(da Zorro, a cura di Gianni Marchesini)
Mio padre e mia madre dicevano che dovevano passare dagli Svizzeri. E io mi chiedevo ma chi saranno questi Svizzeri, da dove saranno venuti, come saranno capitati qui.. Non erano le tigri di Mompracem, né i Pirati della Malesia, tanto meno i cavalleggeri di Fort Apache. Erano gli Svizzeri, esotici, misteriosi e al tempo stesso familiari.
Sono entrati in casa mia e nella mia immaginazione come fantasmi realissimi, inquilini di un mondo in cui i negozi si riconoscevano semplicemente dal nome di chi ti aspettava con il pane, le fettine, le calze, i bottoni.. Non era il macellaio, era Bertino, e così i generi alimentari erano Fulvio, le sigarette della macchina da cucire Martino, il bar Dino, le scarpe l’Urania..
E’ curioso, adesso che ci penso, i negozi vicino casa, una piazzetta a due passi da S. Angelo, si chiamavano con il nome proprio, mentre man mano che salivi per il Corso diventavano Cicognolo, Lombardi, Simoncini, Coscioni, Perali, Carbonari.., quasi che aumentassero di autorevolezza e diventassero un po’ più remoti e preziosi e la confidenza lasciasse il posto alla distanza del cognome. Solo Lucidi era Lillo perché era amico di mio padre. Poi, dopo il cappellaio Zanchi, la vernicetta di Bruzzi, i vetri di Duranti e il Bar di Barberani, che solo quando sarei cresciuto sarebbe diventato il Sor Vittorio, si arrivava da Fioco, con le promesse inarrivabili della sua vetrina, il salmone, il caviale, il tartufo.., stranissime entità di cui ci parlava lo zio Cillo quando veniva a trovarci, mescolandoli con altri misteri come il forcipe, il fibroma, la placenta, il travaglio.. e tutto si confondeva nella mia testa e mi rivelava l’esistenza di un’altra realtà, fatta di parole che potevano incantare o presentarsi con un’ombra paurosa, se non altro per il tono con cui venivano pronunciate.
E’ bella quell’età in cui senti il fruscio delle parole e non le capisci, ne avverti il rumore, ne percepisci il colore, direi quasi il profumo, e restano appese come i panni al vento attaccati con le mollette di legno che appena li trattengono e li fanno svolazzare leggeri. Senza peso.
E davanti a Fioco, eccoli, Gli Svizzeri. Esistevano. Non si entrava in un negozio. No, era una fucina miracolosa, un paese di balocchi che si presentavano dalla vetrina, con quella trasparenza che li offriva alla vista e insieme li rendeva inaccessibili. Montagne di caramelle, almeno così mi pare di ricordarle, torri di cioccolate Novi o Zaini e, poi, l’arcano delle bottiglie.
Gli Svizzeri si presentavano così, con la promessa di una goduria che poteva essere senza confronti e con il punto interrogativo di quelle bottiglie, metafisiche come nemmeno sui quadri di Morandi. Tutto immerso in un profumo inconfondibile, che penetrava nel naso e ti avvolgeva tutto, gradevole e indecifrabile. Un’aria diversa e ogni volta riconoscibile, come del resto accadeva negli altri negozi, reami ognuno dell’olfatto, che tornano ad affiorare non appena si riapra la boccettina della memoria.
Sentivo parlare di vermut, di alkermes, di marsala, li vedevo manifestarsi dietro al bancone con le etichette colorate, sulle mani di una signora minuta e gentile che, l’ho capito dopo, aveva il rispetto di chi entrava in un negozio che era il suo e però era anche un servizio, una missione rivolta alla Città, in cui il guadagno era il corrispettivo giusto di un impegno assunto e svolto nel modo migliore e cioè in quello in cui doveva essere fatto.
Ma c’era qualcosa che spostava nella magia di un posto sospeso tra la scena con cui si manifestava e l’allusione a un retro invisibile e per questo ancora più attraente. Le bottiglie arrivavano da lì e pensavi a un antro occulto e portentoso in cui degli gnomi infaticabili inventavano ricette, accendevano fuochi, mescolavano pozioni e, soddisfatti della loro arte, riempivano alla fine quegli involucri sorprendenti. E di certo lavoravano alacremente a produrre quell’aroma forte ed inebriante che non sapevo a cosa attribuire, perché in quel tempo dell’in-fanzia un aroma così intenso poteva vivere anche di se stesso, come un effluvio che si diffondeva da quella caverna nascosta e raccontava di prodigi strabilianti e impenetrabili. Era il caffé. E ci avrei messo un sacco di tempo per capire che quella parola imponente, torrefazione, che faceva mostra di sé sull’insegna, non aveva nulla a che fare con i grattacieli di tufo e le parti avverse che avevano dilaniato la Città.
Il Sor Giovanni non aveva un posto fisso. Lo vedevo apparire e scomparire. E mi sembrava ancora più grande di quanto forse non fosse. Grande e buono. Non intimoriva perché entrava e usciva da una favola. Era Gulliver, era il gigante che proteggeva e vegliava su tutto quell’universo mirabolante e stupefacente. Lo riportava a terra, ne garantiva la solidità, lo rendeva affidabile e rassicurante. C’era lui, sorridente come un Babbo Natale trainato dalle renne, e non poteva succedere nulla. Tutti quei miracoli erano possibili e la loro virtù da lì poteva espandersi in ogni casa della Città. Custodita nella credenza della cucina e nel mobile della sala da pranzo, pronta a riversarsi nelle tazzine, nei bicchierini e nei vassoi, quando qualcuno veniva a fare una visita.
Era un superpadre il Sor Giovanni, il patriarca degli Svizzeri, con la sua voce calda e un po’ di naso, e la mano che si allungava discreta nella tua con il regalo di una caramella.
A quel tempo si giocava nella Confaloniera. E lì, senza bisogno di presentazioni, avevo conosciuto Simone. Il figlio del Sor Giovanni, fratello di Angiolina che somigliava molto alla madre. Dunque, anche lui con l’alone di quella appartenenza agli Svizzeri.
Simone non era mai chiassoso, aveva una complicità trattenuta, come se non dovesse oltrepassare una linea che era quella di un’educazione rigorosa che imponeva prima di tutto a sé la misura che esprimeva con gli altri. Ci siamo ritrovati al Liceo Classico, dove ormai nessuno ricorda i suoi vani tentativi di superare l’asticella del salto in alto che ogni volta veniva trasformata in un bastone mosaico. O le sue battute a pallavolo che nonostante lo sforzo supremo non superavano mai la rete.
Arrivava a volte con un piccolo ritardo, sbatteva nella porta che un giorno o l’altro avrebbe tirato giù ed entrava trascinato da una borsa rinzeppata di libri e vocabolari.
Chiedeva scusa alla professoressa Bonagura che tossiva per l’ultima sigaretta e lo guardava bonaria e divertita.
E, ancora ansimante per la corsa e le scale, spandeva nell’aula un alito di latte e caffé. Era il profumo indimenticabile, affettuoso e sincero, degli Svizzeri.