AUDIOLETTURA A CURA DI SOPHIA ANGELOZZI
di Mirabilia Orvieto
Il reliquiario di Ugolino di Vieri, dalla forma tricuspidale come quella della facciata del duomo di Orvieto, non venne realizzato solo per onorare il segno del Miracolo ma per diventare la più grande catechesi possibile sull’eucarestia, che dal cuore della cattedrale si irradiasse in tutta la cristianità.
Mentre profondi dubbi tormentavano la chiesa del Medio Evo, sempre più ossessionata dalla ricerca di Dio e della salvezza, cresceva negli animi la fede nei miracoli e nelle ‘sacre reliquie’ a cui era affidato il compito di testimoniare il divino nel mondo. In quel tempo il lino insanguinato di Bolsena, divenne la prova tangibile della verità racchiusa nel mistero eucaristico che, già due secoli prima, nel Concilio di Roma del 1059, la chiesa definì come il vero corpo di Cristo ‘sostanzialmente presente’ nell’ostia e distribuito dalle mani del celebrante per essere ‘triturato dai denti dei fedeli’. Il santissimo Corporale, posto nel suo maestoso Tabernacolo, rendeva perciò visibili più dei sermoni quelle realtà invisibili nascoste nelle specie eucaristiche da cui scaturiva tutto il potere, la grazia e l’energia racchiusi nel corpo e nel sangue del Signore.
Costruita appositamente per custodire il segno divino, la cappella era il luogo privilegiato dove la comunità cristiana si riuniva in preghiera per celebrare gli ultimi istanti della vita di Cristo, resi ancora più vivi dalla presenza della reliquia che creava una profonda unità tra la Passione di Cristo e il Miracolo di Bolsena, unità che veniva anche celebrata dal reliquiario di Ugolino di Vieri.
Nelle formelle rettangolari che rivestono la preziosa teca, ricoperta di oro, argento e smalti, sono incise infatti, in un’unica grande storia in miniatura, tutte le tappe del prodigio di Bolsena e della Settimana Santa. Il racconto inizia con la messa del sacerdote dubbioso, Pietro da Praga, e prosegue con il viaggio delle ‘reliquie’ portate in processione da Bolsena fino a Orvieto, sede del papa Urbano IV, Patriarca di Gerusalemme. Quel giorno era Cristo stesso che si incamminava attraverso l’ostia e il lino insanguinati verso l’antica Rupe, e a fargli incontro furono il papa, i sacerdoti, i religiosi e tutta la popolazione che lo attendeva a ponte di Rio Chiaro; come in una ‘seconda Passione’, il Figlio di Dio faceva allora il suo ingresso nella città di Orvieto, la nuova Gerusalemme, accolto devotamente dagli orvietani che contemplarono “con lacrime liete e letizia nel pianto”, il segno della presenza di Cristo nell’eucarestia. E dopo l’entrata simbolica di Cristo nella città, così come fecero gli apostoli al tempo di Gesù, la chiesa di Orvieto preparò al Signore la santa Pasqua, cioè la prima festa del Corpus Domini, dove tutti fecero solenne memoria dell’Ultima Cena quando il Figlio di Dio prese il pane e il calice del vino dicendo: “Se qualcuno avrà mangiato di questo pane vivrà in eterno, perché la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda”(Gv 6,56).
Davanti al miracolo di Bolsena, lo spirito e la mente potevano allora immergersi nei ‘simboli’ della Passione che attraverso gesti, parole, oggetti liturgici e immagini facevano rivivere ai fedeli tutto il mistero della Redenzione: dal sacrificio sul Golgota, rappresentato nella scena della Crocifissione, al corpo di Cristo nel sepolcro, simboleggiato dall’ostia deposta sull’altare; dalla pietra che chiudeva la tomba di Gesù, rappresentata dalla patena sul calice eucaristico, al vaso di Giuseppe d’Arimatea, raffigurato nella scena della Deposizione, fino al sudario che avvolse il corpo del Signore, simboleggiato dal Corporale custodito nel reliquiario, tutto doveva rendere profondamente vivo il mistero della Redenzione dimostrando che il sangue zampillante dall’ostia di Bolsena era lo stesso di quello “sgorgato dall’immacolato fianco trafitto e preziosamente colato dalle mani e dai piedi del Signore”.