di Dante Freddi
Alle sei del pomeriggio Daddo era sempre fuori dal bar, appoggiato lì, allo stipite di una porta, in attesa che iniziasse lo struscio e si potesse capire chi c’era e chi no, chi era in vacanza e chi no. A quell’ora Il caldo iniziava ad attenuarsi e davanti al bar c’era ombra. Un posto comodo. Daddo non aveva mai una lira, ma qualche amico poteva permettersi una consumazione e quindi era accettato anche chi era con lui e si sedeva all’interno o si appoggiava allo stipite senza consumazione. Accanto a lui Stefano, figlio di un impiegato comunale, studente dell’Istituto per geometri, irrequieto, impaziente, agitato. F
aceva qua e là tra una delle due porte e l’altra, una gamba attaccata al selciato e l’altra piegata e appoggiata al muro, a lato dell’entrata. Era sempre di punta, senza garbo, piantava gli occhi sulle ragazze che passavano e le squadrava, le scomponeva in sopra e sotto, e « Oggi Lucia è alla cerca, gli si vede tutto sotto quel vestitino ed è un bel vedere». La sua valutazione precisa e puntuale non mancava mai, non si salvava nessuna. E neppure i maschi: « Quello, per saziare Silvia, deve prendere un mutuo» o « Ha la ragazza parsimoniosa, la dà a tutti meno che a lui » e così via. Poi, tre o quattro o quanti erano si avviavano verso piazza della Repubblica, in un movimento coordinato e inconsapevole. Arrivati all’inizio della piazza, giravolta e su verso la torre e il Duomo. A piazza Duomo breve fermata e riorganizzazione del gruppetto, poi ritorno. Così fino a sera.
Quando era caldo e lì al Duomo c’era un po’ di vento, si sedevano sulle schiace ancora calde della cattedrale. Da lì, comodamente, si osservavano tutti quelli che c’erano, perché tutti arrivavano al Duomo. Daddo aspettava di vedere Paola, che non era la sua fidanzata e neppure un’amica, ma a lui piaceva tanto, anche se non sapeva come pensasse o parlasse. Gli piaceva quel corpo esile, però le gambe ben tornite e il seno evidente, gagliardo, che si offriva spingendo all’estremo la maglietta. Occhi neri e profondi, viso ovale con fossette malandrine. Paola frequentava il liceo scientifico e Daddo l’istituto per ragionieri.
Quell’anno si sarebbero diplomati. Le ragazze giravano a gruppetti di due o tre e quindi lo sguardo sul corso era a centottanta gradi, perché gli occhi di ciascuna coprivano una parte e insieme tutta la via. Non sfuggiva nessuna occhiata e la “punta” di uno o dell’altro diventava argomento di conversazione e di futuri sbirciamenti. D’altra parte ci si conosceva a scuola o in qualche casa, ma sempre per gruppi omogenei. Per il corso la società si mescolava. Di comitive come quella di Daddo e dei suoi compagni ce n’erano diverse e stanziavano in punti diversi, dove i componenti erano abituati a darsi appuntamento.
Chi in qualche altro bar e chi alle poste, fuori e dentro la torre, proprio al centro dello “struscio”, dove si radunavano diversi gruppetti e la sera d’inverno c’era chi approfittava anche per qualche effusione. Arrivò Giorgio. Era fabbro per mestiere e meccanico di motorini per passione. Aveva la bottega in una via del centro e lavorava con il fratello, artigiano apprezzatissimo. Daddo e Stefano ci portavano il loro motorino spesso, per migliorar le prestazioni, per aggiustarlo, per la manutenzione. Però quando non c’era il fratello, che sennò quello si incavolava. Giorgio era il solo lavoratore del gruppo, vivace, intelligente, simpatico, utile.
Inaspettato si unì al gruppetto Luigi, detto “il conte”. Aveva la casa a Montalto e d’estate se la godeva. La sua era stata una delle prime abitazioni di quel posto e lì era uno di casa, conosciuto dal pizzaiolo e dal pescatore, dal ristoratore e dal bagnino dell’unico bagno organizzato, che aveva ombrelloni e lettini.
Per il suo compleanno, quell’inverno, a Luigi i genitori avevano regalato l’auto, una stupenda Mini verde, e quella sera, mentre gli amici stavano spiaccicati sulle schiace, lui si si presentò con volto gioioso e una comunicazione urgente: « Domani si parte per Montalto, sabato e domenica tutti per noi. Il babbo e la mamma devono restare a casa e mi hanno dato il permesso di ospitarvi» . Contenti di quella vacanza imprevista si tirarono su a sedere, impegnati a tirar fuori idee: quando partire, cosa mangiare e bere, come trascorrere la serata, con chi, quali ragazze stavano a Montalto in quei giorni, dove trovarle, come avvicinarle, come conquistarle.
