di Dante Freddi
Si entrava nell’osteria della sora Pompilia da una porta a vetri a due ante, di legno verniciato color verde . La sala era grande, c’erano almeno sei o sette tavoli quadrati, e in fondo un’altra stanza stretta, anticipata da due gradini, con un bancone di marmo, lungo, interrotto da un grande lavabo e da una stufa economica. Da lì si arrivava anche al giardino, utilizzato in estate, coperto da un alto pergolato di uva pizzutella.
Pompilia e il marito abitavano in un appartamento a cui si accedeva dal giardino attraverso una ripida scalinata, posta sulla sinistra dell’accesso a quello scoperto. Sotto la scalata un locale dove lei conservava i prodotti che vendeva: olio, vino, legumi, a volte farine, frutta e verdure. Il marito dell’ostessa, Orazio, era fattore del conte Lupattelli e quell’immobile era proprietà dell’azienda agricola che dirigeva. Intorno al giardino c’era un muro per due lati e sopra case, di diversi proprietari. Erano del Conte gli altri due lati, alcuni magazzini riservati all’osteria, la cantina, profonda, scavata nel tufo chissà quando, la casa del fattore e un appartamento dove abitava un famigliare del conte, un cugino tenuto in gran conto, docente apprezzato nel locale liceo, il professor Giovanni Bambini, insegnante di storia e filosofia.
La sala dell’osteria era pulita, ordinata, il pavimento in mattoni ben mantenuti, ma vecchi. In una grande nicchia del muro, chiusa da una finestrella, si vedevano grossi vasi di vetro con dentro lumachelle, biscotti salati con l’anice, tozzetti, maritozzi, ciambelle. Preparava tutta quella roba l’ostessa e la cuoceva nel forno a legna in fondo al vicolo, dove un pasticcere faceva le paste per alcuni bar e cuoceva anche per terzi. Lì abbrustoliva i semi di zucca Olindo, che li vendeva dinnanzi al cinema Palazzo. Li acquistava anche Pompilia per i suoi avventori, ben salati, ché aumentavano la sete.
Bambini, il professore, entrava in casa da un portoncino lungo il vicolo, adiacente all’entrata dell’osteria, ma c’era una porta anche sullo stesso pianerottolo del fattore, scomodissima e inutilizzata perché bisognava attraversare l’osteria. Alto, asciutto, sempre ben vestito, giacca e cravatta, maglioni preziosi. Dal viso regolare emergeva una bellezza tradizionale, scontata, ma che attirava tutte le donne che lo conoscevano. E poi un comportamento delicato, gentile, aggraziato. Insomma, un bell’uomo, un buon partito, che era arrivato alla maturità, oltre i trent’anni, senza fidanzate fisse e storie importanti.
Gli avventori abituali si dividevano in categorie a seconda dell’orario della loro frequenza. Al mattino muratori che non lavoravano, quando pioveva e non si poteva stare all’aperto, e disoccupati cronici. Anche operai che passavano per fare colazione e, soprattutto il giovedì e il sabato, contadini che venivano in città per portare verdure e uova e animali da vendere al mercato o da consegnare al padrone, in rispetto alla “regalia” prevista dal contratto di mezzadria. L’offerta culinaria era semplice ma buonissima, tanto che l’osteria “ La vigna”, così chiamavano il locale alcuni per via di quelle viti di pizzutella in giardino e così si era denominata ufficialmente, aveva fama di offrire la migliore trippa al sugo del paese, insieme a coratella e fagioli con le cotiche. A metà mattina per molti la giornata era cominciata da ore e quindi un piatto di trippa o di coratella o una fettina di fegato sulla piastra, accompagnanti da un quartino o due di bianco, erano un appuntamento consueto e desiderato. Nel pomeriggio arrivava qualche raro pensionato a giocare a carte, ce n’erano pochi, ma era dopo il tramonto d’inverno e un paio d’ore prima di cena d’estate che il locale si riempiva di gente e di fumo e di chiacchiere, intercalate da vigorose quanto inconsapevoli bestemmie. Non si salvava neppure un santo e gli accostamenti erano fantasiosi, a volte geniali, perdonabili perché risultato più dell’ignoranza e dell’abitudine che di volontà blasfema.
