza soluzione di continuità e di logica apparente. Ogni giorno un editto sempre più gonfio di risentimento, senza escludere neppure trucchi da quattro soldi. Il referendum indetto su di sé non è altro che un invito mascherato al linciaggio verbale della senatrice ribelle, puntualmente raccolto. È come se avesse capito che le acque si sono richiuse, e non da ieri. L’incantesimo aveva una data di scadenza molto ravvicinata, a causa della miscela di sentimenti volubili, destinati a evaporare presto. Lo Tsunami di febbraio, ovvero la voglia di ribaltare il sistema, ha lasciato posto a una frustrazione evidente. Guardando le piazze di quest’ultimo giro elettorale, mai davvero piene, forse Grillo si è accorto di avere compiuto un capolavoro alla rovescia. Nel giro di pochi mesi è riuscito a cristallizzare l’immagine dei Cinque Stelle nella protesta fine a se stessa, scordando che il mandato ricevuto dai tanti elettori provenienti dal bacino del voto di opinione, di destra o sinistra che fossero, era di cambiare le cose, almeno provarci. La reazione a questo gol sbagliato a porta vuota è stata la costruzione di una bella torre d’avorio, virtuale s’intende, dove c’è spazio per lui, ben lontano da Roma, l’unico luogo che conta se hai intenzione di esercitare un minimo di controllo sui 163 tuoi cittadini, e per i fedeli alla linea, per quelli cresciuti a pane e meet up, che non esercitano il dubbio, mai. Per loro c’è posto. Gli altri, i molti parlamentari M5S stanchi di fare le belle statuine e ancora desiderosi di esercitare quel mandato elettorale ricevuto a febbraio che oggi sembra in contrasto con le grida del Capo, si accomodino all’uscita. O così, o niente”. (Marco Imarisio)
F. Io non so se si possa parlare o no di fine di un incantesimo come sembra dare ormai per scontato l’autore di questo brillante articolo. Sono però convinto che si tratta di una crisi di M5S largamente prevedibile, come era prevedibile il suo successo anche se certamente non nella misura con cui poi in effetti si è verificato. In realtà, tutti i movimenti che si affermano abbastanza all’improvviso all’interno di crisi epocali (come è quella che viviamo), e più per demeriti altrui che per meriti propri, mai avanzano indisturbati come correndo su un’autostrada fino al casello terminale. Questa è stata l’illusione del duo Casaleggio-Grillo. Oggi, finito repentinamente come del resto era cominciato l’innamoramento popolare, M5S probabilmente si avvia a diventare, dovendosi misurare con le logiche istituzionali della democrazia e con i problemi brutalmente concreti, una formazione strutturata come le altre, con una classe dirigente meno improvvisata e una base di consenso più ristretta e magari anche fortemente oscillante, come del resto è destino di tutte le formazioni. Ma nessuno si faccia illusioni, questo di sicuro non è un lasciapassare per il ritorno alla tradizionale politica politicante: se le ragioni per le quali quella folata di protesta che si è manifestata in modo così travolgente nelle elezioni di febbraio non verranno rimosse (e molte cose dicono che la memoria corta è piuttosto diffusa), in qualche modo il bisogno di cambiamento (quello vero, che è fatto di sostanza e non di evanescenti getti di fumo) tornerà presto a manifestarsi. E le forme, oltre all’astensionismo, potrebbero anche essere peggiori di quelle rappresentate dagli strilli e dal linciaggio verbale di un comico.
P. L’articolo da te riportato mi sembra esprimere il sollievo di chi era stato spaventato di brutto dal successo dei grillini alle elezioni politiche. Io non m’ero spaventato per niente e la crisi del grillismo non mi diverte particolarmente. Ho ritrovato nel grillismo molti elementi del movimento allo stato nascente che furono propri del “Fronte dell’Uomo Qualunque” inventato da quel geniale oratore, giornalista e commediografo che fu Guglielmo Giannini negli anni Quaranta del secolo scorso. Ho studiato il qualunquismo all’università e ho avuto dimestichezza con amici dei miei genitori che l’avevano condiviso e ne parlavano con nostalgia e disillusione temperata dalla convinzione che qualcosa fosse rimasto. Rimarrà di Grillo lo sberleffo contro i politicanti, i palloni gonfiati e i bischeri pieni di p… Rimarrà la volgarità utile, quella classica di Plauto che l’elegante Guglielmo Giannini, col suo monocolo, non era stato in grado di resuscitare. Non rimarranno le idee; ma pazienza: di idee era già pieno il mondo.
