di Dante Freddi
Quell’anno la neve fu tanta, nevicò a gennaio e febbraio, per molti giorni. Il freddo gelò gli ulivi. Fu un disastro che lasciò segni profondi anche negli anni successivi.
Il peso della neve gravava sui tetti e chi poteva cercava di liberarli dal peso, o salendo dalle soffitte o menando dalle finestre più alte con pale o bastoni. Le strade principali erano state pulite un po’ dai militari, un po’ dagli operai assunti apposta e anche da chi abitava lì intorno. Cumuli di neve appoggiati ai muri lasciavano libero un passaggio angusto ancora due mesi dopo la prima nevicata. Ragazzetti cercavano qualsiasi discesa, anche la più impervia, per gettarsi con slitte arraffazzonate. Le piste erano sempre perfette, perché appena pulito un po’ nevicava di nuovo e poi gelava.
L’aria era fredda per tutto il giorno e le cosce dei bambini con i loro calzoncini corti erano rosse, bruciate da quel vento che veniva da Est. I pantaloni lunghi erano cosa da adulti, erano un simbolo di passaggio, e fino alla fine delle scuole medie, estate o inverno, quelle coscette infantili potevano ripararsi al massimo con dei calzettoni pesanti. Quando le nuvole cedevano il cielo a un sole sfolgorante, che si rifletteva nel bianco e moltiplicava il bagliore, le piazze si tingevano di un bianco abbacinante.
Allora l’aria tersa e la luce lampeggiante sembravano mitigare il freddo e qualche moccolone di ghiaccio, che scendeva dai tetti e dagli alberi, restituiva qualche goccia d’acqua. Con il sole un senso di allegria trascinava tutti, anche chi soffriva di più, perché c’era la speranza che tutto quel disagio stesse finendo. Ma quando poi la terra si univa al cielo in un unico tono plumbeo e nevicava di nuovo, con mulinelli e sferzate di vento, l’animo si assimilava a quella pesante atmosfera e la preoccupazione inondava animi sfiniti.
Ma per i ragazzi era sempre una novità e la gioia esplodeva a ogni fiocco, senza pensiero per le conseguenze, che erano cose da genitori.
«Mai sentito che uno muore per le cosce infreddolite» gridò Lucia al figlioletto che si lamentava, tutto chiuso nel suo cappottino e imbacuccato dentro un cappello di lana a quadretti, con la visiera.
« Se quando esci da scuola venissi subito a casa, invece di giocare e bagnarti, non avresti freddo. E ora su, che è quasi ora di pranzo».
Le scuole elementari della città erano aperte, a parte dopo qualche giorno di nevicate più abbondanti, che richiedevano tempo per consentire di liberare il passaggio nelle vie sommerse dalla neve. Frotte di ragazzini infreddoliti correvano saltellando col naso all’insù, alla ricerca di qualche fiocco che li avrebbe liberati da studio, maestri, far di conto e scrivere: c’era tanto da fare fuori dalla classe. Le scuole medie invece erano state chiuse e in quei due mesi ci furono soltanto una decina di giorni d’insegnamento. Molti studenti venivano infatti dai paesi intorno e le strade non erano transitabili. Magari andava bene per due o tre giorni ma poi una nuova nevicata bloccava di nuovo la vita.
Furono tempi duri per tutti.
Gli operai erano bloccati, a parte qualcuno ingaggiato per spalare la neve sui tetti, quelli più esperti, e per strada, chi era abbastanza robusto. Non c’era modo di poter lavorare. I negozi di alimentari più solidi e con i proprietari più comprensivi, dato che erano gli unici a guadagnare, aumentavano il credito ai clienti e nel libretto della spesa aumentavano le righe dei debiti. Una scrittura frettolosa e un po’ scocciata annotava: spaghetti mezzo chilo, pomodoro concentrato 2 etti, pecorino un etto, 8 alici salate, 6 uova, 2 lumachelle, un chilo di farina, due etti di strutto, un etto di mortadella, un chilo di pane. Il giorno dopo di nuovo pasta, un po’ d’olio, pane. Le donne stavano attente all’essenziale, perché poi bisognava pagare e ci sarebbero voluti mesi. Le osterie erano piene, ma beveva soltanto chi aveva quattrini o qualche amico benestante, tanto da poter offrire un quartino. Molti giocavano a carte, altri parlottavano, qualcuno bestemmiava, nonostante fosse visibile il cartello con scritto a caratteri cubitali “Vietato bestemmiare e sputare in terra”.
