di Dante Freddi
Davanti all’osteria c’era una piccola piazzetta scoscesa, appoggiata a un vicolo da cui si arrivava su, fino a piazza del Comune. Una porta a vetri si affacciava sulla viuzza e un’altra sullo slargo, da cui proveniva la luce del locale, sempre un po’ soffusa, troppo poca nella parte più lontana. Lì in fondo c’era il bancone e l’accesso a un ambiente abbastanza grande, un magazzino, attrezzato anche con una cucina a legna e un grande tavolo di marmo, scaffali, una madia, tante cassette di legno robusto accatastate ai lati, che contenevano frutta, verdura, legumi. Appesi ai travi prosciutti e altri salumi inondavano di un profumo di pepe e aglio e spezie tutto il locale. In uno dei lati, appoggiate su tavole che le alzavano da terra di qualche palmo, damigiane di vino trasferite lì dalla cantina per la mescita giornaliera. Una scalinata, con a lato scivoli per le botti, portava in cantina, a tre piani, profonda. Nella prima sala erano depositate tre quattro damigiane pronte per sostituire quelle nel piano di sopra e gli attrezzi per fare il vino. Più sotto c’erano botti e altre damigiane.
In quell’ampia sala fredda stavano un tavolo e delle sedie, dove d’estate Gianni Bartolini, il marito della proprietaria, portava roba al fresco e si riuniva con amici a bere il vinello bianco abboccato con qualche biscotto e lumachelle, capocollo e spalletta. La sbornia era certa, insieme all’allegria e a tante chiacchiere, sempre più confuse e ciancicate in relazione ai bicchieri ingollati e ai brindisi. A sera riemergevano traballanti per andare a casa, qualcuno allegro, altri mesti, altri ancora pronti a schiaffeggiare moglie o figli al minimo accenno all’ubriachezza.
“Da Elvira”, così si chiamava l’osteria, si poteva anche mangiare e c’erano clienti fissi, soprattutto a pranzo. Erano impiegati, un paio di zitelli, gente che veniva in città e prima di tornare a casa, nel piano o in un paese vicino, mangiava un boccone. La posizione era strategica, perché da lì, lungo la Cava, era un attimo uscire o entrare in città e c’era un bel passaggio di gente.
Elvira aveva iniziato quell’attività da qualche anno, per arrotondare l’economia della famiglia, aiutata dal padre, che era stato commerciante di vino e olio e conosceva tanta gente in quel settore. Il marito Gianni era elettricista, ma non aveva una vera e propria impresa con operai e garzoni ed era rimasto artigiano, effettuava piccoli interventi ed erano più i giorni senza lavoro che quelli in cui era impegnato. La saltuarietà della sua occupazione lo rendeva disponibile per l’osteria e gran parte del suo tempo era agli ordini di Elvira.
Poi vennero due figli e Gianni si occupava di più dell’osteria, sempre sotto la direzione della moglie, non opprimente ma attenta e decisiva. Quando arrivarono i soldati nel casermone appena costruito le cose cambiarono e moglie e marito capirono che era necessario allargarsi, avere più spazio per mettere tavoli e che Gianni si occupasse soltanto di quella attività.
Comprarono un bel cellaio, grande, adiacente alla loro sala, e l’osteria assunse un aspetto accogliente e dignitoso e luminoso, con una decina di tavoli di color noce e le sedie impagliate tutte uguali. Il soffitto dei locali era a volta e i mattoni posti sapientemente a incastro da qualche artigiano tanto tempo prima garantivano pulizia, protezione dall’umidità e un bell’effetto.
In una parete era appoggiata una credenza grande, con le stoviglie, antica, trovata da qualche venditore di roba vecchia, non proprio un pezzo d’antiquariato, ma bella, con intarsi, sempre pulita. Nei cassetti le posate, non pretenziose, ma di buona qualità. Insomma, ormai era una trattoria e godeva di una certa fama in città per alcuni piatti molto apprezzati e alcuni bongustai portavano a Elvira cacciagione e carni pregiate per prepararli come sapeva fare lei.
L’ambiente della vecchia osteria era rimasto adibito all’accoglienza dei clienti di un tempo, che venivano lì a ritrovarsi, fare un quarto e qualche volta merenda. Il nuovo salone era la trattoria vera e propria, apparecchiato con le tovaglie bianche, pronto per pranzo e cena.
«Teresa, porta il mezzo litro al sor Guido. Bianco asciutto. E mettici un piattino di alici con il prezzemolo e il pane» . « Teresa, prepara due fette di pane e un quarto di rosso per Matteo. Mettici il capocollo. Se non fa una bella merenda a cena non ci arriva». « Teresa, al tavolo del fattore porta rigatoni con il sugo di maiale e poi la trippa. Fanne tre, anche per i suoi amici. Abbondante, su, svelta».
Osteria o trattoria, ormai era Teresa, la giovane figlia, che correva su e giù. Il padre si occupava della gestione, del vino, di alcuni acquisti. Elvira stava in cucina e in sala, secondo le esigenze, aiutata da una robusta signora che si era trasferita in città da un paese vicino, un aiuto sicuro, un’amica.
Teresa aveva ormai quattordici anni ed era cresciuta nell’osteria, insieme al fratello più grande, un ragazzone robusto che frequentava la scuola per geometri, con pochissimo successo, nonostante la famiglia lo incoraggiasse e tenesse moltissimo all’avvenire del figlio, il primo che studiava di tutti i parenti. Ci vollero un bel po’ di lezioni private per fargli prendere il diploma, ma alla fine trovò posto in uno studio, fece esperienza, fu assunto in Comune e si sistemò. Non fece la guerra, perché aveva un problema al cuore, trascurabile ma sufficiente per il congedo, insieme però a un bel po’ di damigiane di vino.
