di Dante Freddi
Il podere di Giannino Santarini era una lunga striscia adiacente al Paglia e soltanto una parte piegava sulla lieve collina, dove c’era la vigna. Era il podere per una famiglia, indirizzato all’allevamento di vacche da latte e tre o quattro vitelli da carne, oltre due maiali e gli animali da cortile per la famiglia del mezzadro e del padrone. Il piano era a grano e fieno, c’era qualche albero da frutto, niente olivi.
Non era un gran podere ma ci si poteva campare, grazie all’orto e al latte, che veniva venduto tutti i giorni anche in città e forniva qualche soldo con cui acquistare alici, baccalà, pasta, qualche vestito. L’olio bisognava comprarlo dal padrone, che aveva altri due poderi, anche se quasi sempre dava a Giannino quello vecchio, il più vecchio, al limite del rancido, convinto che tanto il suo poderato avrebbe dovuto sopportare. Le proteste di Giannino per il pessimo olio, sempre presentate con il cappello in mano in occasione della consegna di verdura, uova e polli, finivano con l’alzata di voce del padrone che negava offeso e ricordava al mezzadro che poteva andarsene al prossimo San Martino.
Il padrone, Fante Baglioni, era commerciante e sensale, il terzo di una famiglia di commercianti che si erano trovati ricchi grazie al nonno, avvocato, che si era indebitato anni prima acquistando i beni della Chiesa a quattro lire, ma che era riuscito a superare il difficile periodo di deflazione, a fine secolo, vendendo i boschi per farne legna e carbone. I poderi erano rimasti squarciati da calanchi nella zona più impervia, abbandonata al degrado, ma aveva lasciato al figlio, morto giovane, e poi ai figli di lui, tre poderi ciascuno, che curavano personalmente, insieme ad altri interessi di famiglia, come le case in città, le botteghe affittate, il negozio e l’attività di grossisti di pellame.
Quello di Giannino era il podere più piccolo dei Baglioni e questo aveva lasciato in Fante, fratello minore, la sensazione di essere stato derubato, per cui, quando poteva, rubava lui ai fratelli nelle altre attività, molto prospere grazie alla capacità imprenditoriale del primo Baglioni, il più grande, Averino, persona apprezzata e benvoluta.
Fante era convinto che i suoi furtarelli fossero in verità delle giuste riappropriazioni e quindi non si sentiva minimamente in colpa, anche se era molto accorto, perché pensava che Averino, soprattutto lui, non avrebbe capito.
«Giannino, basta con questa questione dell’olio rancido. Questa volta l’ho assaggiato prima di dartelo ed è dell’ottimo olio dell’anno scorso, tenuto in uno ziro perfetto, pulito e conservato in cantina, senza sbalzi di temperatura. Come fai a dire che è rancido? è il tuo gusto che non sa apprezzare le cose buone».
Ma non era vero, l’olio era vecchio di almeno tre anni o quattro anni. Fante si sentiva furbo e vendere l’olio rancido al suo mezzadro gli dava grande soddisfazione. Il detto, vero come il Vangelo secondo il padrone, raccontava che il contadino ha “scarpe grosse e cervello fino” e quindi sicuramente Giannino qualcosa gli rubava, anche se non se n’era mai accorto. Giannino era stato ereditato insieme al podere e da almeno una quindicina d’anni era una continua discussione, anche se indubbiamente il mezzadro era bravo a coltivare e ad accudire gli animali. Produceva un bel po’ di latte che era venduto in parte a clienti della città e in parte al caseificio del signor Bartolini, che commerciava formaggio di mucca e misto perfino a Roma.
In città il latte lo portava la moglie di Giannino, Amelia, con un carrettino tirato dalla somara. Aveva una trentina di famiglie a cui consegnare e tra andare e venire non tornava al podere prima delle dieci di mattina, anche se partiva prestissimo, a notte, dopo aver munto le prime mucche. Nei giorni di mercato, poi, faceva tutta la mattinata, perché aveva da vendere le verdure dell’orto e la frutta. In quel commercio il modo di far sparire qualche litro di latte ogni giorno era possibile e Amelia non si faceva certo rimordere la coscienza, considerate le continue sopraffazioni, economiche e morali, che doveva subire la sua famiglia. Il reddito del podere non valeva il grande lavoro, ma permetteva di far entrare qualche soldo sonante, non come quelli segnati nel libretto del padrone, che non si vedevano mai.
« Sor padrone», gridò davanti a casa di Fante il povero Giannino ansimante, « s’è rovinata una vacca, ma io sono stato attento, è lei che ha fatto una mossa sbagliata e si è rotta uno stinco. Bisognerà ammazzarla e venderla in fretta» .
« Vado subito da Giovannini e gli chiedo se me la compra e se si occupa della macellazione, senza che mi prenda per il collo. Certo ci rimetterò un bel po’ e metti in conto che la perdita la pagherai tu, perché non hai prestato attenzione al mio bene», gli rispose Fante.