Per Giannino erano giorni bellissimi. Poca scuola e sempre la speranza che una forte nevicata decretasse il “tutti a casa”. A casa dalla scuola, perché i compagni erano tutti in strada a inventare giochi. Il freddo era pungente ma la fanciullezza non lo registrava. Pallate, agguati, lo slittino del figlio del falegname, la discesa bellissima che da casa di Giannino arrivava alla via principale erano preziose novità che gli scombussolavano l’animo e creavano una nuova sorta di contentezza, offerta gratuitamente dall’opportunità di tanti inaspettati giochi, disponibili a tutti, anche a lui. Molto, molto meglio di Natale e Befana insieme.
La discesa su slittino più ambita da tutti i ragazzetti della città era un viale tra il ciglio della rupe e le caserme. Lì si esibivano le slitte più belle e robuste, anche a due o addirittura tre posti. Dei ragazzi grandi la occupavano per quasi tutta la giornata e la possibilità per i bambini di giocare lì era impossibile, ma si divertivano a guardare, col naso rosso e il fiato che sbuffava nell’aria. Più vicino a casa di Giannino, dalla parte opposta, c’era una lunga via che costeggiava anch’essa il ciglio della rupe, ma era stata pulita ed era frequentata da carretti tirati da buoi, da somari, autobus, auto che portavano gente e cose.
In certi momenti, dopo un’abbondante nevicata era stupenda, ma subito operai si affrettavano a liberarla. Era l’unico accesso alla città e non si poteva giocare, tanta era la gente lì intorno, anche quando la neve cadeva densa e mulinava ed entrava da ogni parte sotto il cappotto e sferzava il viso.
Se nevicava forte Giannino doveva tornare a casa, perché Lucia voleva che tutti e due i suoi ragazzi fossero al riparo. Aveva il terrore della polmonite, malattia che le aveva portato via un fratello e che sentiva come un nemico feroce da cui doveva proteggere i suoi. Francesco, il più grande, era spesso a scazzafrulloni in quei giorni, ma aveva fama di essere una persona con la testa sul collo, sia a detta dei famigliari che degli amici che degli insegnanti. Lui non preoccupava, ma Giannino era incontenibile e si beccava scappellotti meritati da tutta la famiglia, tranne da nonna , che lo proteggeva sempre.
« Arrivo, mamma, un minuto. Arrivo».
« Vieni a casa che il babbo è arrivato», insisteva la mamma.
Dopo un po’, guardando indietro gli amici che continuavano a giocare, mestamente tornava a casa.
A pranzo un bel piatto di pastasciutta con il pomodoro o un minestrone e poi un frutto con il pane, qualche volta mortadella o formaggio o frittatina o uovo al tegamino. Tutto calcolato per poter mettere a tavola qualcosa anche a cena. La famiglia di Giannino se la cavava, perché il padre era operaio in un magazzino di materiale edile e di attrezzi per la meccanica e la campagna, per il lavoro insomma.
Aveva lo stipendio e quindi stavano tranquilli, ma Gustavo, il fratello di Giannino, frequentava il liceo classico e i libri costavano e così anche i vestiti e qualche sigaretta. Pagavano l’alimentare e il macellaio in contanti ed era gran cosa non avere debiti, che sembrava ti chiedessero sempre di pagare il conto. Ad aiutare l’economia della famiglia contribuiva anche nonna Ada, la madre di Tonino, il capofamiglia. Era vedova di guerra, il marito era morto nel ’17, disperso. Una piccola pensione, ma che alla fine del mese aiutava, senza contare che Ada lavorava il merletto e c’era sempre qualche signora che le commissionava centrotavola, guarnizioni per tovaglie, lenzuola, camicette.