Francesco, detto “Zeppa”, il falegname, arrivava spesso con un cartoccio di porchetta, un cartoccino più piccolo di sale e un paio di fette di pane. Si faceva il mezzo litro mordicchiando la sua merenda e c’era sempre qualcuno che approfittava e gli prendeva furtivamente un pezzo di fegatello o una crosticina o una presa di finocchio e budelluzzi, salata e pepata da lessare il palato. Ma un bicchiere di bianco asciutto e gagliardo risolveva ogni problema. Francesco era zitello e quella merenda era spesso la cena, che alternava a volte con tre o quattro salsicce barzotte o secche, mazzafegate, mortadella, un paio di lumachelle o con qualche avanzo del menù che l’osteria aveva cucinato a pranzo.
Era benestante, nel senso che aveva casa sua e mangiava tutti i giorni, non aveva debiti e anzi contava un bel po’ di crediti perché tutti, chi poteva e chi no, gli faceva allungare il collo per riscuotere. Aveva la bottega nel vicolo adiacente a “La Vigna”, in fondo, a una cinquantina di metri. Era amato da tutti i ragazzini di quelle vie, perché spade e pugnali venivano tutti dalla sua bottega. Era il fornitore d’armi, che regalava in cambio di una corsa a prendere le sigarette o un panino o quello che gli serviva.
Basso, tarchiato, con un ciuffo di capelli da una parte uno dall’altra della testa calva, faceva il burbero per salvarsi dai ragazzi, ma era una persona che amava tutti e non aveva mai avuto la possibilità di litigare con nessuno. Non sparlava, non raccontava pettegolezzi e quando questi giravano nell’aria come frecce, si ritraeva, non commentava, non voleva sapere, non voleva sentire. Erano sempre cattivi pensieri, perché si trattava di corna o di debiti, sempre di cattiverie, quelle che gli sfortunati sanno tingere spesso con il loro dolore.
Zeppa giocava a carte in coppia con il meccanico, Faustino, “Spinterogeno”, perché nell’analisi delle auto in panne decretava sempre « Potrebbe essere lo spinterogeno» . Allegri, corretti, simpatici, sorridenti sia che vincessero che no. Con loro lo sfottò non funzionava e sembrava quasi fossero contenti quando dovevano pagare il mezzo litro. Costituivano una coppia educativa, perché chi giocava con loro non bestemmiava, non si arrabbiava, passava davvero un’oretta serena. Faustino aveva anche due apprendisti e la sua bottega andava bene. Cominciavano a esserci in giro moto e motorette, qualche auto.
Sposato, due figli maschi che studiavano, la moglie deliziosa, che veniva da un paese del Reatino e che aveva conosciuto da militare. Marta infatti si era trasferita a Roma dalla sorella, sposata lì. Lavorava in una trattoria, dove aveva conosciuto Faustino, sergente di fanteria. Si erano innamorati e sposati in pochi mesi, prima della guerra, e messo subito al mondo un paio di figli, tra una licenza e un’altra del sergente meccanico, responsabile di un’officina e di molti uomini. A Orvieto Marta era serena, per quanto può esserlo una donna con famiglia e un marito in guerra. Si era fatta volere subito bene da tutti i famigliari del marito e dagli amici. Unico problema: era bellissima e le due gravidanza l’avevano resa ancora più attraente, suscitando ovviamente qualche gelosia femminile e qualche desiderio maschile, mai incoraggiato in alcun modo. Attentissima al suo ruolo di moglie, tendeva a nascondere la sua floridezza, a non incoraggiare doppi sensi, a non esagerare con la confidenza. Ma lo faceva con tale garbo che gli uomini non si sentivano mai respinti, ma amici apprezzati. Anche Faustino era quello che si dice “un bell’uomo” e perfino i figli erano belli, educati, gentili. Una famiglia straordinaria, nel senso che non ce n’erano molte così complessivamente fortunate.
