Caro amico, questa settimana ti scrivo …
Pier Luigi Leoni
Caro amico, così ti rispondo …
Franco Raimondo Barbabella
Tutta colpa della Germania?
“La crisi dell’Europa è un fatto vero. Il continente è diviso da una frattura profonda. Da un lato i Paesi baltici, dall’altro tutti gli altri e non solo quelli più mediterranei. Siamo di fronte a qualcosa che è molto vicino ad un circolo vizioso, come quello che studiò Ragnar Nurske, alla fine degli anni ’60. Un gruppo di Paesi che si sviluppa sempre più, il resto che regredisce. In queste condizioni l’euro è divenuto una coperta troppo stretta. Si può tirare da una parte e dall’altra, ma se la tensione aumenta il possibile strappo è nell’ordine naturale delle cose. Colpa della Germania? In larga misura sì. Non è mai cambiata. Alla fine degli anni ’80 lo scontro fu con il Fmi. Di fronte alla richiesta di un suo maggiore impegno per lo sviluppo, al fine di contribuire ad un miglioramento complessivo del quadro internazionale, la risposta fu quasi sgarbata: “qualcosa di molto remoto dalla realtà della situazione tedesca”. Vale a dire: “politicamente irrealistico”, come ricorda lo stesso Fondo nel suo studio Silent revolution. Si poteva pure comprendere. La Repubblica Federale doveva accumulare risorse nella speranza di una ormai prossima unificazione. Progetto al quale ha contribuito e non solo sul piano politico, ma finanziario l’intero Occidente. La crisi del ’92 fu, infatti, anche figlia delle modalità scelte per conseguire quell’obiettivo. Ma oggi? Se la riconoscenza non vale nelle relazioni internazionali, almeno dovrebbe prevalere il senso più profondo della storia. La ricerca di un’assoluta supremazia è costata due guerre mondiali e la sua stessa distruzione. I tempi sono cambiati. Ma la cultura di quei lontani anni è rimasta, più o meno, la stessa”. (Gianfranco Polillo, www.huffingtonpost.it 6 giugno 2013)
P. Un discorso che non mi piace per niente. Evocare gli spettri del passato come se la storia tendesse a ripetersi, è un metodo poco rispettoso della storia; è un modo per nascondere la povertà d’idee e di proposte. Il fatto è che ogni popolo ha la sua indole; e i Tedeschi sono dei grandi organizzatori e cultori della disciplina. Bisogna ammetterlo, sono più produttivi degli altri; meritano di essere più ricchi. Se in ogni nazione c’è chi è più ricco e chi è più povero, a seconda della classe sociale, perché meravigliarsi se vi sono nazioni di classe A e nazioni di classe B? Il benessere dei Tedeschi si basa sulla produttività, quello periclitante degli Italiani si basa sul debito. Perché ce la prendiamo con l’Unione Europea? Gli Stati più deboli degli USA convivono con quelli più ricchi e nessuno parla di spaccare l’Unione o del rischio di un’altra guerra civile.
F. Io non credo nell’esistenza di inclinazioni naturali dei popoli, di una indole di ciascuno che lo distinguerebbe dagli altri. Credo invece che a fondamento dei giudizi storici ci siano solo i fatti e le loro interpretazioni, che ovviamente possono essere anche di lungo periodo, ed è questo che può indurre a pensare all’esistenza di inclinazioni. Ma, detto ciò, ritengo che il tuo ragionamento abbia una sua ragion d’essere se lo si riferisce a ciò che nelle condizioni storiche reali si è concretamente determinato. Per me però, lo ribadisco, ciò che c’è può non esserci più e ciò che è stato può cambiare. Altrimenti che senso avrebbe il pensiero umano e l’agire connesso al pensiero, secondo la straordinaria elaborazione dell’idea di politica buona proposta da Hannah Arendt a seguito delle tragedie dei totalitarismi del novecento? L’Europa non è stata certo un regalo: è nata dal grido ‘mai più la guerra’ ed è stata costruita passo dopo passo da statisti capaci di agire con lo sguardo lungo rivolto al bene dei popoli. Oggi non ci sono più quegli statisti, lo sguardo è tornato corto e facciamo di nuovo i conti con gli egoismi e i particolarismi. Concordo dunque con te che il pericolo di lacerazione dell’unità europea non è solo colpa della Germania, seppure la sua attuale classe dirigente forse nemmeno ricorda i nomi di Adenauer e di Brandt. E so anche bene come te che l’Italia ha le sue colpe: una classe dirigente che asseconda da sempre particolarismi, clientelismi, affarismi e caste, fatica poi inevitabilmente a stabilire buone regole e a farle rispettare. Non solo, ma adotta politiche sciagurate, non essendo capace nemmeno di copiare dagli altri, ad esempio dagli Stati Uniti. Lì la crisi è stata affrontata intervenendo prima di tutto sulle banche con massici prestiti pubblici (da restituire) in modo da evitare crisi di liquidità e garantire continuità di flusso al prestito ai privati e alle aziende, e solo dopo sulla riduzione del deficit con taglio delle spese. In Europa e soprattutto da noi in Italia si è fatto esattamente il contrario: non sono state ricapitalizzate le banche e invece di diminuire le spese si sono aumentate le imposte. Ed ecco i risultati: mentre negli USA la crescita è del 2% all’anno e diminuiscono in modo significativo deficit e disoccupazione, in Italia siamo già da tempo in recessione nera, centinaia di migliaia di aziende chiudono e aumentano debito e disoccupazione (quella giovanile è ormai oltre il 41%). Ecco allora, esiste una responsabilità della Germania, e più in generale di classi dirigenti dell’Europa timide, egoiste e scarsamente capaci di progettare il futuro. Ma esiste soprattutto per quanto ci riguarda una responsabilità delle classi dirigenti italiane e di chi ha permesso loro di bearsi di un modo di fare politica che non da oggi era chiaramente disastroso. Ma non bisogna fare le anime belle. Perciò, e parlo solo per me, stabilite le rispettive colpe, bisognerà non rassegnarsi ad un presunto “destino cinico e baro” e assumerci le responsabilità che ci spettano in un mondo che richiede non meno ma più Europa.