Sui metodi di rimorchio si dilungarono molto, ciascuno con sue teorie, per la verità rimaste sempre tali, mai divenute esperienze. Si conoscevano talmente bene e da così tanto tempo che non potevano neppure raccontare stupidaggini, ma l’allegria era tale che sembravano a portata di mano le conquiste più improbabili, come Mara, la figlia del professor Giovannini, o Paola, la fidanzata di Giangiacomo, che era allievo ufficiale a Modena. Luigi le conosceva bene tutte e due, avevano trascorso le vacanze insieme per anni, e aveva promesso di portarle con loro. Poi ciascuno se la sarebbe cavata secondo la capacità di seduzione, competenza fino ad allora discutibile. Partenza alle otto precise, sotto casa di Luigi. Una borsa ciascuno e alcuni sacchetti di plastica con dentro alimentari e vino. Non erano ancora le nove che già stavano dentro una pizzeria di Canino, sulla strada. Dopo una mezzoretta erano a Montalto e si impossessavano dei letti. Luigi nella camera dei genitori, da solo, come si erano raccomandati babbo e mamma, Giorgio e Daddo in un’altra stanzetta, Stefano in sala da pranzo , dove stava un letto che fungeva anche da divano. Andarono subito in spiaggia, una passeggiata esplorativa, un bagno facendo finta di saper nuotare, cosa che riusciva bene soltanto a Luigi, e quindi a casa, a preparare il pranzo e le strategie di attacco a tutte le virtù che c’erano in giro.
A pranzo tagliatelle all’arrabbiata fredde, come le preparava la madre di Daddo, con olio buono, pomodoro fresco e prezzemolo, piccanti, poi pomodori e la frittata con la cipolla di Giorgio. Alle quattro erano a spasso lungo il viale, con puntate sulla spiaggia, per vedere tutti i presenti a quell’ora. Era una giornata di metà giugno e anche se il sole batteva non era molto caldo e la via era animata, perché iniziavano ad arrivare i vacanzieri del sabato e della domenica, che aprivano le case in quei primi giorni della stagione. I ragazzi si avviarono verso il fiume Fiora, dove si gettava nel mare, proprio all’inizio della marina di Montalto. L’acqua era bassa, arrivava al petto, e sulle sponde, un po’ più all’interno, c’erano pescatori che tiravano su piccole anguille, tante. Luigi si tuffò nel fiume e invitò gli altri a fare altrettanto.
Piano piano, saggiando il fondo, entrarono tutti in acqua, mentre qualche pescatore li guardava con disappunto e loro ricambiavano con ostentata indifferenza. Una robusta sciacquata in acqua salmastra e quindi sulla spiaggia, dove c’erano delle barche. Seduta su un sasso videro Mara, intenta a osservare le manovre del padre per mettere in acqua la barca, continuamente respinta dai cavalloni. Finché non riuscì a mettersi dritto, tagliare l’onda e allontanarsi con un suo amico del posto. Luigi salutò Mara con familiarità, presentò i suoi compagni e tra i soliti convenevoli decisero di vedersi la sera dopo cena, in gelateria. Ci sarebbe stata anche Paola, disse Mara. I quattro si guardarono con ammiccamenti soddisfatti, come se avessero ottenuto chissà cosa, e si allontanarono. Ancora qualche struscio lungo il viale e poi ficcata in pizzeria per comprare qualche pezzo di focaccia. A cena misero sul tavolo tutto quello che c’era, il giorno dopo era prevista già pasta “aglio e oglio” e avanzi. Si misero intorno al tavolo e apparve la parmigiana di melanzane di Stefano, un cacciatorino e una cartata di mortadella. Poi una teglia di pomodori con il riso e le patate. Rimase ben poco per il giorno dopo.
A turno di due si lavarono i denti con forza, come se dovessero ottenere il massimo splendore delle loro giovani dentature. Qualche passata di lingua, per saggiare la pulizia, un gargarismo convinto e giù nella strada, verso la gelateria, l’unica. Si sedettero occupando due tavoli, per invadere tutto lo spazio che sarebbe servito, e prepararono due sedie per le amiche che sarebbero arrivate. « Sono proprio belle, ma belle» , esclamò Daddo quando vide da lontano le ragazze che si avvicinavano verso di loro. Tutti si voltarono da quella parte e Luigi alzò la mano per farsi vedere. Insieme a loro c’era una terza ragazza, una di Viterbo, alta come un uomo, capelli nerissimi, un corpo aitante che si intravedeva sotto quel vestitino leggero, andamento deciso, labbra invitanti, senza rossetto. ‘Una nuova preda’, pensarono tutti, segnalandosi con gli occhi Stefania e la convinzione che ‘ La serata si sta mettendo bene’.