D’inverno, almeno un paio di volte a settimana, era a cena l’avvocato Giustinelli e il notaio Carlini, insieme a qualche amico. Potevano esserci palombe all’umbra, appoggiate su fette di pane bruscato grondante di un’appetitosa e densa salsa di cottura, quasi un salmì. Il profumo della salvia e dell’aceto folavano al naso e poi un robusto boccone riempiva di sapori la bocca, seguito da smorfie di godimenti e da sguardi di condivisione, inni silenziosi alla cucina di Teresa. Non mancavano sfilate di tordi allo spiedo, beccacce, lepre alla cacciatora, baccalà all’orvietana, trippa al sugo con pecorino piccantissimo e profumato.
Passata la guerra, si ampliò il menù. Quando era prevista la carbonara, l’avvocato e il suo cenacolo pretendevano che le finestre fossero chiuse e i piatti caldissimi, che non ci fosse dispersione di profumi e che assolutamente neppure uno spaghetto avesse il tempo per raffreddarsi.
Mai la carbonara per più di sei commensali, anche troppi secondo il notaio Carlini.
Le materie prime per le cene del cenacolo le fornivano l’avvocato, il notaio e i loro amici, ma Elvira riusciva sempre a trovare cacciagione e sfizi per gli altri suoi clienti. L’avvocato e i suoi amici le avevano insegnato uno stile e la sua trattoria era identificata come la miglior cucina della città, anche se erano sorti un paio di ristoranti di grido, più attenti alla forma, adatti per matrimoni e cresime, che ormai si festeggiavano al ristorante.
« Mamma, non ti affaticare, stai seduta. Aiuta Lea a pulire la cicoria e controlla i sughi di oggi. Al resto penso io», doveva sempre insistere Teresa. Franco detto “Bullone”, perché grosso e bullo, fruttarolo e verduraio di fiducia, portava quanto normalmente serviva e i prodotti erano sempre eccellenti. Verdure da Bolsena, frutta dalla Val di Chiana, fagioli secondi del Piano e altri legumi dell’Alfina e di Onano. Diversi contadini fornivano polli, oche e piccioni, pagati bene e sempre di qualità eccellente. Nessuno pensava di offrire alla trattora qualcosa che non fosse un prodotto freschissimo e adeguato alle sue aspettative, perché se ne sarebbe accorta e le parolacce sarebbero volate fino a piazza.
A Elvira è seguita la gestione di Teresa e “Bullone”, diventato suo marito e oggi si occupa della trattoria, la migliore della città, Giuseppe, il figlio di Teresa, cuoco diplomato, enologo, sommelier, gastrosofo, insieme alla moglie, ottima imprenditrice.
Elvira e i suoi eredi non erano diventati ricchi ma avevano trascorso una vita di lavoro onesto e di soddisfazioni economiche, quanto basta per non avere problemi, con la trattoria di proprietà e un paio di appartamenti.
Nella loro vita c’erano stati due momenti in cui si sarebbero potuti arricchire con facilità. Negli anni Sessanta tra militari, genitori di militari e parenti giunti per il “giuramento”, con qualche pollo di allevamento e roba da quattro soldi si poteva guadagnare enormemente. Tanto quelli non tornavano, una botta e via.
Elvira e Teresa non rinunciarono mai al loro stile, quello impresso dall’avvocato, e la roba che offrivano ai militari era la stessa che proponevano ai propri clienti affezionati. La seconda occasione per arricchirsi svanì da sola.
Infatti, quando acquistarono il cellaio per ampliare l’osteria, durante i lavori, Brunetto, il muratore che se ne occupava, segnalò a Gianni che nel primo piano della cantina adiacente al locale, anche quella compresa nell’acquisto, c’era un pozzo medievale.
Cominciò a raccontare quanti si erano arricchiti scavando pozzi e la quantità di cocci che si potevano trovare se si fossero imbattuti in un pozzo con roba gettata nel periodo di peste, di solito intatta. Fu concluso l’affare: il 50% a Brunetto, che se ne intendeva e aveva chi avrebbe acquistato i cocci. Nella mente di Gianni e Elvira si presentavano immagini bellissime: trattoria con un quindicina di tavoli, elegante, cameriere con divisa, avvocato e notaio in vestito da sera con i loro amici, gente alta come clienti fissi, quelli con giacca e cravatta, sguardi vogliosi e i gridolini di piacere di fronte ai loro piatti.
Scavarono due giorni. Emergevano pezzetti antichi di piatti e boccali rotti, del Cinquecento, diceva Brunetto, poi del Quattrocento, Trecento e infine del Duecento. Brunetto parlava di mastro Giorgio e dei quattrini che avrebbero guadagnato se avessero trovato un coccio della famosa bottega. Al terzo giorno una palata di terra fece emergere un tappo di birra e lo scavo finì lì.
Elvira e Gianni pensavano spesso a quella ricchezza rubata da qualcuno che aveva scavato prima di loro, ma un giorno, evocando quanto avevano desiderato se si fossero arricchiti, si accorsero di avere realizzato tutto intero quel sogno. Si strinsero le mani con forza mentre un groppo di lacrime tentava di sgorgare dai loro occhi lucidi d’amore e con voce tremante Elvira riuscì a mormorare: « Dobbiamo rimettere nel menù la carbonara, ma non più di sei coperti per ordinazione, bollente, servita nella vecchia sala, finestre chiuse. Lì l’odore del guanciale che sfrigola è un profumo struggente».