Ombrello o Manganello?
“Una manganellata, l’unica ipotesi considerata nelle ore successive: il sindaco e gli assessori hanno apertamente accusato le forze dell’ordine, lo stesso prefetto aveva telefonato a Di Girolamo “rammaricandosi dell’accaduto”. In serata però spuntano alcuni video – di cui uno diffuso dalla stessa Polizia – che aprono il campo ad una seconda ipotesi: a colpire il sindaco Di Girolamo sarebbe stato un manifestante con un ombrello. Nel filmato si vede l’uomo sferrare due ombrellate proprio nel momento di massima tensione, quando anche i poliziotti erano in azione con i propri manganelli. Impossibile, guardando i video a disposizione, capire con certezza se a colpire il sindaco sono state le ombrellate o le manganellate”. (Alessandro Guerra, www.blogo.it, 6 giugno 2013)
P. Sapremo mai se è stato l’ombrello o il manganello? Sinceramente me ne frego. Però i fatti di Terni hanno suscitato una grande emozione nell’opinione pubblica nazionale; non credo per il sangue del primo cittadino, ma perché la situazione del mondo del lavoro fa paura e si palpa il rischio di eventi insurrezionali. Speriamo che le forze dell’ordine siano all’altezza della situazione, che potrebbe diventare non facile.
F. Forse nel Paese dei misteri non ci meraviglieremo più di tanto se tra vent’anni non si sarà ancora riusciti a stabilire ufficialmente chi ha dato quella botta in testa al sindaco Di Girolamo. In effetti bisogna dire, come ha affermato anche l’interessato, che la cosa importante non è sapere di chi è la mano che ha colpito ma il fatto stesso che qualcuno ha colpito qualcun altro nel corso di una pacifica manifestazione per salvare la fabbrica che ha fatto la storia della città. Si è detto che la gestione dell’ordine pubblico non è stata all’altezza della situazione, si sono fatte analisi sociologiche su ciò che è cambiato nella società e nei comportamenti dei manifestanti dagli anni cinquanta in qua, si sono richiamate le parole di Pasolini che considerava i poliziotti proletari come altri proletari per dire che mai e poi mai un poliziotto colpirebbe col manganello un manifestante, ragion per cui di sicuro si è trattato di un’ombrellata. Parole, parole, parole. I fatti dicono che è a rischio la tenuta sociale della nazione. E deve essere proprio vero se se ne sono accorti anche gli industriali. Ma la questione non si risolve certo facendo appello alla capacità di gestione dell’ordine pubblico e nemmeno con i pressanti inviti a Enrico Letta a generare crescita, a fare presto e a dare addosso ad Angela Merkel perché allenti il cappio del rigore. Ho tanto l’impressione che in ogni angolo del Paese si debba riflettere alla svelta e cambiare impostazione nelle strategie di governo. Credo che la questione riguardi tutti. Anche la nostra città.
Ceramiche in scatola
“Ora, dopo i vari articoli polemici di qualche tempo addietro sulle ceramiche Perali e Curti, a cui oggi si aggiungono i sei pezzi della Signora Prencipe, credo che sia giunto il momento di occuparsi, in modo costruttivo e partecipato, dei lasciti/acquisti, della loro esposizione, della formazione al fine di non perdere anche questa opportunità per far conoscere al mondo intero, non solo Orvieto, ma le professionalità esistenti valorizzandone le competenze”. (Cristina Calcagni Orvietosì 7 giugno)
P. Questo tormentone sul museo della ceramica o, più propriamente, sul centro di documentazione della ceramica orvietana, è destinato a durare a lungo; almeno fino a quando non ci si renderà conto che ormai le iniziative culturali del comune o si fanno a costo zero (o quasi) o non si fanno più.
F. Io credo che Cristina Calcagni sia nel giusto quando invoca un atteggiamento seriamente operativo rispetto al nostro patrimonio ceramico ai fini della sua conservazione e valorizzazione. D’altronde esso è parte rilevante del più vasto patrimonio della città e della nostra tradizione artigiana e artistica, ragion per cui non è certo una bestemmia parlare di una politica che finalmente affronti i problemi in modo organico. Anzi, come noi stessi abbiamo detto tante volte, è dal patrimonio culturale e storico-artistico che la città può trarre la spinta a risollevarsi da quello che sembra essere ormai un destino di irreversibile degrado. Certo, le iniziative culturali costano e naturalmente si farà ciò che è possibile. Ma il possibile non è mai un regalo; semmai è un’opportunità che deriva da sforzi spesso prolungati per anni che impegnano fantasia, ragionamento, capacità d’iniziativa e di organizzazione. Chiamerei tutto ciò governo. In questo caso della città.