Una gran folla attendeva Gesù alle porte di Gerusalemme, diversa da quella che sarà reclutata poco dopo dai Farisei per farlo condannare. Il popolo lo accoglie come un vero re, sebbene cavalchi un puledro d’asina. Tappeti e fronde dei campi stesi a terra: “Osanna al figlio di Davide!” che vuol dire salvaci… “«Osanna nel più alto dei cieli!” e cioè la salvezza viene da Dio. Gli ebrei avevano bisogno di un capo, di un messia, di un liberatore che avrebbe cacciato gli invasori romani per restaurare finalmente il Regno di Davide.
Ma questo messia, tanto atteso, era decisamente diverso dalle aspettative. Il suo Regno infatti non doveva imporsi su nessun nemico perché i nemici dell’uomo non sono ‘fuori’ ma dentro il suo cuore dove abita l’incapacità di amare. La parola amore viene da ‘a-mur’ che significa ‘senza muro’, senza barriere; amare è dunque la possibilità di oltrepassare un muro, quello che separa gli uomini tra loro, assumendo il rischio che questo muro crolli addosso seppellendo tutto sotto le macerie. È quello che fa Gesù.
Le folle lo acclamano, addirittura alcuni greci lo cercano, tutto sembra confermare il suo successo eppure, poche ore dopo, la scelta di credere in questo amore lo avrebbe lasciato completamente solo. La solitudine di Cristo ha inizio proprio quando si riunisce con i discepoli per l’ultima cena. Nel suo percorso dalla nascita alla resurrezione fu quello il momento della crisi attraverso il quale doveva passare, il momento in cui tutto è esploso.
È stato venduto da uno dei suoi amici; la pietra, Pietro, è stato sul punto di rinnegarlo; la maggioranza dei discepoli sarebbe fuggita, escluso le donne che lo seguirono fin sotto la croce. Ebbene, Gesù non si è sottratto a questa crisi anzi se ne è impossessato. Si è impadronito del tradimento, dell’abbandono dell’amore, e ha mutato tutto in un dono: “Io mi consegno a voi mentre voi state per consegnarmi ai Romani perché mi uccidano. State per abbandonarmi alla morte ma io ne faccio un occasione per dare tutto me stesso, ora e per sempre”. L’amore vero si rivela di fronte a simili crisi dove sembra che tutto il mondo crolli all’improvviso. Aprirsi all’amore è decisamente pericoloso!
In quella notte, che la chiesa ricorda da duemila anni nella santa messa, i discepoli vissero la loro prima eucarestia vedendo e celebrando il rischio d’amare. Di fronte alla paura e all’angoscia di morire, Cristo risponde continuando ad amare e amare significa non scappare dalla vita. La ricompensa? Che senza il rischio d’amare non si capirà mai niente della vita, di se stessi, di Dio. In quella notte Dio lascia l’uomo libero di scegliere.
L’idea di un cristianesimo fondato sul ‘dono di sé’ deve sempre fare i conti con questo rischio, altrimenti si cade nell’alienazione di un’ideologia religiosa lontana anni luce dalla realtà della vita e dell’amore.
Ecco perché è molto facile credere di amare quando in realtà si è solo prigionieri di un solipsismo spirituale, un amore a senso unico, chiuso in se stesso, che non si mette mai in gioco e che quindi non rischia mai niente e per nessuno. Il filosofo e psicanalista tedesco Eric Fromm definisce l’amore molto di più che un sentimento; esso è fatto da ‘azioni’ che esprimono l’impegno di un un legame duraturo, che non si dissolve nel tempo e che soprattutto si assume il peso della vita dell’altro, delle contraddizioni e dei rinnegamenti che l’amore porta sempre con sé.
L’incapacità di amare di Pietro e Giuda nasce dalla paura di rischiare, di dare la propria vita per amore, un amore che non crolla, che non si corrompe, che non si vende, che non indietreggia. Amare è un sì alla vita al di là dei legami di sangue, al di là della biologia, al di là della genealogia. La vita umana per umanizzarsi ha bisogno di questo sì, ha bisogno che qualcuno risponda nel buio della notte, e dunque che qualcuno dia un senso alla vita: amore e fede sono intimamente legati, sono la medesima cosa.