di Silvio Manglaviti – Università Popolare della Tuscia
Orvieto la festa i fiori la tradizione e la storia. Dalla Palombella all’Assunta, la Urbs Vetus medioevale instabile ed irrequieta, cambiava volto e si trasformava nella città in festa, dei colori, dei profumi, e anche dei ludi che – seppur per un momento – si sostituivano alle scorribande e alle persecuzioni, sublimando e anestetizzando faziosità e divisioni.
Qui da noi, la festa di Pentecoste, il cinquantesimo giorno sette settimane dopo la Pasqua ebraica, che nei cristiani celebra lo Spirito Santo, è la “Palombella”, locale tradizione medioevale sulla scenografia di un artefatto pirotecnico, iconografia classica della colomba bianca nel cerchio d’oro (“La Chiesa Trionfante” di Raffaello; Stanza della Segnatura nei Musei Vaticani), che discende fragorosamente fin dentro la macchina allestita sul sagrato della Cattedrale che ricorda il reliquiario di San Savino. Sacra Rappresentazione di una teofania archetipica: cielo, fragore, vento impetuoso, lingue di fuoco, secondo il canone cattolico (At 2,1-13): «… si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.»
Legame ancestrale quello tra la colomba e Orvieto dove i prolifici piccioni assediano edifici e monumenti così come a Venezia … o Babilonia; volatile tanto apprezzato, prelibato ingrediente principe della gourmandise “palomba alla leccarda”, quanto temuto e perseguitato. Legame atavico per i diffusi colombari sparsi ovunque in tutto il territorio: diffusi e frequenti i toponimi Palombaro, Palombara. Allevamenti delle genti etrusche a scopi alimentari o, per la peculiare caratteristica residenziale di questi uccelli, quali mezzi di comunicazione. La Rupe è un colabrodo di colombari e colombari si trovano a Ciconia, e sui versanti del Peglia e su quelli dell’Alfina, a Rocca Ripesena, nella Tuscia Orvietana, da San Lorenzo a Bisenzio a Pitigliano, Sovana. Già noti in Mesopotamia, Egitto e bacino mediterraneo, nella Grecia classica sono il simbolo dell’“ombelico del mondo” oracolare (Erodoto, Storie, libro II, 54-57); i romani edificavano apposite torri colombario per i colombi viaggiatori, prototipo dei sistemi di comunicazione da integrare ai segnali visivi per mezzo di fuochi, bandiere, specchi. Il piccione è resistente e può volare anche per dieci ore senza mai prender terra, sfruttando le correnti e coprendo enormi distanze anche sul mare.
Divinità mitologica dell’armonia, della fedeltà, dell’amore, della fertilità, della fecondità (Ishtar, Astarte, Tanit, Anat, ‘Ata, Atargis), la colomba rappresenta anche il sesso lascivo, la seduzione; in Grecia, incarna Aphrodite, e a Roma colombe erano offerte a Venere. A Babilonia, la città delle colombe, Semiramide in versione terrena assumeva le forme d’una colomba. Ad Erice sono le protagoniste della “Festa del Ritorno”. Enea, esortato dalla Sibilla Cumana alla ricerca del ramoscello d’oro nell’Averno, vi è aiutato da due colombe, tanto care alla madre (Aphrodite) «… uix ea fatus erat, geminae cum forte columbae / ipsa sub ora uiri caelo uenere uolantes …» (Virgilio, Eneide, Libro Sesto, 190-211).
Nella tradizione cristiana, inizialmente collegata al sacramento del battesimo in quanto manifestazione divina durante il battesimo di Gesù, è strumento mediatico, messaggero della rinnovata pace tra Dio e l’umanità (Diluvio; ramoscello d’ulivo).
Ma la colomba è anche uno dei simboli dell’Eucaristia: nella Chiesa delle origini “celati” dentro simulacri a forma di colomba si custodiscono le specie del pane e del vino. Per questo la colomba torna come ‘pane dolce’, tipico simbolo pasquale: con l’uovo; forse derivato da tradizioni longobarde (San Colombano).