La democrazia sembra un malato grave. Come si può curare?
“Non essere amate. Questo è il pericolo maggiore per le nostre democrazie, solo apparentemente consolidate ma dai più accettate come qualcosa che si dà per scontato, presenza noiosa ma comoda, e tollerata giusto perché è comoda. I cittadini delle odierne democrazie occidentali paiono “bambini viziati” (espressione di Ortega y Gasset). Sempre pronti a ricevere, un po’ meno a dare, salvo il minimo indispensabile e soltanto dietro minaccia di sanzione. E allora risulta necessario correre ai ripari, e in fretta”. (Danilo Breschi)
F. Danilo Breschi ritiene che ci siano due possibili strade per curare la crisi di affezione che mina le nostre democrazie: una consiste in un’operazione di vera e propria acculturazione democratica mediante la conoscenza del lungo e faticoso cammino con cui infine siamo giunti a questa forma di organizzazione della convivenza umana nelle diverse condizioni in cui si è potuta realizzare; l’altra è di spiegare in modo chiaro e comprensibile a tutti che cosa è democrazia e che cosa non lo è. Ed esalta l’opera di Giovanni Sartori che ha scelto appunto da sempre questa seconda strada (fin dal 1957 con la sua famosa opera Democrazia e definizioni), preoccupandosi ad esempio di definire in modo inequivocabile la parola democrazia.
Senza sottovalutare l’importanza dell’educazione del popolo (a partire ovviamente dalle nuove generazioni) alla comprensione delle radici, delle ragioni presenti e dei vantaggi dei sistemi democratici in rapporto alle altre forme di organizzazione politica delle società storicamente esistite ed esistenti, mi sento di dire che questo aspetto, pur rilevante (compito peraltro non solo degli studiosi), è però certamente del tutto parziale e insufficiente. Ci vuole ben altro oggi sia per immaginare che per adottare e realizzare cure efficaci. Io penso che soprattutto si debba dimostrare che la democrazia funziona: ascolta, elabora, decide, preoccupandosi di farlo per il bene di tutti. Per questo conta molto l’esempio di chi ha compiti di governo ai diversi livelli. Contano di conseguenza le qualità delle persone che vengono elette o nominate e dunque anche i relativi meccanismi di selezione. Credo che siamo giunti allo snodo e il tempo stringe. Tu che ne pensi?
P. I peggiori nemici della democrazia mi sembrano il moralismo e la retorica. Gl’Inglesi, che hanno inventato la moderna democrazia rappresentativa senza tagliare la testa agli aristocratici, ne parlano e ne scrivono molto meno di noi. Gli aristocratici li hanno messi a sedere nella cosiddetta “camera alta” per ricordare che fu la loro antica pretesa nei confronti del sovrano a salvare sia loro che la monarchia e a dare una svolta storica alla politica inglese e una lezione al mondo. Sono tanto sicuri della loro democrazia che nemmeno hanno voluto scrivere la loro costituzione e quindi non hanno bisogno di pagare i comici perché la spieghino al volgo televisivo. Nel brutto momento che attraversa la democrazia italiana, soprattutto in termini di classe dirigente, mi sembra che manchino partiti veri con le loro scuole, i loro convegni, con la preparazione degli amministratori locali e la sana competizione per accedere ai livelli più elevati. Ma per risolvere tale problema c’è bisogno di soggetti con elevato senso etico, capaci di motivazioni profonde e quindi in grado di illuminare la strada. Ogni tanto ne vedo qualcuno e spero che non mi deluda.