Recente l’iniziativa che ha visto Villa Paolina di Porano quale luogo di incontro tra i ricercatori dell’Istituto di Biologia Agroambientale e Forestale del Consiglio Nazionale delle Ricerche e convenuti dai Territori Palestinesi. Il CNR-IBAF ha infatti ospitato una delegazione di produttori di datteri di Gerico, storica città della Cisgiordania situata a -240 m s.l.m. nella depressione del Mar Morto. In questo ambiente unico e nel corso di una precedente visita di studio, i ricercatori del CNR-IBAF, in collaborazione con la Fondazione Giovanni Paolo II e la Fondazione Archeologia Arborea, hanno potuto analizzare i metodi di coltivazione della palma da dattero (Phoenix dactylifera), apprezzando la stoica determinazione palestinese a rinverdire la fascia desertica che circonda la città. Frutto di questi sforzi è la produzione di un dattero dalle caratteristiche merceologiche ed organolettiche sommamente apprezzate, il Medjoul. Questo termine arabo starebbe a significare, invero, l’origine sconosciuta della varietà.
L’adozione da parte palestinese di un sistema colturale intensivo, a replicare fedelmente quanto declinato negli impianti produttivi israeliani, ha permesso di conseguire risultati a dir poco eclatanti in un periodo relativamente breve. La facies desertica in cui Gerico è contestualizzata ha cambiato letteralmente aspetto.
La città è attualmente inclusa per buona parte all’interno di una fascia verde di impianti a palma. Tale fascia progredisce man mano che si avvicina l’obiettivo palestinese di un milione di palme piantumate. Le produzioni orticole, già diffuse nell’area, sono state largamente rimpiazzate. La rimuneratività del dattero, unitamente alla grande richiesta di manodopera, ha di fatto annullato la disoccupazione locale. Come contropartita, tutto questo comporta costi di natura non solo economica e determina rischi congiuntamente ambientali e sociali.
La realizzazione di sistemi colturali monotoni e altamente intensivi rappresenta qualcosa di molto diffuso nella globalità degli usi del suolo. Tuttavia, la strategia intensiva è quanto di più opposto si possa confrontare alle moderne scuole di pensiero sull’uso sostenibile del suolo. Nel caso dei palmeti, le risorse idriche dell’area vanno progressivamente depauperandosi a causa degli enormi consumi irrigui che la palma richiede per realizzare la sua elevata produttività. La salinità dell’acqua ha già raggiunto valori di preoccupazione, stando a quanto dichiarato dagli stessi investitori locali. Alti livelli di salinizzazione secondaria dei suoli sono percepibili chiaramente nelle abbondanti concrezioni saline in superficie.
Gli impianti, inoltre, si basano quasi esclusivamente sulla propagazione clonale (ovvero la replica esatta di un genotipo come ottenibile per talea, margotta o micropropagazione) di un’unica varietà sia pure di altissimo pregio merceologico, la citata Medjoul. Il timore di attacchi parassitari e del dilagare delle fitopatie, unitamente alle elevate esigenze nutritive di un sistema produttivo spinto, espongono i gestori aziendali sul costoso mercato degli input esterni. Così i costi di concimi, compost, ammendanti, insetticidi e fungicidi si aggiungono alle ingenti spese energetiche per l’irrigazione e per le lavorazioni.
Tutto ciò è fatto sotto il cappello, per così dire, delle dinamiche di cambiamento climatico, le quali prospettano per l’area un futuro affatto roseo. Il rischio di un collasso del sistema è elevatissimo. Le sue conseguenze sarebbero drammatiche. Tuttavia, una sorta di emulazione competitiva con il vicino israeliano spinge sempre di più verso l’intensificazione degli investimenti fondiari e la messa a coltura di nuovi appezzamenti.
La “gita” orvietana è stata occasione di stimolanti visite aziendali per gli ospiti palestinesi, i quali hanno potuto osservare e discutere i modelli produttivi altamente specializzati o tipici del nostro territorio: dagli oli extravergini di oliva e dal vitivinicolo di altissima qualità, una tra tutte l’Azienda Ginepreta Cimicchi, fino alla produzione casearia caprina che vede nell’azienda il Secondo Altopiano un’eccellenza vocata al biologico ed alla sostenibilità ambientale.