« Ma sor padrone, è la prima volta che succede in tanti anni, non è colpa mia, io ci rimetto il latte che non ci sarà più e se mi fate anche pagare sarà un disastro per me».
« Non dovevi portarla a lavorare se la vacca non ti ubbidiva, che è colpa mia che non c’ero?! san Martino è vicino e non so se farai il prossimo anno. Sai quanti ne trovo di mezzadri per quel bel podere? » continuò Baglioni alle contestazioni del poderato.
I tempi erano di grandi dissidi e i socialisti erano entrati anche nelle case contadine, avevano alimentato ribellioni e quindi licenziamenti e quindi fame, per cui disperati alla ricerca di un podere ce n’erano sempre.
In più tirava aria di guerra e l’incertezza aumentava la preoccupazione e la paura dei padroni: una chiamata alle armi avrebbe svuotato i poderi, bisognava essere cauti, sopportare le agitazioni promosse dai socialisti. Nelle famiglie contadine c’era il terrore che evoca il ricordo della fame ed era tranquillo di non essere cacciato soltanto chi aveva figli e donne da lasciare a lavorare. Per gli altri era sempre più facile trovarsi in mezzo a una strada con un carretto e una vacca, tacciati da sediziosi.
Giannino era in una condizione difficile, in bilico, e i suoi interessi coincidevano sempre meno con quelli del padrone. Tutta la famiglia Baglioni era interventista, voleva la guerra, foriera di grandi affari per chi aveva attività artigianali che servivano all’esercito, come la confezione di finimenti per cavalli e carrozze e carri. Ma non era soltanto una questione di danaro, almeno non per Averino, il grande dei Baglioni, che si occupava dell’onore della la famiglia e aveva fatto arruolare il fratello mediano, il più adatto alle armi, un ragazzone vivace e aitante, più adatto alla guerra che a pensieri, di qualsiasi genere.
La situazione, vista dalla parte di Giannino, era inquietante.
A parte la guerra, di cui alcuni parlavano ma che sentiva lontana, il suo pensiero era fisso al padrone, alle liti con lui, alle offese, alle minacce, alle sopraffazioni, all’olio rancido. Tante prepotenze che non riusciva a ripagare adeguatamente con qualche furtarello e quindi quel rosichio nello stomaco non riusciva a sedarlo, sentiva che era astio, disprezzo, rancore, ma non vedeva vie d’uscita. La sua era una posizione debole. Non poteva aspirare a un podere migliore, perché i padroni si conoscevano tutti e un mezzadro considerato disubbidiente non lo voleva nessuno. E poi anche la questione della guerra giocava contro di lui.
Sua moglie avrebbe potuto fare un gran lavoro, ma il figlio aveva appena undici anni e non si poteva pensare che avrebbe potuto sostituire il padre. Il ragazzino aveva appena iniziato a lavorare nel podere, ma era ancora minuto, scarnito, e poco interessato a quella vita: avrebbe voluto andare in guerra e difendere la patria nata dal Risorgimento, come gli avevano insegnato a scuola. Un altro figlio era morto ancora piccolino, poi c’era stato un aborto e Amelia non era rimasta più incinta. Il loro era stato un matrimonio d’amore e qualche volta raccontavano a veglia come si erano conosciuti e come era sbocciato il loro sentimento.
Amelia abitava in un podere della collina, proprio vicino al paese, quattro o cinque chilometri dal fiume.
Per la festa del borgo Giannino, ormai ragazzotto, voleva fare conquiste e quella era l’occasione per affermarsi in tutta la sua giovinezza e vigoria. Si presentava bene, robusto, muscoloso, ma con un gran cespuglio di capelli ispidi sul capo. I pantaloni buoni e la camicia bianca aiutavano l’aspetto, ma i capelli disordinati rovinavano l’insieme, perché allora era di moda la capigliatura liscia e unta di brillantina. Ma la brillantina in casa non c’era, perché il padre era quasi calvo. Allora trovò una soluzione che gli parve intelligente. Con acqua e zucchero fissò robustamente la sua chioma e arrivò alla festa tirato e soddisfatto. Era un gran caldo, c’era in giro tanta roba da mangiare, insieme a cavalli e buoi e somari. Appena arrivato si accorse che qualche mosca gli girava intorno. Poco dopo erano ancora di più e poi un nugolo gli si era addirittura attaccato al capo e non lo abbandonava. Giannino faceva finta di nulla e si muoveva lesto, roteando, poi si mise a correre e risolse l’imbarazzante circostanza gettando la testa nella fontana dove si abbeveravano gli animali. Iniziò a strofinare i capelli per liberarli da quell’appiccicoso intruglio e quando riemerse la prima immagine fu quella di Amelia che rideva a squarciagola.