I figli di Marta e Spinterogeno avevano ormai sette e nove anni, erano praticamente autonomi e la madre avrebbe voluto trovare un lavoro. Erano tempi in cui c’era da fare e lei si presentava bene, era sveglia, attenta a come andava il mondo, aveva frequentato le scuole medie e quindi poteva aspirare anche a un lavoro d’ufficio.
« Faustino, penso che ora che ho più tempo libero, dovrei cercare un lavoro e mettere da parte i soldi per farci una casa. Siamo giovani e abbiamo la forza e la salute necessari» .
Con queste o altre parole la ragazza infilava sempre questo pensiero nei ragionamenti in cui i due organizzavano la vita della famiglia. « Non voglio evadere dai miei compiti di madre e moglie, ma non mi basta essere una casalinga». E poi «Posso guadagnare e aiutarti, ma anche imparare cose, conoscere gente che lavora, che vede il mondo da tanti punti di vista». «Non abbiamo bisogno che lavori, magari ci vorrà qualche anno di più per fare casa, ma l’officina va bene» e « Ti stancheresti troppo a lavorare e badare a noi. Sei fortunata che non ne abbiamo bisogno, come tante famiglie che sennò non tirano avanti. Cosa ti manca? », rispondeva Faustino.
Quel “cosa ti manca” era la domanda più difficile a cui rispondere.
Qualche parola sbagliata e sarebbe stato facile offendere Faustino, che si sentiva un capofamiglia di successo, anche in confronto a tanti suoi amici e conoscenti. Marito e figli sani e belli, una attività prospera, che c’era da desiderare? Così dicevano le amiche di Marta ogni volta che ne parlava ed era difficile far capire quel vuoto che sentiva dentro, che le rodeva la serenità. Il marito di sua cognata, Susanna, era muratore, lavorava quando era possibile, però bisognava mangiare tutti i giorni. Con lei era difficile parlare di certi bisogni, non poteva capire, anche perché si ammazzava a tirare su tre figli, pulire una banca alle cinque della mattina e poi iniziare la giornata da casalinga.
Erano almeno un paio d’anni che andava avanti in quel modo, finché ebbe un’idea così brillante che Faustino dovette cedere: prendere la rappresentanza disponibile della Lambretta, fabbricata da un’azienda che si chiamava Innocenti. Una motoretta che si poteva vendere bene, trascinata dal successo della Vespa Piaggio. Non era la Vespa, certo, ma piaceva e c’erano i vespisti ma anche i lambrettisti, che raccontavano come le loro fossero scelte di vita. Marta non aveva capito la questione della scelta di vita, ma assecondava i suoi clienti e Faustino garantiva l’assistenza alla Lambretta con il massimo livello di professionalità.
Costituivano ormai una coppia solida anche nel lavoro e l’esposizione della bellezza di Marta, ormai apprezzata da molti, non aveva minimamente scalfito quell’equilibrio. E sì che c’era gente che comprava la Lambretta anche soltanto per vedere e parlare con la moglie del meccanico, sperando di entrare nelle sue grazie e che poi, “da cosa nasce cosa”. Si fermarono tutti a “cosa” e maggiore era il successo della loro azienda e maggiore era il legame tra la donna e il suo meccanico. All’amore si era assommata la stima reciproca in ogni campo, al desiderio l’ammirazione per la comune capacità di vivere la loro vita con serenità. Non c’era spazio per estranei.
Anche il professor Bambini aveva comprato la Lambretta e tentato un modesto approccio con Marta, ma l’esperienza gli aveva subito consigliato di perdere tempo. Non c’erano i segnali. Secondo la sua teoria, richiamando con un ammiccante « micio micio, micio micio», alla fine un gatto rispondeva e miagolava implorante. Con questa tecnica del “micio micio”, invitando tutte quelle che gli piacevano, una donna per allietare le sue giornate da scapolo la trovava sempre. Abbandonata l’idea di Marta, si dedicò quindi a Pompilia e lì trovò un ambiente favorevole.