Proprio questo confronto tra aziende del territorio orvietano, aziende altamente differenziate nella loro strategia di uso delle risorse territoriali, è stato motivo di acceso dibattito tra i ricercatori italiani ed i produttori palestinesi. Inseguire e forse raggiungere una sorta di “miraggio” economico può costituire un movente importante per un imprenditore che operi in aree socioecologiche difficili. L’adozione di tecniche colturali intensive può essere percepita quale attraente scorciatoia per trarre importanti risultati sociali ed economici dalle risorse della propria terra. Tuttavia, il “miraggio” può manifestarsi in tutta la sua essenza illusionistica là dove le stesse risorse dovessero rivelare la loro finitezza.
Quanto emerso da questo confronto italo-palestinese pone definitivamente in evidenza la necessità di sviluppare nuove strategie di uso fondiario, in direzione di un miglioramento delle condizioni dell’ecosistema agrario e di una riduzione degli input esterni verso il sistema stesso. In altri termini, qualsiasi imprenditore agricolo (e non solo palestinese!) deve porsi l’obiettivo della massimizzazione dell’efficienza d’uso delle risorse ambientali e della sostenibilità dell’intero sistema paesaggistico in cui si trovi ad operare.
Questo traguardo è ottenibile solo rinunciando alle altissime produzioni e guardando alla stabilizzazione delle rese su livelli meno depauperativi per l’ambiente. Altra condicio irrinunciabile è l’aumento di biodiversità complessiva del sistema, a partire dalle varietà impiegate (in questo caso riferite a P. dactylifera), fino alle specie che devono essere consociate all’interno del sistema produttivo.
Anche aspetti più squisitamente naturalistici devono essere parimenti considerati. La vegetazione spontanea va favorita nell’intorno dei coltivi. Nel caso in questione, gli apparati radicali profondi di specie specialistiche delle aree predesertiche (a titolo di mero esempio citiamo il giuggiolo della corona di Cristo, riconosciuto in loco; per gli interessati vedasi anche: Ziziphus spina-christi (L.) Willd.: a multipurpose fruit tree – Genet Resour Crop Evol, 2008, 55: 929–937) possono influenzare positivamente le condizioni ambientali, a beneficio anche delle specie coltivate, e contribuiscono a re-instaurare i cicli biogeochimici alla base della fertilità dell’area nel suo complesso. Di fatto, la restaurazione di reti ecologiche complesse e resilienti, in cui si inserisce la matrice agraria, è un prerequisito della lotta alla desertificazione.
Le condizioni di umidità atmosferica migliorano sopra ed attorno alle canopie (coperture vegetazionali). Il trasferimento di calore sensibile è bilanciato dal calore latente messo in gioco nella traspirazione fogliare (rilascio di vapore acqueo dagli stomi che si aprono alla luce e permettono l’ingresso di CO2 necessaria alla fotosintesi) ed il microclima locale ne è favorevolmente influenzato.
Tutto questo può mitigare l’aggravarsi delle condizioni climatiche anche su area vasta, qualora i modelli virtuosi di uso del suolo vengano adottati ampiamente. La consociazione agronomica con specie azotofissatrici instaura un arricchimento di azoto nel suolo di pari passo con l’aumento della sostanza organica e la capacità di ritenzione idrica dei suoli. I ruscellamenti superficiali delle acque meteoriche sono blanditi e la percolazione profonda permette di immagazzinare riserve idriche rilevanti nel profilo di suolo esplorato dalle radici.
Il sistema, in definitiva, è rivitalizzato dalla complessità e tende a riflettere proprietà più spinte in termini di servizi ecosistemici e resilienza ai disturbi ecologici (capacità di un sistema esposto ad una turbativa ambientale di ritornare verso lo stato di equilibrio precedente). Questo vale dall’Equatore ai Poli! (Marco Lauteri, ricercatore al Cnr)