Daddo si precipitò a prendere un’altra sedia. Si sedettero e subito, fulminea, arrivo una cameriera per l’ordinazione. Guardarono il menù. I ragazzi ordinarono i gelati che costavano meno, perché avevano deciso di offrire la consumazione alle compagne e i soldi erano pochi. A loro piacevano i coni, da sempre, dicevano. Giorgio, affabulatore per tradizione famigliare, come il padre e il fratello, iniziò a raccontare storie. Anche Daddo provò a inserirsi per rubare spazio all’amico, ma non riuscì ad attrarre l’interesse di nessuna, nonostante fosse il ragazzo più prestante, pantaloni e camicia bianchi, una leggera peluria sul petto, che amava mostrare, scarpe di pezza, capelli lunghi e mossi, bel viso, pochi muscoli ma niente fuori posto.
Luigi conosceva Mara e Paola e si concentrò su Stefania, la viterbese, convinto che le due vecchie amiche, simpatiche e amabili, non si sarebbero mai “sputtanate” con lui. Appena Daddo si alzò per andare a prendere dei tovaglioli, lui gli prese la sedia vicino a Stefania, e cominciò ad alitarle vicino, con cose dette all’orecchio, per farle sentire il suo calore. Ma le parole erano banali, non usciva nulla che fosse coerente con un sussurro. La tattica non funzionò, anzi, Stefania sembrava insofferente. Mara e Paola ridevano dei racconti di Giorgio, si interessarono perfino della tecnica per battere il ferro e soltanto una deviazione su Pavese riuscì a spostare l’attenzione su Daddo che, preso il pallino, recitò anche una poesia di Prévert , “ tre fiammiferi accesi…”. Ma subito Giorgio riprese la scena con una barzelletta sulle poesie d’amore, che fece ridere tutti. ‘Bella compagnia, la serata si mette bene’, pensarono le ragazze. Dopo un’oretta si alzarono dai tavoli e iniziarono a passeggiare lungo il viale e poi si diressero verso la spiaggia e si sedettero sulla sabbia calda, lo sguardo di rivolto al mare.
A Paola, seduta, era salita la gonna svasata e le cosce appena abbronzate attirarono lo sguardo di Daddo, che le era vicino. Notò anche il seno prepotente che si era fatto spazio tra due bottoncini della camicetta e si offriva al suo apprezzamento. Immaginò che quegli spazi invitanti fossero creati appositamente per attrarlo, ma subito scartò la possibilità dopo aver guardato per intero, con circospezione, quella ragazza bellissima, piacevole, con una voce calda e senza stridori, con pensieri delicati e senza cenni di assolutismo, ma fidanzata. “Chissà se a lui sarebbe mai capitata una ragazza così”, pensò fantasticando. “Chissà se mai qualcuno mi reciterà ‘tre fiammiferi accesi nella notte’» , pensò Paola, rilevando l’indifferenza di Daddo.
Verso le undici e mezza accompagnarono le amiche a casa e anche loro rientrarono, perché tanto in giro non c’era più nessuno. Il mattino sveglia alle otto, caffè e biscotti secchi, mare, spiaggia libera, proprio adiacente al Fiora. Verso le dieci arrivarono anche la viterbese e Mara. Strepitose. Bichini di stoffa , Mara con laccetti laterali. I ragazzi erano già in costume e cercavano di mostrarsi al meglio, incerti della resa da nudi. Quando giunse Paola e si tolse il copricostume, Daddo rimase folgorato e l’imbarazzo lo invase.
Si vergognava, come se fosse stato a piazza del Popolo in mutande. Lei aveva tutta quella perfezione da mostrare e lui non vedeva pregi su cui potesse puntare. Si sedette sulla sabbia e guardò dal basso il corpo di Paola, ma la nuova prospettiva non faceva che acuire la bellezza della ragazza. Dopo qualche minuto, per togliersi dall’imbarazzo di poter essere giudicato, entrò in acqua e da lì scambiava parole, finché tutti fecero il bagno. All’una la compagnia si sciolse, tra saluti calorosi e promesse di rivedersi a Orvieto.
Nel pomeriggio i quattro amici caricarono la Mini verde e tornarono a casa. Erano sodisfatti, c’era da parlare di Paola e Mara e Stefania per giorni, raccontandosi le sfumature che ognuno aveva colto. « Hai visto quella leggera peluria sull’ombelico? e quei capezzoli puntiti, e …». Luigi disse perfino che la viterbese, quell’estate, non si sarebbe salvata. Anche le ragazze si raccontarono quei nuovi amici e Paola pensò a lungo a Daddo, che recitava Prevért e che avrebbe rivisto in città.