Il soprannome “Zucchero” non era dovuto alla sua improbabile dolcezza, ma a questo fatto curioso. Due anni dopo i due ragazzi si sposarono e andarono ad abitare nel podere Baglioni. Il padre e la madre di Giannino morirono l’anno successivo, a primavera, per una strana malattia che stava falciando la popolazione in tutto il mondo.
« Sor padrone, scordatevi che paghi io il danno della vacca. Non è giusto e vorrebbe dire un anno di lavoro senza guadagno, di tutta la mia famiglia. Il contratto non prevede che io sia il responsabile» .
Alla voce “contratto” Fante sentì l’insopportabile tono della rivendicazione, della ribellione nei suoi confronti, di lui che permetteva a quella famiglia di vivere della sua roba. Giannino calcò l’impostazione su “contratto”, a ribadire i propri diritti, pochi ma codificati in quel pezzo di carta che doveva essere rispettato, come dicevano i compagni della città e Robustino, il mezzadro del conte Giustinelli, lì a fianco di casa sua, iscritto al partito socialista. Dentro di sé la preoccupazione e la paura per il futuro incerto, che non poteva controllare, esplosero in un « Non pagherò mai, ho diritto, mai! » espresso con tanta aggressività che sembrava chissà cosa avesse detto. Fante Baglioni alzò il frustino verso il mezzadro e gli gridò « Ti do san Martino. Vatti a trovare un altro podere, pezzente incapace!».
La vendemmia quell’anno fu un’occasione triste, un lavoro di cui Giannino non avrebbe visto il risultato, e sì che l’uva era bellissima e il mosto faceva pensare a un vino eccellente e forte.
Mentre svinava la moglie preparava le poche cose che avrebbero dovuto caricare sul carro per andare a casa dei genitori di Amelia, almeno finché non avesse trovato un nuovo podere. Il padrone aveva chiuso i conti con lui e l’uva di quell’anno gliela aveva valutata una miseria, così come il grano, il foraggio e il latte. L’unica cosa che valeva nei conti era l’olio rancido del padrone. Dal conto presentato risultava che, prese due vacche, il maiale, un carro, una botticella da duecento litri di vino, Giannino aveva ottenuto anche troppo. Il mezzadro pensava che gli erano stati rubati decenni di lavoro, suo e di suo padre, che avevano valorizzato quel piccolo podere. La rabbia gli premeva dentro e gli offriva alternate immagini di giustizia e sopruso: vedeva il giudice che stava dalla sua parte e condannava il padrone, ma gli si presentava anche quella del padrone, sempre con quel suo frustino in mano, che rideva beffardo e godeva della condanna del suo mezzadro ribelle. Allora nella sua immaginazione lui bruciava la casa e il padrone per una volta soffriva, danneggiato per la perdita della sua roba. E così via, sempre più spesso, con intensità più o meno viva.
A fine ottobre, verso sera, Giannino stava tornando a casa dalla città dove aveva venduto alcune forme del suo formaggio, per fare qualche soldo. Stava attraversando il ponte sul Paglia quando dall’altra parte vide Fante che tornava in città, accompagnato da un suo operaio della pelletteria carico di cose. Erano a piedi, che poi avrebbero preso la funicolare e in un balzo sarebbero stati su in città. Il padrone indirizzò verso il mezzadro il frustino che aveva sempre con sé e gli gridò qualcosa, che Giannino non sentì bene ma che lo sconvolse e gli dette la spinta per rivolgersi con furia verso padrone, che già si stava scaraventando verso di lui, intralciato dall’operaio, il primo a trovarsi a terra premuto tra i due. La sua rabbia, superato l’operaio, si indirizzò verso Baglioni con una tale forza che lo sbalzò al di là del parapetto del ponte, giù nel fiume.
Il corpo di Fante fu trovato dopo due giorni alla confluenza con il Tevere, in un’ansa, intricato in un canneto. Giannino fu condannato a otto anni, perché la testimonianza dell’operaio attenuò la gravità del suo gesto, valutato un incidente. Scoppiò la guerra e nel ’17, dopo Caporetto, a Giannino fu proposto, come a tutti i condannati per reati come il suo, di arruolarsi per difendere la Patria e ottenere quindi l’amnistia. Dopo la vittoria, con un atto di magnanimità e di pace per un eroe contadino, come risultò essere stato Giannino, Averino Baglioni, l’unico rimasto della sua famiglia, gli riconsegnò il podere lungo il Paglia, che era rimasto senza mezzadro.
Ma la voglia di giustizia di Giannino e la paura di Averino per i “rossi” li posero su due fronti opposti, in conflitto continuo e sempre più aspro. Giannino, ormai riconosciuto capopopolo socialista, fu ucciso dai fascisti di Città della Pieve nel ’21, durante un raid nella campagna orvietana.
Il nome di una via lo ricorda, senza che nessuno sappia chi sia stato quel Giannino Santarini.