L’ostessa era sposata da due anni e il marito, di dieci anni più vecchio, l’aveva scelta tra le contadine più piacenti e intraprendenti dei poderi che frequentava. Aveva preso le redini dell’osteria, rilevata dal vecchio gestore ormai troppo stanco, con decisione e capacità e in un anno aveva cambiato destino al locale. Acquistava e vendeva di tutto, aveva occhio per gli affari, teneva tutto pulito, aveva quello che gli avventori chiedevano e se non lo aveva dopo pochi giorni sarebbe apparso tra i suoi generi. Quell’anno vendeva anche panettoni, dolce costosissimo, ma richiesto da clienti che non frequentavano bar.
« Signora Pompilia, quest’anno niente maccheroni con le noci, a Natale voglio un panettone», affermò con decisione il professore affacciato sul pianerottolo che aveva in comune con lei. « Mi farebbe davvero piacere che a questo acquisto ci pensasse lei che sa scegliere sempre il meglio per noi suoi clienti» continuò. « Professore, avevo intenzione di tenere qualche panettone Motta per queste feste e la sua richiesta mi conforta. Tra un paio di giorni ce li avrò. Grazie», rispose Pompilia frettolosamente e la sera aveva già affisso in sala un manifestino dove annunciava la disponibilità di panettoni Motta a buon prezzo.
Nel podere, con il padre e tre fratelli, di cui uno sposato, aveva avuto una vita grama e quella storia di mangiare sempre una mezza porzione, come tutte le donne, anche se lavorava per due, la sentiva come un’offesa e una prevaricazione. Non era questione di fame, non ne aveva mai sofferto, ma di giustizia. E quando a un padre si aggiungevano anche tre fratelli grandi lo spazio per vivere risultava davvero angusto. Che era una ragazza vivace e intelligente si erano accorti tutti e la sua esuberanza infastidiva un po’ anche i fratelli, alquanto cupi e tardi, ma di più la cognata, moglie del più grande. La situazione era insopportabile e non vedeva intorno possibilità di liberarsi in fretta cercando un suo coetaneo, che tra l’altro non le avrebbe garantito che fatica e sottomissione, sempre mezza salsiccia e mezza fetta di cacio.
Alle prime attenzioni del fattore cedette subito con generosità e dopo qualche mese il sor Orazio divenne suo marito. Affascinante com’era si meritava un fattore, dicevano tutti. Capelli rossi arricciati, pelle bianchissima con qualche lentiggine, volto ovale, occhi marroni, alta come un uomo, fisico asciutto e nervoso, prospera nei punti giusti, allora diciottenne, conquistò subito il miglior partito disponibile, che era il suo fattore. Parlava correttamente, alle elementari aveva imparato a scrivere bene e a far di conto e la maestra l’aveva anche iniziata alla lettura, regalandole tre o quattro libri su cui la sua fantasia aveva imparato a viaggiare.
Adesso, nei momenti liberi si attaccava al libro che stava leggendo e che le consigliava una libraia con cui era diventata amica. Libri d’amore, dove non c’era il sor Augusto ma giovinotti audaci, coraggiosi, innamorati. Non aveva capito subito il significato di innamorato, ma sapeva che era diverso dal sentimento che nutriva per il marito, a cui comunque voleva bene. Augusto era arrivato ai trent’anni senza sposarsi perché non aveva mai trovato la donna giusta e perché di donne ne aveva in abbondanza, data la figura che ricopriva negli otto poderi che gestiva. Diplomato in agraria, era il figlio del vecchio fattore, prematuramente scomparso.