La scenografia della Palombella orvietana, colomba e torre, riprende la tradizione canonica riguardo alla custodia eucaristica nelle prime basiliche, che, prima degli armadietti e dei tabernacoli, ebbe due forme: la torre e la colomba (cfr. Mons. Mauro Piacenza “La custodia dell’Eucarestia. Il Tabernacolo e la sua storia”, Pontificia Commissione per i Beni Culturali Della Chiesa. Casamari, 31 luglio 2004). La torre custodiva la colomba che conteneva il pane eucaristico. Torri d’argento e colombe d’oro. Il bibliotecario Anastasio scrive nel De vita Pontificum che Costantino donò alla Basilica di S. Pietro una torre ed una colomba di purissimo oro, impreziosita da duecentocinquanta perle bianche; Innocenzo I fece costruire per la chiesa dei S.S. Gervasio e Protasio una torre d’argento ed una colomba d’oro e Papa Ilario donò alla basilica del Laterano una torre d’argento ed una colomba d’oro. Le Costituzioni Apostoliche, IV secolo, riportano che queste fossero custodite nel Pastophorium, il luogo più ritirato e inaccessibile della chiesa. Le specie eucaristiche si introducevano nella colomba tramite una piccola apertura praticata sul dorso e chiusa con cura per mezzo di un coperchio a cerniera. Le torri e le colombe venivano sospese, per mezzo di catenelle, al centro del ciborio che ricopriva l’altare. In S. Lorenzo de arari è visibile il ciborium (successivamente definito anche tegurium e tíburium); e così sull’altare del miracolo in S. Cristina a Bolsena. Padiglione a pianta quadrata che, fino dal tempo di Costantino, sovrasta l’altare, sotto il ciborio se ne innalzava a volte un altro, di piccole dimensioni, il peristerium (colombaio) che custodiva la colomba eucaristica. Le quattro cortine che cingevano il ciborio, dette per questa caratteristica tetravela, rimasero in uso fino agli ultimi anni del secolo IX.
Riporta Luigi Fumi, promotore del valore identitario culturale degli Orvietani, nella pubblicazione “il Santuario del SS. Corporale nel Duomo di Orvieto” (1896): «… l’Eucaristia si custodiva entro il calice … nel tempo, in che la riverenza verso il SS. Sacramento, il timore di sfregi che i persecutori ed eretici potessero inferire ad esso, consigliavano occultarne le tracce. Le stesse reliquie ascondevansi ai fedeli, come attestasi dal canone 62 del Concilio Lateranense IV sotto Innocenzo III, e le rivelazioni eucaristiche non potevano in alcun modo mostrarsi. Il Concilio di Colonia confermava il principio stabilito dalla tradizione del diritto: Si Hostia transformetur in cruentam carnem seu sanguinem apparentem, occultetur penitus et omnino, iuxta traditionem iuris, nec populo quomodolibet publicetur seu ostendatur. Ma dopo il miracolo di Bolsena, la Chiesa ruppe le vecchie tradizioni, e mise alla luce del giorno quello che operava il Signore nelle meraviglie eucaristiche. … Da quel tempo in poi l’Eucaristia non fu più lasciata in luogo recondito, ma venne collocata in armadietti o cibori a fianco dell’altare colla lampada accanto. Così fu praticato pure in Orvieto, e si ha memoria che nel Duomo, rinnovato dopo il prodigio di Bolsena, si teneva il SS. Sacramento in una nicchia nel muro circondata da cancelli … Qui, vicino ad Orvieto, è rimasto ancora uno di questi cibori nel sito stesso dove fu murato dapprima; e cioè in Montefiascone, nella chiesa di S. Flaviano, dove si vede ancora intatto. Nella stessa chiesa si è poi fatta ora un’importante scoperta nelle pitture riapparse di sotto all’intonaco, e cioè la figura di Papa Urbano IV, sul cui petto fiammeggia un sole. È questo un nuovo e importante simbolo eucaristico … la maestosa figura di Urbano IV, vestita degli abiti pontificali, colla destra in atto di benedire, col Sole eucaristico sfavillante in mezzo al petto; sopra di essa … le parole … “Beatus Urbanus P·P” … Urbano IV nel 1263 aveva appreso in Orvieto del prodigio eucaristico avvenuto in Bolsena: lo aveva constatato egli stesso coi propri occhi, aveva riposto nel sacrario della cattedrale l’ostia e il calice sui quali era avvenuto il prodigio, aveva commesso a S. Tommaso e a S. Boanventura la recognizione del fatto, e aveva approvato nell’anno seguente la messa e l’uffizio del SS. Sacramento, opera mirabile di sapienza teologica e di mistica sacra dell’angelico Dottore. Con la bolla Transiturus tutta improntata allo stile lirico di S. Tommaso egli istituì la solennità del Corpus Domini, che era il voto di tante pie persone e sopra tutto dell’Aquinate e di S. Bonaventura.»
Il culto dell’Eucaristia si incentra nelle cosiddette mostranze, che moltiplicavano le esposizioni eucaristiche, culto pubblico del “Corpus Domini” con l’ostia esposta all’adorazione dentro un ostensorio. La pratica delle mostranze era così radicata nel popolo che talune misure restrittive di alcuni Sinodi non riuscirono a limitare. Nasce da queste il Corpus Domini, celebrato dai canonici di Liegi nel 1247. Papa Urbano IV, nel 1264, da Orvieto con bolla Transiturus estese la solennità a tutta la Chiesa che nel 1316 fu definitivamente approvata da Giovanni XXII.
