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Home Cultura

Letture: “L’estate spenta di Yezim” di Paolo Pupo

Nel nuovo racconto: "nella guerra e il grido di un’infanzia spezzata"

Redazione by Redazione
9 Luglio 2025
in Cultura, Secondarie, Archivio notizie
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“Non c’è più sole sui palazzi in costruzione, non c’è più sole sul campo di pallone, macerie in polvere che tira vento e poi magari piovono bombe. Yezm non ha fatto in tempo a diventare uomo, senza più scarpe di gomma dura, unidici anni e il cuore uno straccio di paura”.

Raccolta con il racconto di Paolo Pupo

È il forte, straziante inizio del nuovo racconto di Paolo Pupo, scrittore orvietano, una storia che non solo si legge, ma si attraversa, si respira, si soffre, si ascolta come il suono di un violino. Recentemente presentato al Festival “Cultura Liberata” a Conegliano, “L’estate spenta di Yezim, sotto un cielo orfano di stelle”, pubblicato nella raccolta “Cronache dal mondo nuovo” (Rudis Edizioni, 2025) è un viaggio lirico e straziante che ci porta dentro l’orrore della guerra, che entra forte e crudele nella quotidianità di vite che assomigliano alle nostre, anche se sono segnate da un destino che altri uomini hanno reso crudele. Yezim sta giocando tra i cortili delle case, l’esplosione di un ordigno lo seppellisce sotto le macerie.

“Ho provato a chiedermi cosa può succedere in quei terribili istanti che seguono l’orrore – dice Paolo, che ha immaginato questa storia pensando a Gaza, ma che potrebbe essere simile a quella di tutti i Paesi in guerra. La narrazione alterna la voce e i sentimenti dei due protagonisti, Yezim che da sotto le macerie, costretto all’immobilità, cerca la madre con il pensiero, chiamandola silenziosamente, e Dima, la madre, che scava a mani nude tra quelle rovine.

Il racconto segue tre sentimenti, tre emozioni. Lo smarrimento iniziale che vede la separazione e la paura in cui Yezim e Dima continuano a cercarsi, divisi dal muro terribile di macerie di “calcinacci di case a mezz’anima, muri tempestati dalla liturgia di un subbuglio, sbarre rugginose di un ferro che è fantasma di pazienza, rimasugli di porte congedate dall’attesa e finestre sgretolate dall’eresia …”. Poi, ecco il barlume che si fa dubbio e speranza, Dima ritrova un “un sinistro numero 37”… che “chissà quante belle storie d’amicizia potrebbe raccontare” e che qui invece racconta di “bambini che piangono, bambini che non capiscono, bambini con le orecchie a poltiglia, violentati dai bombardamenti…“. Ed ecco il secondo sentimento, la consapevolezza che si fa strada nelle voce e nei peniseri dei due protagonisti. Yezim, con la paura nel cuore, a cui sembra “un sogno la morte, eppur si muove” e che cerca, nella paura, consolazione nei ricordi belli della sua infanzia. “Ricordo quei pomeriggi allegri in compagnia di Aisha e Zakaria, quando il violino di Yusuf volteggiava tra le corde di una fugace melodia dal mare, meglio questo di niente…”. Ricorda i venerdì in pasticceria Yezim, a sgranocchiare shatawi, delizia biscottata con la crema e la glassa di cioccolato…

e che si chiede: “Dove mi trovo mamma?”.

E appena lì fuori, in quella culla di orrore che intrappola le membra del figlio ecco Dima che continua a chiamare suo figlio:

“Dove sei Yezim vita mia?”.

Tra le righe, i pensieri, lo spasmo dei singhiozzi, appare il terzo personaggio di questa storia, Lo Scrittore, il deus ex machina, che comincia a parlare con Yezim e gli spiega della Vita, della Morte, della Guerra e della Pace. “La guerra, caro Yezim, è un apostrofo antrace tra le parole “ti” e “odio” e la Morte “non abita più nelle trincee divorate dal fango, ma ci accoglie infingarda tra i banchi di un bazaar…” in cui la Vita “è una sinfonia che vive sulle note di George Gershwin… è tua madre che ti culla ascoltando il buio”.

Ed ecco che a Yezim in quella veglia mista a sogno, sembra di vedere un altro bambino, undici anni come lui, ma che vive dall’altra parte del muro. Un bambino, Yuval, che come lui è cresciuto in una terra crudele in cui la “sabbia si mescola al fiele”. Si apre qui il terzo, potente sentimento del racconto, quello dell’amore che va oltre l’odio, un odio che viene coltivavo già dal raudah, il giardino dell’infanzia. Ma Yezim, col suo cuore di bambino, “non sogna certo di diventare uno shabab“, uno di quei ragazzi “che scagliano pietre”. E sul finale di questa storia commovente e potente, sembra di sentire le note di quel violino, che danza sul tetto nelle tele di Chagall e che racconta il sogno di un altro futuro: Yazim, quasi pacificato, saluta la sua famiglia, il padre, la sua adorata sorellina e la madre: “Ci rivedremo presto, perché la guerra è finita, almeno per me e… se ci fosse la luce, sarebbe bellissimo”.

Valeria Cioccolo

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