Uomo dall’aspetto piacevole, robusto, capelli nerissimi. Intelligente, capace, importante nel suo mondo, girava a cavallo e con un’auto con cui arrivava in campagna dalla città. Il matrimonio aveva frenato la sua esuberanza e lo aveva reso più cauto, per rispetto nei confronti di Pompilia ma anche perché non voleva sfigurare agli occhi del conte Lupattelli, bacchettone e baciapile, che gli aveva concesso la fiducia e quel lavoro. Nell’osteria aiutava Pompilia una ragazza che le avevano affidato le monache di san Giovanni, che si occupavano di ragazze sole, Santina. Quattordici o quindici anni, minuta, forse bella, ma bisognava scavare nella trasandatezza in cui versava, Pompilia la sentiva come sorella più piccola e la proteggeva con grande trasporto da qualche avventore un po’ sgraziato.
«Santina, guarda un attimo, devo portare il panettone al professore», gridò Pompilia infilando in un dito il cordoncino a capo della confezione. Salì le scale, suonò, era primo pomeriggio, lui ci sarebbe stato sicuramente. « Professore» gridò con convinzione «sono Pompilia, ho il panettone!». Bambini aprì la porta dopo pochi istanti. « Grazie signora Pompilia, grazie. Vi prego, entrate, non lì sulla porta, mi fate fare la figura del villano», le rispose stendendogli la mano. Lei la prese, come se avesse bisogno di sostegno. Era liscia, calda, rassicurante. Non stringeva, segnalava disponibilità e cortesia, la invitava nella casa di lui. «Segnate nel mio conto mensile e, se lo fate per i vostri clienti, pensate a qualcosa di buono per me da mangiare per la vigilia. Mi raccomando, di magro». « Professore, va bene minestra di ceci e mosciarelle e poi, per secondo, baccalà fritto? sentirete, io faccio la pastella profumandola anche con rosmarino tritato e qualche goccia d’aceto. Sentirete!». «Va benissimo. Non troppa roba, ché la sera sono a cena con mio cugino».
Il giorno della vigilia Pompilia arrivò con un vassoio, chiamò, il professore aprì, lei entrò, posò il vassoio e poi frettolosamente stava per uscire quando lui le porse la mano salutandola. Lei la strinse quella mano e le entrò nel cervello. Pensava a quel calore sul suo corpo, sul suo viso, alle carezze che quelle dita avrebbero potuto regalarle. Ritornò correndo di sotto, nel salone, turbata.
« Cosa mi fate di buono per pranzo? » era diventata una domanda che attendeva con ansia e che lui le porgeva sempre più frequentemente. Lei pensò che si stesse innamorando, perché riconosceva i segnali che aveva letto nei suoi libri. A Carnevale si presentò alla porta del professore con un vassoio di castagnole rigogliose, gonfie, invitanti. « Grazie signora Pompilia, grazie. Grazie Pompilia», le disse porgendole la mano. Lei la strinse, lui la tirò a sé e la baciò. Fino a inizio estate non c’era squisitezza che il professore non gustasse, anche due volte al giorno. Sicura di sé e della sua bellezza, che perfino il professor Bambini stava apprezzando, si dedicò al marito con attenzioni e delicatezze che tirarono fuori dal fattore una dolcezza nascosta e modi di fare, l’amore e la vita, che lei non aveva ancora conosciuto.
Pochi giorni dopo il Corpus Domini, una mattina si presentò con animelle e fiori di zucca fritti. Erano ancora bollenti, gli porse il piatto, lo baciò, lo strinse a sé e gli disse nell’orecchio, invaso dal calore del suo respiro: «Giovanni, mi hai fatto conoscere l’amore, grazie. Ma questo amore ora lo provo anche per Orazio, l’ho riconosciuto, e quindi queste squisitezze d’ora innanzi saranno soltanto per lui, che mi dona anche serenità, allegria, rispetto. Addio amore mio».
Da quel giorno il professore dovette accontentarsi di quello che c’era in osteria, niente più castagnole a carnevale, frittelle di san Giuseppe, pizza di Pasqua dolce e con formaggio, agnello alla bujona e tagliatelle con le rigaglie, le lumachelle più ricche di formaggio e prosciutto, le prime fragoline selvatiche, le ciliegie di Celleno.
A settembre il professore si trasferì a Roma, il gusto mortificato e l’orgoglio offeso.