di Gabriele Marcheggiani
ORVIETO – Vittima del degrado e dell’incuria, la storica fontana del Leone appare come un vascello alla deriva che attende solo la prossima tempesta per affondare definitivamente. Nonostante nel corso degli ultimi anni i residenti abbiano lanciato diversi gridi di allarme, rimasti per lo più inascoltati da parte di tutte le amministrazioni comunali che si sono succedute, un pezzo indiscusso di storia orvietana rischia di sparire per sempre. Le tre vasche che la compongono, fanno della fontana uno dei simboli della città che fu, luogo iconico, testimonianza che oltrepassa i tempi e ci riporta indietro di decenni, di secoli, fino al tardo Medioevo.
Dopo i crolli della struttura alta della fontana avvenuti circa due anni fa, il luogo appare abbandonato a sé stesso, vittima del tempo inesorabile, degli agenti atmosferici e del menefreghismo di chi dovrebbe occuparsene. Eppure le sue acque hanno ascoltato le voci delle lavandaie che dal XIV secolo hanno lavato i panni nella fontana, così come nelle altre che circondano la rupe, oramai ridotte ad un ammasso di pietre sulle quali le erbe e gli arbusti hanno costruito col tempo un sarcofago di rovi e fogliame.
Fino a pochi decenni fa, le acque della fontana hanno contribuito a irrigare gli orti e i campi che perimetravano i salti di tufo della città alta, un gran bel pezzo di economia con cui intere generazioni di orvietani hanno sbarcato il lunario e tirato su famiglie con immani sacrifici. Mario è un testimone rassegnato del degrado in cui versa la fontana del Leone, come un sacerdote a guardia del suo tempio senza più fedeli.
Suo suocero ci ha tirato su famiglia coltivando la terra intorno a questo angolo di rupe e lui non smette mai di ricordarlo: “È una bestemmia questo degrado, un colpo al cuore e alla memoria di tante persone, mio suocero innanzitutto, che anche grazie a questa acqua hanno campato dignitosamente”, afferma mentre i suoi piedi affondano non senza pericoli, su un terreno più simile a quello della giungla amazzonica che a quello di un magnifico belvedere che potrebbe essere un vanto per la città.
“Vede, qui c’era una pianta grande che è venuta giù ma le radici sotto continuano a muoversi perché il terreno argilloso tende comunque a franare, il rischio grosso è che la vena che sgorga proprio in quel punto, possa venire deviata irrimediabilmente e la fontana sarebbe condannata a morte certa”, continua Mario allargando le braccia come a manifestare con questo gesto inequivocabile la propria impotenza ma anche la propria rabbia. Lui, pensionato, continua a coltivare un pezzettino di terra proprio ai piedi della fontana, esattamente dove suo suocero aveva l’orto grazie al quale lavorava e per lui, che non è neanche orvietano, questo che potrebbe sembrare poco più che un passatempo, è in realtà una questione di famiglia, un’eredità di pazienza e sudore per non permettere che cali definitivamente l’oblio su una parte fondamentale della sua vita. Mario quando è occorso, ha ripulito la fontana con le sue mani, ha liberato le canalette che portano l’acqua, ma ora il lavoro è diventato insostenibile per lui, oltre che pericoloso per via dei movimenti franosi e degli alberi in bilico sulle vasche. Gli allarmi e le richieste di intervento non hanno sollevato interessi, i tecnici del comune intervenuti si sono limitati a constatare lo stato di forte degrado di tutta l’area e a comunicare che per mettere a posto ogni cosa servirebbe un lavoro non di poco conto.
Se intorno all’anello della rupe e al percorso pedonale che circumnaviga questo trono di tufo su cui è adagiata Orvieto da millenni, qualche miglioria è stata effettuata, basta uscire dallo stradello di pochi metri per essere inghiottiti dalla vegetazione lasciata crescere come in una foresta pluviale. Eppure l’incanto di questi luoghi è di una bellezza rara, potrebbero essere un altro dei vanti della città, ma sembra che a nessuno interessi quel mondo di mezzo tra il centro e la periferia, quella terrazza verde che fa da basamento ai salti di tufo. Perché la cultura di questa città, prima ancora che le vestigia antiche, gli azzardi architettonici e le mirabolanti trovate ingegneristiche, ben oltre affreschi e palazzi, è un coro di storie semplici che amplificano nel tempo le voci ormai mute di chi ha saputo plasmare l’anima di questa terra rendendola immortale.