
di Mirabilia Orvieto
Mai come oggi l’opera musicale “La Pietà” di Nicola Piovani e Vincenzo Cerami, con la partecipazione della voce soul Amii Stewart e voce recitante di Gigi Proietti e che venne rappresentata ad Orvieto e poi a Betlemme per suggellare il gemellaggio delle due città, è ancora portatrice di grande attualità dimostrando come l’arte sia uno strumento importantissimo per riflettere sul valore della vita umana.
Nella città natale di Gesù, sotto un cielo stellato, migliaia di persone parteciparono al grande concerto, svoltosi alla presenza di tante autorità e degli ospiti italiani. Era il 3 aprile 1999. Un’esperienza più unica che rara vedere un’opera fatta da famosi artisti, proprio quelli che avevano appena vinto l’Oscar con il film di Benigni “La vita è bella”, venire letteralmente osannata dal pubblico, in un felice oblio dei problemi politici. Nell’imponente teatro improvvisato, costruito sotto una tenda nera retta da tubi innocenti, due grandi schermi traducevano in inglese e in arabo le parole del concerto per un messaggio universale, come aveva spiegato anni prima Vincenzo Cerami: “Perché un artista ha il dovere di scordare il mercato e le cose che lo rendono celebre per occuparsi anche di tragedie, di diritti dei popoli. Insomma per far sì che lo scandalo dell’errore umano provocato da altri uomini abbia fine“.
Una gran fila di personaggi, fra cui l’ex sindaco di Orvieto Stefano Cimicchi e di Betlemme, Hanna Nasser, appassionati promotori dell’evento. Costruita sullo schema dello “Stabat Mater”, l’opera è ricca di modernità, di ritmi e di parole con cui si sono affrontati i problemi d’oggi attraverso le voci inconfondibili di due cantanti, una lirica e l’altra jazz, che hanno unito le loro voci dando vita a uno spettacolo carico di significato. A concludere la manifestazione è stata la visita da parte di tutti a Gaza dove avvenne l’incontro con Arafat che ricevette, dalle mani del console italiano, la maggiore onorificenza civile. Così li ringraziò il leader palestinese: “Queste sono le cose di cui abbiamo veramente bisogno”.
Nell’opera sono rappresentate due madri: la prima è una donna occidentale che vede morire il proprio figlio di overdose tra i fumi della società opulenta; la seconda è una madre africana il cui bambino non ha resistito alla piaga della fame. Ma cosa accadrebbe se le musiche, le voci e i testi di quello spettacolo realizzato a Betlemme si fondessero oggi con le immagini di una cattedrale, magari quella di Orvieto? Sicuramente potremmo ammirare, non senza meraviglia, come la Passione di Cristo rappresentata nella cappella del Corporale sia un’opera ancora viva e attuale. Anzi così moderna da poter diventare il “simbolo” del valore inviolabile della vita umana.

Come si può non vedere nel grido di dolore della madre africana che stringe fra le braccia il figlio morente, il quale, come un Cristo in croce, non ha nulla da mangiare né da bere, quello della stessa Madre di Dio che piange il suo dolce e amato figlio inchiodato alla croce? Le parole dello “Stabat Mater”, cantato quella sera, appaiono allora come uno splendido commento alla scena della Crocifissione e Deposizione che Ugolino d’Ilario dipinse nel 1300: “Ah…la notte è pallida – si alza la voce di Amii Stewart – rimbalza il vento sui falò, cantono le iene la mia ferita. Di crepacuore morirò, Dio dei vinti dove sei? Muoiono in quest’addio le ultime lacrime della pietà! Dio dei sette cieli dove sei? Dov’è quel Dio che si nasconde perché la vita resti tua? Siamo il soffio di un ombra che passa. E dalla croce Gesù risponde: “Madre mia, Mama yé, solo nel pianto troverai conforto, Madre che taci davanti al figlio che tace!“.
Solo l’arte spiega l’arte e grazie allo spettacolo, alla letteratura, alla musica, alla poesia, essa torna ad essere uno strumento di interpretazione e comunicazione in grado di emozionare l’uomo contemporaneo. Nella rappresentazione della “Pietà”, il pianto delle due madri si unisce allora a quello di Maria e di tutte le madri del mondo che vedono morire il frutto del loro seno, un figlio disteso o meglio “deposto” sul suolo arido e desolato del deserto o di una metropoli, comunque un figlio tormentato, un figlio difficile…un figlio inchiodato! È la spiritualità del passato che continua a dialogare col nostro tempo, a parlare all’umanità di adesso, a mandare messaggi universali ed eterni. L’arte raffigurata nelle cattedrali non è un fumetto fatto di storie ormai superate, ma la ricerca costante e illuminante di significati e simboli che hanno a che fare con la nostra esistenza, assetata e sofferente, che si fa domande e cerca risposte sempre nuove. Sono gli artisti a reinterpretare l’arte, meglio di altri, riconsegnandola all’uomo di oggi intatta e, allo stesso tempo, rivitalizzata nei contenuti e nelle modalità di espressione.
Per questo tutte le cattedrali vanno lette non solo dal basso in alto, cogliendone la trascendenza, ma anche dall’alto in basso essendo delle “cattedrali d’umanità” dove l’uomo non rischia di perdersi, di annullarsi nel divino, al contrario di ritrovarsi veramente: le immagini che evocano risvegliano oggi più che mai qualcosa di profondamente umano, di spirituale, di archetipo.