La Palombella orvietana è legata a Giovanna Monaldeschi della Cervara che nel 1524, tra i lasciti all’Opera del Duomo comprese anche la perpetuazione della festa che all’origine aveva luogo all’interno del Duomo. Due secoli di campagne militari, lo scontro guelfi – ghibellini, la guerra all’eresia, le lotte rivali, tra i diversi casati e quelle fratricide tra rami della stessa famiglia, ebbero un momento ‘alto’ di conciliazione nella pace suggellata l’anno 1465 dal matrimonio di Pietro Antonio Monaldeschi della Vipera “melcorino”, con Giovanna di Gentile Monaldeschi della Cervara, dei Muffati. Fu un matrimonio pubblico combinato dal Papa Paolo II, tuttavia le “nozze monaldesche” ebbero nell’evento religioso della Palombella promosso e rinvigorito dalla stessa Giovanna l’avallo popolare al traguardo politico-sociale, civico, raggiunto.
Ad Orvieto, nel Medio Evo, come in altre città, ogni luogo urbano possiede la propria peculiare destinazione d’uso. La Piazza del Duomo è il luogo delle feste religiose, la Piazza Maggiore (oggi della Repubblica) è lo “spazio pubblico” che accoglie “fin dall’inizio, la doppia rappresentazione del potere delle Arti: l’aspetto ludico, come la quintana e altri giochi; quello repressivo, con le esecuzioni, anch’esso spettacolare e pubblico.” (Riccetti, La Città Costruita, Firenze 1992)
Tutta la città era coinvolta e “faceva da sfondo” nella festa. La stupenda idea del Comitato dei Quartieri, e lo spirito creativo di quello di S. Giuseppe, di riproporre la bellezza conciliante dei fiori, ci riporta alle cronache medioevali di quando dove un tempo bazzicavano liberi i maiali, il campos porchorum, i Sette stabilirono una diversa destinazione d’uso del luogo cambiandolo in Campo de’ Fiori: «Eodem tempore, Ciutius domini Zaccharie fuit factus miles a domino Benedicto, nepote domini Bonifatii pape, qui imposti nomen suum et vocatus fuit dominus benedictus, et fuit factum magnum gaudium et astiludia in platea, ubi erat domus eius, que prius vocabatur campos porchorum, deinde vocata est campus florum» (dicembre 1315). Il Campo de’ Fiori, campus florum, luogo anche di giostre e tornei, i cosiddetti astiludii – cerimonie di iniziazione cavalleresca – era situato in Piazza F.A. Gualterio, meglio nota come “Piazzetta S. Giuseppe” alias “della Croce Rossa”. Tra l’altro, proprio qui il cardinale orvietano Teodorico Ranieri edificò la sua residenza, “MCCLXXXVIIIJ. Detto anno, messer Theudorico orvietano di patria e d’affezione, cardinale, fu Capitano del Patrimonio, fundò il palazzo incontro a Santa Cristina de Bolseno et fundò la casa in la campagna della rocca de Repeseno, ditto Palazzo Cardinale. Così in Orvieto, feci la sua bella casa de Campo de Fiore …” (Cronaca di Luca di Domenico Manenti (p. 333) in “Raccolta degli storici italiani dal 500 al 1500, ordinata da L.A. Muratori”, ed. diretta da Giosuè Carducci e Vittorio Fiorini, Zanichelli, Bologna 1918, Tomo XV, Ephemerides Urbevetane. Vds. anche, Roberta Galli: ASO, ASCO, Catasti, 412, (fine sec. XIV), fasc. XIX, (De Rocha Ripiseni c. 44v e c. 47r) “… pleberio in contratam Palatii Cardinalis …”.
“Nei momenti della festa i luoghi si trasformavano e si abbellivano facendo da sfondo, nel progressivo processo di idealizzazione della città, a tutta una serie di feste e spettacoli a loro volta tesi, nella volontà dei governanti, alla realizzazione di un’immagine unitaria della società. Essi permettevano, in questo modo, di reintegrare nell’immaginario urbano, filtrati attraverso l’artificio rituale ed il gioco, quei contenuti che la convenienza e la sicurezza pubblica rifiutavano.” Le piazze fungevano “da scena per tali manifestazioni” avendo “ben presto acquistato la valenza di «spazio simbolico» per eccellenza”. Nei libri contabili del cantiere della cattedrale figurano le spese per la ripulitura della piazza e delle scale della chiesa per la festa dell’Assunta, poi per quella del Corpus Domini. “Per un giorno o due ci si dimenticava del cantiere e la piazza veniva sgombrata e addobbata con giunchi e fiori e si facevano «le tende de l’onoro per la chiesa et ne la piazza» … Il momento particolare della festa era l’albero del ‘maggio’ e l’Opera era incaricata di predisporre tutto il necessario, dal reperimento degli alberi al loro trasporto, dalla predisposizione delle buche all’innalzamento del ‘maggio’ e alla sua decorazione …«ad defitia riatanda pro trahendo sursum kalendimaia conficta in dicta platea … frasca rum impositarum in summitate kadalemaiorum confictorum in dicta platea»” (Riccetti).