di Pasquale di Paola
Una fredda mattinata di fine gennaio 2025
Da poco passate le nove.
Siamo lontani da Orvieto,
in un viaggio nel tempo,
verso un passato triste, orribile,
con la mia classe.
In Polonia,
per non dimenticare certi orrori,
in occasione della Giornata della Memoria.
Un’atmosfera particolare:
triste e struggente.
Tutto intorno il terreno è coperto di neve,
un paesaggio fiabesco.
Siamo fermi a guardare
la tetra e vecchia prigione davanti a noi.
Poi, quasi dal nulla,
sulla bianca neve appare una figura di donna.
Una donna dalla età indefinibile,
che cammina sulla neve… come un fantasma.
Sembra uno scheletro,
tanto è esile la sua figura.
Un’immagine della disperazione.
Agita le mani nell’aria
come una marionetta manovrata dal vento.
Sembra volerlo imprigionare, il vento,
che sibila forte tra gli alberi
e la angusta costruzione davanti a noi,
per fortuna chiusa,
ormai immagine del passato.
Gli occhi della donna sono scuri,
vivi, velati, colmi di disperazione.
Mai incrociati occhi così disperati,
così segnati dal dolore.
Un dolore che ha poco di umano.
I suoi lamenti strazianti
sembrano voler arrivare al cielo.
Triste figura vagante tra la neve,
dispersa nel vento come le sue urla.
Ogni anno,
in questa giornata del 27 gennaio,
questa donna non manca a questo appuntamento.
La storia di Marja
Si chiama Marja.
Viveva col marito
e la sua adorabile bambina di nove anni.
Esile, con i capelli legati a codino,
gli occhi azzurri, di un azzurro bello e vivo.
Bella, gracile, innocente,
come tutte le bambine di nove anni.
Poi, in quella gelida mattina di gennaio del ’43,
sono arrivati.
Con le loro divise lucide,
con i loro enormi e terribili stivali neri.
Come bestie assetate di sangue.
Hanno caricato tutti su un treno,
blindato, piombato,
come si fa con le bestie.
Dopo un viaggio dal tempo indefinito,
in compagnia di fame, gelo e terrore,
li hanno condotti qui,
in questa struttura degli orrori.
Anche in un posto così inumano,
Marja tirava avanti,
per proteggere la sua bambina.
Non cedeva al sonno e alla stanchezza per lei.
L’unico tozzo di pane lo conservava per lei.
L’unico sorso d’acqua,
lo metteva da parte per lei.
Per non sentire i suoi strazianti lamenti
per la fame e la sete
nel silenzio di quelle gelide notti.
Poi arrivò quella maledetta domenica di novembre del ’44.
Allo spuntare delle prime luci dell’alba,
presero tutti i bambini del campo.
Li misero in fila e li portarono via.
“Alle docce”,
qualcuno sussurrò in uno strampalato tedesco.
Marja vide la sua bambina per l’ultima volta.
Un piccolo contatto con la sua tenera manina.
Un ultimo sguardo, dolcissimo e terrorizzato.
Poi, il nulla.
Per ore Marja attese, angosciata,
sperando di poterla riabbracciare.
Nel pomeriggio, una guardia impietosita si avvicinò.
La chiamò e la portò al grande finestrone
di quell’enorme stanzone gelido.
Fece cenno di guardare fuori, verso le nuvole.
Dal forno numero tre, il più alto e grande,
un fumo tetro,
di un colore giallo tenue,
si disperdeva nel cielo, misto a brandelli di cenere.
La guardia la fissò con compassione e pena.
Le disse di rassegnarsi,
di non attenderla più:
“Non tornerà. Tua figlia è diventata cenere nel vento.”
Quelle parole la spezzarono.
Avrebbe voluto essere sorda,
cieca, morta.
Eppure, nonostante il lancinante dolore,
quella donna è sopravvissuta.
Il ritorno ogni anno
Ogni anno,
in questa mattinata del 27 gennaio,
Marja viene qui,
ad Auschwitz.
A parlare con la sua bambina,
trasformata tanti anni fa in cenere nel vento.
Viene qui per accarezzarla,
per provare a imprigionare una carezza.
Raccoglie un po’ delle sue ceneri,
un po’ della sua anima,
con le mani protese,
inutilmente,
verso il vento.
La osservo.
Penso alla sua storia
e provo una gran pena,
un infinito dolore per lei.
Guardo i miei alunni camminare
tra queste rotaie ormai in disuso.
Mille colori, mille emozioni
sui loro volti.
E una unica, accorata,
silenziosa preghiera:
Che mai più nessun bambino diventi cenere sparsa nel vento.