« Giannino, vieni a casa, è ora di pranzo, oggi ci sono le ossa del maiale», gridò Lucia quel giorno, sapendo quanto quella pietanza attirasse il ragazzino.
Giannino, come al solito dopo qualche minuto di esitazione, rispose al richiamo e si affrettò a salire le scale di casa del palazzo, dove abitava al quarto piano. Verso quell’ora, anche se durante la mattinata aveva girato mezza città, si trovava sempre nella piazzetta sotto casa, dove c’era anche un meccanico, il sor Bruno, che controllava tutti i figli dei dintorni.
Arrivò al pianerottolo, sbatté bene i piedi innevati sullo zerbino ed entrò in casa, si tolse il cappotto e corse in cucina a baciare la mamma e la nonna, dopo aver salutato il babbo. Erano tutti pronti per mangiare e Lucia pose al lato del marito il pentolone fumante con dentro le ossa del maiale fumanti e vicino a lei una padella con broccoli cotti nel vino e profumati con finocchietto secco. I ragazzi porsero i piatti e Tonino scelse per i ragazzi le ossa più ricche, con qualche pezzetto di magro e nervetti e cartilagini. A Gustavo toccò anche mezzo zampetto con la sua cotica succulenta. Mangiarono tutti con grande soddisfazione, perché quelle ossa fumanti condite con il sale e accompagnate da qualche boccone di pane fresco erano considerati dalla famiglia una rarità, perché effettivamente non era facile averli e ci volva una lunga prenotazione. Doveva capitare che il macellaio usasse tutta la carne per salami, salsiccioni, salsicce e carne fresca e allora qualcosa rimaneva intorno a quelle cartilagini. Al centro della tavola una zuppiera raccoglieva le ossa spolpate e leccate.
Dopo pranzo Giannino si ritirò nella camera che divideva col fratello e dalla finestra vide, nel grande piazzale di fronte, al di là della via, i seminaristi che erano scesi per giocare a pallate. Quel piazzale era del seminario vescovile e tutti i giorni, a quell’ora, i ragazzi che studiavano lì si svagavano con il pallone o con quello che c’era. Si erano create due fazioni e da una parte e dall’altra piovevano gragnuole di neve. Un amico di suo fratello stava da una delle parti e lui, intenzionato ad aiutarlo, preparò tre o quattro palle e le tirò contro gli avversari. Questi iniziarono a lanciare nella sua direzione e Giannino si affacciò alla finestra, per raccogliere sul davanzale quanta neve potesse e quindi rispondere. Perse l’equilibrio e cadde dal quarto piano. Le urla dei seminaristi, che avevano veduto il fatto, richiamò la madre. Entrò nella camera, si affacciò istintivamente alla finestra aperta, vide il corpo, iniziò a urlare disperatamente chiamando il figlio. Accorse il meccanico, scesero in un attimo il padre e il fratello e immediatamente portarono il bambino all’ospedale, distante un paio di cento metri, tenendolo in braccio. All’ospedale chiamarono il cappellano per l’estrema unzione, perché Giannino respirava ma era privo di sensi. La caduta sull’alto mucchio di neve fresca accostata al muro del suo palazzo aveva permesso che non ci fossero ferite evidenti, ma tutti disperavano che il bambino si sarebbe salvato. “Chissà quante lesioni interne”, pensarono tutti. Quando arrivò don Domenico, Giannino stava seduto sul letto e il medico lo toccava in ogni parte del corpo per verificare le ferite che aveva riportato: nessuna. Era soltanto un po’ impaurito.
Don Domenico gridò che era stato un miracolo, che era resuscitato dalla morte, come Lazzaro.
Da quel giorno Giannino rinacque come Lazzaro, il nome che si portò dietro con orgoglio per tutta la vita.